* Contributo pubblicato nel fascicolo n. 7-8/2024
1. Con l’entrata in vigore della legge Nordio, il 25 agosto 2024, la prassi dovrà confrontarsi con gli effetti sui procedimenti pendenti e definiti, aventi ad oggetto imputazioni per abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite. Come è noto, infatti, l’art. 1 della l. 9 agosto 2024, n. 114 con la lettera b) ha abrogato l’art. 323 c.p. e, con la lettera e), ha sostituito l’art. 346-bis c.p. In assenza di una disciplina transitoria, le questioni di diritto intertemporale dovranno essere affrontate e risolte al metro della disciplina generale in tema di successione di leggi penali prevista dall’art. 2 c.p., domandandosi, caso per caso, se ricorre una abolitio criminis.
Nei limiti in cui le regole processuali lo consentano – e a seconda della fase processuale –, ci si potrà inoltre domandare se è possibile modificare l’imputazione o la qualificazione giuridica del fatto, ove riconducibile anche ad altre figure di reato (ad esempio, l’omissione di atti d’ufficio, la turbativa d’asta, la truffa, ecc.).
In caso di riconosciuta abolitio criminis, ci si potrà infine chiedere se è possibile sollevare questioni di legittimità costituzionale. Notizie di stampa dei giorni scorsi hanno dato conto di come, in un procedimento penale con oltre trenta imputati, relativo a concorsi universitari, la Procura di Firenze starebbe valutando la possibilità di eccepire l’illegittimità costituzionale della norma che ha abrogato l’abuso d’ufficio. D’altra parte, sarà possibile valutare l’opportunità, ancor prima, di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia della UE per chiarire se l’assetto normativo risultante dalla legge Nordio sia compatibile con le pertinenti disposizioni del diritto dell’U.E. (in particolare, quelle in tema di c.d. peculato per distrazione).
Alla ripresa dell’attività giudiziaria, dopo la sospensione feriale, questi e altri interrogativi si porranno in un considerevole numero di procedimenti (migliaia sono quelli pendenti solo per abuso d’ufficio), in tutte le fasi: dalle indagini preliminari (dove a venire in rilievo sarà la possibile archiviazione dei procedimenti), al dibattimento, all’appello, al giudizio di legittimità, fino all’esecuzione penale. In quest’ultima fase, in particolare, è verosimile prevedere che davanti a tribunali e corti d’appello saranno avviati numerosi incidenti d’esecuzione per chiedere la revoca ex art. 673 c.p.p. delle sentenze di condanna o di patteggiamento per abuso d’ufficio o traffico di influenze passate in giudicato (sono oltre 3623, dal 1997 al 2022, quelle per abuso d’ufficio: dati del Casellario giudiziale).
Ricordiamo al lettore che gli effetti favorevoli dipendenti dall’abolitio criminis sono plurimi: la cessazione dell'esecuzione della pena detentiva (se costituisce l’unico titolo di detenzione) o di eventuali misure cautelari personali in corso, il venir meno di eventuali pene accessorie (es., l’interdizione dai pubblici uffici e l’incapacità di contrattare con la p.a.) ed effetti penali della condanna. Chi può far valere l’abolitio criminis può fruire nuovamente della sospensione condizionale della pena in caso di condanna per un altro reato (cfr. Cass. S.U. Catanzaro n. 4687/2005); può evitare la contestazione della recidiva, sempre in caso di commissione di altro delitto non colposo (cfr., da ultimo, Cass. Sez. I, n. 28203/2023); può sottrarsi alle ipotesi di incandidabilità o di incapacità di ricoprire cariche in Parlamento, nel Governo, nelle Regioni, comuni o province, a norma della c.d. legge Severino (d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235). Sia l’abuso d’ufficio, sia il traffico di influenze illecite, infatti, sono annoverati da quella legge tra i reati la condanna definitiva per i quali può determinare, sul piano amministrativo, l’incandidabilità o l’incompatibilità ad assumere cariche pubbliche, ovvero la sospensione delle stesse, in caso di condanna non definitiva. Chi ha riportato una condanna e riesce ora a far valere l’intervenuta abolitio criminis esclude pertanto nei suoi confronti gli effetti della c.d. legge Severino (che il legislatore si è peraltro dimenticato di modificare, eliminando i riferimenti espressi all’art. 323 contenuti negli artt. 7 e 10 e sostituendoli – come sarebbe stato quanto meno opportuno e come ha fatto nel caso dell’art. 322 bis c.p. – con il riferimento al nuovo delitto di cui all’art. 314 bis c.p.).
