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  Scheda  
12 Maggio 2020


Oscuramento di annunci online per la vendita di mascherine, farmaci non autorizzati e falsi kit per diagnosi di COVID: un provvedimento del GIP di Milano

G.I.P. Milano, 2 aprile 2020, giud. Salvini



1. Per la rilevanza nell’attuale emergenza da COVID-19, segnaliamo ai lettori un provvedimento cautelare emesso dal G.I.P. di Milano, con il quale si convalida il sequestro preventivo, attraverso oscuramento, di un’ottantina di pagine web (alcune con proprio dominio, altre ospitate da provider tra i quali Amazon, Ebay e Alibaba) sulle quali erano stati messi in vendita mascherine, gel disinfettante, farmaci non autorizzati asseritamente “anti-COVID” (in particolare, l’Avigan) e falsi kit per la diagnosi del virus.

Il giudice, nel convalidare ai sensi dell’art. 321, comma 3-bis, c.p.p. il sequestro d’urgenza effettuato dalla polizia giudiziaria, riteneva sussistente il fumus commissi delicti con riferimento a diverse fattispecie di reato, a seconda della categoria merceologica del bene offerto e delle modalità della vendita:

- quanto agli annunci riguardanti mascherine e gel disinfettanti, considerati beni di prima necessità per la prevenzione sanitaria, il reato ipotizzato è quello previsto dall’art. 501-bis c.p., poiché la vendita a prezzi esorbitanti, superiori al 150% rispetto al prezzo corrente prima dell’epidemia, sarebbe stato idoneo a determinare rincari e rarefazione di tali beni sul mercato;

- con riferimento alla vendita del farmaco Favipiravir (nome commerciale Avigan), il G.I.P. ritiene che sono rinvenibili gli estremi delle fattispecie criminose previste dal d.lgs. 219/2006 (Attuazione della direttiva 2001/83/CE (e successive direttive di modifica) relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonche' della direttiva 2003/94/CE), all’art. 147 comma 2 (vendita di farmaci non autorizzati) e comma 4-ter (vendita online di farmaci da parte di soggetti non autorizzati);

- infine, la messa in vendita online di kit diagnostici descritti come idonei ad eseguire in tempi rapidi una diagnosi dell’eventuale contagio costituirebbe frode nell’esercizio del commercio (515 c.p.), nella sua forma tentata, non essendo stato possibile accertare se e quanti prodotti fossero stati effettivamente venduti e consegnati.

 

2. Nell’ipotesi accusatoria, convalidata dal G.I.P. milanese, in relazione alla vendita a prezzi esorbitanti di mascherine e gel disinfettanti, sarebbe configurabile il reato di manovre speculative su merci, che punisce chi «nell'esercizio di qualsiasi attività produttiva o commerciale, compie manovre speculative ovvero occulta, accaparra od incetta materie prime, generi alimentari di largo consumo o prodotti di prima necessità, in modo atto a determinarne la rarefazione o il rincaro sul mercato interno». Le manovre speculative sarebbero consistite nell’accaparramento delle mascherine e dei gel disinfettanti poco prima (ed in previsione) dello scoppiare dell’emergenza e nella successiva rivendita ad un prezzo superiore del 150%-1000% rispetto a quello di acquisto. Tale meccanismo sarebbe stato idoneo a favorire il rincaro e la rarefazione dei beni di prima necessità sul mercato interno, poiché «i rivenditori, in questa situazione, hanno interesse a immettere sul mercato una quantità limitata per volta, in modo da poter tenere elevato il prezzo».

La giurisprudenza – benché si sia raramente confrontata con la fattispecie in esame – ha adottato un’interpretazione piuttosto estesa dell’elemento oggettivo delle “manovre speculative”, tanto da farvi rientrare, astrattamente, anche «l'aumento ingiustificato dei prezzi causato da un singolo commerciante, profittando di particolari contingenze del mercato» (Cass., Sez. VI, 15/05/1989). Più controverso è invece il significato da attribuire all’espressione «in modo atto a determinarne la rarefazione o il rincaro sul mercato interno». Vi è infatti un indirizzo ermeneutico che vede nella fattispecie di cui all’art. 501-bis c.p. un reato di pericolo concreto – per l’integrazione del quale è necessario dimostrare che le manovre speculative determinino un concreto pericolo di turbamento del mercato e dei meccanismi di domanda-offerta dei suddetti beni[1] – e un diverso orientamento, a cui il G.I.P. milanese implicitamente aderisce, per il quale è sufficiente dimostrare l’astratto pericolo di lesione del bene giuridico dell’economica pubblica[2].

Le due distinte posizioni coesistono nella giurisprudenza italiana, tanto che recentemente, proprio sul tema della vendita di mascherine, vi sono state pronunce di segno opposto (vd. su questa Rivista ord. G.I.P. Salerno, 2 aprile 2020, con commento di A.R. Castaldo e F. Coppola e Trib. Lecce, Sez. Riesame, ord. 21 aprile 2020, con nota di F. Lazzeri, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti sulla problematica)[3].

 

3. Per quanto riguarda le ipotesi di reato previste dalla normativa speciale, il d.lgs. 219/2006 stabilisce all’art. 6, comma 1, che «Nessun medicinale può essere immesso in commercio sul territorio nazionale senza aver ottenuto un'autorizzazione dell'AIFA o un'autorizzazione comunitaria a norma del regolamento (CE) n. 726/2004», prevedendo, in caso di violazione, «l'arresto sino a un anno e […] l'ammenda da duemila euro a diecimila euro […]» (art. 147, comma 2, d.lgs. 219/2006).

L’Avigan è un antivirale di origine giapponese, giunto recentemente all’attenzione della cronaca per le sue presunte proprietà di contrasto al Coronavirus. Al momento, tuttavia, non esistono studi clinici che dimostrino l’efficacia e la sicurezza del farmaco nel trattamento del COVID-19 e l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ne ha consentito la sperimentazione su un campione di soggetti contagiati, non autorizzandone, invece, la commercializzazione al pubblico.

Inoltre, dal momento che gli annunci non erano stati pubblicati da farmacie o parafarmacie, nei confronti degli offerenti appare configurabile il delitto previsto dall’art. 147, comma 4-ter, d.lgs. 219/2006, che prevede che «Fatta eccezione per le farmacie e gli esercizi commerciali di cui all'articolo 5, comma 1, del citato decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, [essenzialmente, le parafarmacie] salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, sul territorio nazionale, mette in vendita medicinali al pubblico a distanza mediante i servizi della società dell'informazione è punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da euro tremila a euro diciottomila».

 

4. Infine, il G.I.P. di Milano ritiene sussistente il fumus del delitto di frode nell'esercizio del commercio in relazione alla messa in vendita di kit diagnostici descritti come in grado di fornire in pochi minuti una diagnosi dell’eventuale infezione da COVID-19. Nonostante siano in corso diverse sperimentazioni, ad oggi l’unico sistema attendibile per l’individuazione del contagio è quello rappresentato dall’analisi dei tamponi in laboratori specializzati. Per questo motivo, afferma il decreto, «l’offerta di prodotti per la diagnosi “fai da te” rappresenta un indubitabile inganno per i consumatori che si rivolgono alle piattaforme online, non potendo avere tale qualità, dichiarata dall’offerente». Il reato sarebbe configurabile nella forma del tentativo, poiché l’art. 515 c.p., per essere integrato, richiede la consegna della merce all’acquirente, circostanza che non è stato possibile accertare in fase di indagini preliminari[4].

Vi è da rilevare, a tal proposito, che, in un caso come questo, la condotta illecita potrebbe forse essere qualificata più correttamente ai sensi dell’art. 640 c.p., atteso che non si è di fronte ad una semplice esecuzione sleale di un contratto (ipotesi che ricorre quando il bene consegnato è difettoso o di qualità differente rispetto a quello oggetto di contrattazione) ma ad un raggiro che si sviluppa piuttosto nella fase di formazione del consenso. In virtù della clausola di sussidiarietà espressa («qualora il fatto non costituisca un più grave delitto») contenuta nell’art. 515 c.p., la fattispecie di frode in commercio è applicabile soltanto in via residuale, ogniqualvolta il più grave reato di truffa non possa ritenersi integrato, come nei casi in cui l’induzione in errore riguardi l’esecuzione del contratto e non la sua conclusione[5]. A tal riguardo, la Cassazione ha affermato che «la frode in commercio si concretizza nella consegna di una cosa diversa da quella dichiarata o pattuita e presuppone un vincolo contrattuale costituito liberamente senza il concorso di artifizi o raggiri, mentre si realizzano gli estremi della truffa contrattuale quando sia stato l'inganno a determinare la conclusione del contratto» (Cass., Sez. III, ud. 16/07/2015, dep. 07/10/2015, n. 40271; Cass., Sez. III, 19/12/2002, dep. 05/02/2003, n. 5438, in quest’ultimo caso la Cassazione escludeva la sussistenza della frode in commercio in relazione alla vendita di un prodotto cosmetico che non aveva le proprietà descritte dai produttori, qualificando invece la condotta illecita ai sensi dell’art. 640 c.p.).