Restano ferme, invece, le obbligazioni civili da reato (cfr. Cass. S.U. Schirru, n. 46688/2016; Cass. Sez V, n. 4266/2006), comprese quelle relative al pagamento delle spese processuali (Cass. Sez. III, n. 1029/1993).
Un problema che si potrà porre è inoltre quello della revoca della confisca – diretta o per equivalente – che sia stata disposta. Sul punto rinviamo a un ancora attuale pregevole contributo di Stefano Finocchiaro, pubblicato su Diritto penale contemporaneo nel 2018. In quel contributo si ricostruisce il quadro, non univoco, della giurisprudenza formatasi in materia e si argomenta, in modo persuasivo, a favore della revoca della confisca, diretta o per equivalente, distinguendo però l’ipotesi in cui la confisca non sia stata ancora eseguita (in tal caso, non può più esserlo, dopo l’abolizione del reato) ovvero sia stata eseguita (in questo caso la situazione giuridica si è già consolidata – al pari di quella di chi, al momento dell’abolizione del reato, ha già scontato la pena detentiva irrogata per quel reato – e non può quindi farsi luogo alla restituzione dei beni confiscati). La questione, evidentemente, ha ripercussioni sulla sorte degli eventuali provvedimenti di sequestro in corso, le cui sorti saranno messe in discussione.
In attesa di seguire lo sviluppo delle prime applicazioni giurisprudenziali, ci proponiamo ora di svolgere qualche ulteriore considerazione, di metodo e di merito, addentrandoci nel non semplice scenario che da subito si presenta alla prassi.
2. Va osservato, anzitutto, che i problemi di diritto intertemporale si pongono diversamente per l’abuso e per il traffico di influenze illecite. Nel caso dell’abuso d’ufficio, infatti, si è di fronte all’abrogazione della norma incriminatrice, che apre la strada, in via di principio (e salvo quanto si dirà) all’abolizione integrale della figura di reato. Nel caso del traffico di influenze illecite, invece, a venire in rilievo è una riformulazione della fattispecie che ne restringe l’ambito di applicazione, con esito di abolizione del reato solo parziale (per quanto estesa, come si dirà). Procediamo con ordine.
2.1. Abuso d’ufficio. - Prima di giungere alla conclusione che l’abrogazione dell’art. 323 c.p. determina una (integrale) abolitio criminis, occorre escludere che nel caso di specie ricorra una c.d. abrogatio sine abolitione. Conclusioni affrettate, nel senso della sopravvenuta abolizione del reato, non sono ammesse perché è pacifico in dottrina come in giurisprudenza che la formale abrogazione di una norma incriminatrice non sempre comporta l’abolizione del reato[1]. Può infatti accadere che una certa classe di fatti, già in precedenza riconducibili alla norma incriminatrice abrogata, conservi rilevanza penale in quanto riconducibile a un’altra norma incriminatrice:
a) che sia già prevista nell’ordinamento e che, in quanto generale, sia divenuta applicabile solo dopo e per effetto della modifica legislativa, ovvero;
b) che sia stata introdotta contestualmente alla modifica legislativa.
Sul punto, in giurisprudenza, resta fondamentale il riferimento alla sentenza delle Sezioni Unite Rizzoli del 2009 (n. 24468), nella quale si è chiarito, quanto all’ipotesi sub a), che il fenomeno ricorre quando la fattispecie soppressa è speciale e che, in caso di abrogatio sine abolitione, non trova applicazione l’art. 2, co. 2 bensì l’art. 2, co. 4 c.p.: il fatto oggetto del giudizio resta penalmente rilevante e si applica (quanto, in particolare, al trattamento sanzionatorio) la disciplina più favorevole tra quelle in successione (v. anche, da ultimo, Cass. S.U. n. 19357/2024, ric. Mazzarella). Valga, per tutti, il caso dell’abrogazione nel 1981 della norma (art. 587 c.p.) che puniva l’omicidio per causa d’onore: nessuna abolitio criminis perché i fatti antecedentemente commessi hanno continuato ad essere rilevanti come omicidi comuni, con applicazione della disciplina più favorevole tra quelle in successione.