L’induzione in errore si atteggia, dunque, in maniera diversa nelle due fattispecie: nella truffa contrattuale, incide sulla formazione del negozio giuridico, nella frode in commercio interviene nella sua esecuzione. Se è vero, come afferma il provvedimento cautelare, che al momento del sequestro non esistevano kit diagnostici rapidi efficaci, il venditore ha indotto in errore il potenziale acquirente sulle proprietà stesse del bene, attraverso artifizi e raggiri consistiti principalmente nella descrizione di funzionalità che il prodotto di certo non poteva avere.

La fattispecie di cui all’art. 515 c.p. presuppone un giudizio di comparazione tra due beni, quello offerto in vendita (che esiste ed è in commercio) e quello effettivamente recapitato, difforme dal primo: la giurisprudenza ha riconosciuto la frode in commercio, ad esempio, nel caso di consegna di una mozzarella qualificata come di “bufala campana d.o.p” prodotta con latte bufalino surgelato, anziché fresco (Cass., Sez. III, 17/06/2004, dep. 25/08/2004, n.34936), nel caso di acquisto di “Prosciutto di Parma d.o.p.” e consegna di prosciutto proveniente dalla zona geografica di Parma, ma non avente il marchio d.o.p. (Cass., Sez. III, 17/05/2001, dep. 07/06/2001, n.23008), o, ancora, nella vendita di confezioni di olio di oliva “lampante” recanti la dicitura “vergine” (Cass., Sez. III, 09/06/2005, dep. 12/10/2005, n.36954). È evidente la distanza che separa i casi suddetti dall’ipotesi in esame – e non solo per la maggiore riprovevolezza che suscita la condotta di chi si approfitta delle condizioni di vulnerabilità psicologica in cui molti cittadini, in questo momento, si trovano.

La differenza è sostanziale, dal momento che l’annuncio di vendita di kit diagnostici traeva in inganno gli utenti proprio sull’esistenza e sulla disponibilità di essi, non sulle mere caratteristiche dell’oggetto che sarebbe stato consegnato (tanto è vero che la polizia giudiziaria ha proceduto ad oscurare i siti web senza aver verificato che i beni consegnati o da consegnare avessero qualità diverse da quelle descritte negli annunci).

Uno spazio per l’applicazione dell’art. 515 c.p. vi sarebbe stato soltanto nell’ipotesi in cui kit diagnostici effettivamente funzionanti fossero già in commercio e il venditore avesse inviato al consumatore un prodotto guasto o difettoso.

La qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 640 c.p., non avrebbe, in ogni caso, reso improcedibile l’azione penale per difetto di querela, poiché nel caso di specie è senz’altro configurabile la circostanza aggravante dell’«avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa» (art. 61, n. 5, c.p.), che – richiamata nel comma 2, n. 2-bis, dell’art. 640 c.p. – rende il delitto di truffa procedibile d’ufficio. È ormai pacifico, infatti, l’orientamento della Corte di Cassazione in base al quale è sempre rinvenibile l’aggravante della minorata difesa nelle truffe perpetrate online, trovandosi il delinquente «in una posizione di forza e di maggior favore rispetto alla vittima, [che gli consente] di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi comodamente alle conseguenze dell’azione» (Cass., Sez. II, 29/09/2016, dep. 14/102016, n. 43705; Cass., Sez. VI, 22/03/2017, dep. 10/04/2017, n. 17937; Cass., Sez. II, 17/09/2019, dep. 6/11/2019, n. 45115).

 

5. In conclusione, può essere utile un accenno in merito alla peculiare modalità di sequestro preventivo disposta dalle autorità procedenti, consistente nella rimozione degli annunci di vendita tramite oscuramento delle pagine web interessate.

In merito alla possibilità di procedere al sequestro preventivo dei siti internet si sono pronunciate in senso affermativo le Sezioni Unite della Cassazione (Cass., SS.UU., 29 gennaio 2015, n. 31022, che può leggersi su Dir. pen. cont.), che – nell’aderire all’orientamento prevalente in seno alle sezioni semplici[6] – hanno stabilito che «ove ricorrano i presupposti del fumus commissi delicti e del periculum in mora, è ammissibile, nel rispetto del principio di proporzionalità, il sequestro preventivo ex art. 321 cod. proc. pen. di un sito web o di una singola pagina telematica, anche imponendo al fornitore dei relativi servizi di attivarsi per rendere inaccessibile il sito o la specifica risorsa telematica incriminata»[7]. Ad avviso della Corte, il dato informatico rientra nel campo semantico del termine “cosa”, dal momento che esso, benché di dimensione infinitesimale, è sempre incorporato su un supporto fisico. Non osta all’applicabilità dell’art. 321 c.p.p. nemmeno la circostanza che il sequestro preventivo di pagine web non consista nell’immediata apprensione del bene fisico, ma si caratterizzi invece per un’inibitoria rivolta all’internet provider di oscurare parzialmente il sito – trattandosi dell’unica modalità attraverso la quale possa inibirsi l’aggravamento e il protrarsi dell’attività criminosa.

 

 

[1] G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, 8a ed., 2019, p. 253, e, in giurisprudenza, Cass., Sez. VI, 02/03/1983, n. 2385.

[2] S. Bonini, L'aggiotaggio bancario: un evidente caso di discrasia tra legislatore e giurisprudenza, in Banca borsa tit. cred., fasc.2, 1997, par. 1.

[3] Va sottolineato, per completezza, che il G.I.P. milanese ritiene soddisfatto anche il requisito dell’esercizio di un’attività commerciale, affermando che debba considerarsi tale il procedimento di acquisto di merci al fine di rivenderle al pubblico, indipendentemente dalla qualifica o dal lavoro svolto abitualmente dal venditore (la stessa interpretazione è valida con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 515 c.p.).

[4] Sui problemi di configurabilità del tentativo di frode al commercio in relazione alla mera messa in vendita del prodotto, in assenza di effettivo contatto tra l’esercente ed il potenziale acquirente, si veda T. Trinchera, Tentativo di frode in commercio e detenzione di prodotti con marcatura CE contraffatta - Nota a Cass. pen., sez. III, sent. 14 febbraio 2013 (dep. 27 febbraio 2013), n. 9310, Pres. Squassoni, Est. Ramacci, Imp. Battaglia, in Dir. pen. cont., 3 aprile 2013.

[5] Vd. E. Dolcini – G.L. Gatta (a cura di), sub art. 640, Codice penale commentato, Giuffrè, 2015, Tomo III, p. 1577.

[6] Cass., Sez. I, 04/06/2014, n. 32846; Cass., Sez. V. 05/11/2013, n. 10594; Cass., Sez. V, 30/10/2013, n. 11895; Cass., Sez. V, 19/11/2011, n. 46504; Cass., Sez. V, 18/01/2011, n. 47081; Cass., Sez. V, 10/01/2011, n. 7155; Cass., Sez. VI, 28/06/2007, n. 30968; Cass., Sez. 3, 27/09/2007, n. 39354.

[7] Nell’affermare tale principio di diritto, le Sezioni Unite ne escludevano tuttavia l’applicazione con riferimento alle testate giornalistiche online, in quanto rientranti nel concetto ampio di 'stampa' e soggette dunque alla normativa, di rango costituzionale e di livello ordinario, che disciplina l'attività d'informazione professionale diretta al pubblico (normativa che esclude il sequestro preventivo del giornale, eccettuati i casi tassativamente previsti dalla legge, tra i quali non è compreso il reato di diffamazione a mezzo stampa).