2.1.1. Il primo accertamento da compiere, per escludere una abolitio criminis, integrale o parziale, è dunque relativo all’esistenza di fattispecie generali rispetto all’abuso d’ufficio, divenute applicabili dopo l’abrogazione dell’art. 323 c.p. La risposta ci sembra negativa: l’abuso d’ufficio era norma tutt’altro che speciale nel sistema dei delitti contro la p.a. e le fattispecie alle quali si può pensare in via di ipotesi – quali il peculato, il rifiuto/omissione di atti d’ufficio, la turbativa d’asta – sono con l’abuso d’ufficio, tutt’al più, in rapporto di interferenza o di specialità: certamente, non sono fattispecie generali. Ed è giusto il caso di sottolineare che la specialità che viene in rilievo rispetto alla successione di leggi penali, nell’ambito del criterio strutturale di accertamento dell’abolitio criminis, è solo quella unilaterale, come nell’art. 15 c.p., poiché, come hanno di recente affermato le Sezioni Unite sul parallelo terreno del concorso apparente di norme, “le altre tipologie di relazioni tra norme, quali la specialità reciproca o bilaterale, non evidenziano alcun rapporto di ‘genus’ a ‘speciem’ (Cass. S.U. n. 27727/2024, ric. Gambacurta. V. anche, in tema di successione di leggi penali, Cass. S.U. n. 19357/2024, ric. Mazzarella).
Peculato e turbativa d’asta, in particolare, sono reati più gravi – non in rapporto di specialità – che, ove integrati, escludevano l’abuso d’ufficio in applicazione del criterio della sussidiarietà. Il legislatore aveva limitato infatti l’area della fattispecie di cui all’art. 323 c.p. prevedendone l’applicazione “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”. I fatti che integrano un altro e più grave reato continuano ad essere penalmente rilevanti senza che su di essi abbia alcuna influenza l’abrogazione dell’art. 323 c.p., norma che non era applicabile. Se, erroneamente, quei fatti sono stati contestati o qualificati come abuso d’ufficio, si tratta di verificare, alla luce delle pertinenti norme processuali, se è possibile correggere l’errore e modificare l’imputazione o la qualificazione del fatto all’esito del giudizio (l’errore, invece, non ci sembra riparabile dopo il giudicato: mancando una continuità normativa tra peculato (per appropriazione), turbativa d’asta e abuso d’ufficio, la condanna definitiva per quest’ultimo reato deve essere revocata ai sensi dell’art. 673 c.p.p. e dell’art. 2, co. 2 c.p.).
Analogo discorso ci sembra che valga per la fattispecie di rifiuto/omissione di atti d’ufficio. In questo caso si tratta di un reato meno grave che, secondo la giurisprudenza (cfr. Cass. Sez. VI, n. 10009/2010), rimaneva assorbito in quello, più grave, di abuso d’ufficio. Non essendo norma generale, l’art. 328 c.p. non può essere invocato, a noi pare, per escludere l’abolitio criminis in rapporto all’abuso d’ufficio realizzato in forma omissiva. Quel che, invece, ci sembra possibile, sempre nei limiti in cui sia consentito dalle regole sulla modifica dell’imputazione della correlazione tra accusa e sentenza (e, anche in questo caso, con esclusione dei casi già coperti dal giudicato), è riqualificare ai sensi dell’art. 328 c.p. alcuni abusi per omissione che avevano assorbito il delitto di cui all’art. 328 c.p. I rapporti tra abuso d’ufficio e rifiuto/omissione di atti d’ufficio evidenziano, peraltro, un profilo di irragionevolezza dell’abrogazione dell’art. 323 c.p., ravvisabile nel non punire il più grave fatto di abusare dell’ufficio e di continuare a punire, invece, l’assai meno grave fatto di rifiutare od omettere di compiere un atto d’ufficio. Si pensi a un procedimento penale che, in relazione a una medesima vicenda, si concluda con il proscioglimento per abolitio criminis dell’imputato per abuso d’ufficio (il sindaco, in ipotesi) e con la condanna di un coimputato (il responsabile di un ufficio tecnico del comune) chiamato a rispondere del meno grave delitto di cui all’art. 328 c.p. Una questione di legittimità costituzionale, per violazione del principio di uguaglianza/ragionevolezza ex art. 3 Cost., potrebbe in ipotesi essere valutata sia in rapporto alla norma abrogratrice dell’abuso d’ufficio (incontrando però un limite nell’insindacbilità delle leggi penali con effetto in malam partem), sia in rapporto all’art. 328 c.p. (ove la questione ci sembra ammissibile perché il suo accoglimento determinerebbe effetti in bonam partem).
2.1.2 Il secondo accertamento da compiere, per escludere l’abolitio criminis, riguarda come si diceva l’esistenza di una fattispecie introdotta contestualmente all’abrogazione dell’art. 323 c.p. che conservi, senza soluzione di continuità, la rilevanza penale di una o più sottofattispecie dell’abuso d’ufficio.
In questo caso la risposta è affermativa e ci porta a concludere nel senso che l’abrogazione dell’art. 323 c.p. ha comportato una abrogatio sine integrale abolitione. Infatti, la quasi contestuale (e, ciò che conta, antecedente) introduzione dell’art. 314 bis c.p. (Indebita destinazione di denaro o cose mobili) ad opera del d.l. n. 92/2024, entrato in vigore prima dell’abrogazione dell’art. 323 c.p., determina senza soluzione di continuità la rilevanza penale delle condotte di peculato per distrazione prima riconducibili (per giurisprudenza consolidata) alla fattispecie dell’abuso d’ufficio e aventi ad oggetto denaro o cose mobili. L’introduzione del nuovo delitto di cui all’art. 314 bis c.p. si giustifica infatti proprio per conservare rilevanza penale ai fatti di peculato per distrazione anche dopo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio: una scelta imposta da un obbligo di incriminazione di fonte europea e dalla necessità (della quale il Governo si è avveduto solo all’ultimo minuto) di evitare una procedura di infrazione (rinviamo, sul punto, a un nostro contributo pubblicato su questa Rivista). La nuova fattispecie, non a caso modellata sull’art. 323 c.p., nella versione risultante dalla riforma del 2020, è speciale rispetto all’abuso d’ufficio ed è divenuta applicabile, a ben vedere, prima ancora dell’entrata in vigore della legge Nordio. Con la nuova incriminazione, introdotta dal c.d. decreto carceri, il legislatore, in zona Cesarini, ha sottratto all’abolitio criminis una classe di fatti prima riconducibili all’abuso d’ufficio, impedendo così una abolizione integrale di quel reato. Ne consegue che le condanne definitive per peculato per distrazione, se relative a denaro e beni mobili, non potranno essere revocate ex art. 673 c.p.p. e che, nei procedimenti in corso, i fatti dovranno essere riqualificati ai sensi dell’art. 314 bis c.p., legge più favorevole, ai sensi dell’art. 2, co. 4 c.p., rispetto all’art. 323 c.p. (i limiti edittali sono più bassi, sia nel minimo sia nel massimo).
Attenzione però. I fatti di abuso/peculato per distrazione relativi a beni immobili (si pensi all’utilizzo di un appartamento, di un garage o di un ufficio per fini privati, diversi da quelli per i quali è stato assegnato), tuttavia, perdono rilevanza penale – con esito di abolitio criminis – perché l’art. 314 bis c.p. fa esclusivo riferimento ai beni mobili. Rispetto all’abolizione di questi fatti, quando riguardano interessi finanziari dell’Unione Europea (e la sfera dell’art. 322 bis c.p.), è a nostro avviso prospettabile una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, co. 1 Cost., in relazione all’art. 4(3) della Direttiva UE 2017/1371, che obbliga a punire la distrazione di beni lesiva degli interessi della UE, senza alcuna limitazione ai soli beni mobili. La questione potrebbe essere sollevata, a noi pare, non già rispetto all’art. 314 bis (inapplicabile) ma rispetto alla norma che, abrogando l’art. 323 c.p. e il relativo riferimento nell’art. 322 bis c.p., ha comportato la sopravvenuta mancata attuazione dell’obbligo di incriminazione. Quanto alla rilevanza della questione, è l’applicazione di quella norma abrogatrice che comporta l’abolitio criminis, in violazione di un obbligo di incriminazione. In punto di ammissibilità, poi, va segnalato che la giurisprudenza della Consulta (v., tra le altre, Corte cost. n. 37 del 2019) ha individuato tra le eccezioni al divieto di sindacato delle norme penali con effetti in malam partem proprio “la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost.”. Prima ancora di sollevare una questione di legittimità costituzionale, il giudice potrebbe peraltro porre alla Corte di Giustizia UE una questione pregiudiziale, volta ad appurare se contrasta con la predetta Direttiva una normativa che dà rilievo alla sola distrazione di beni mobili e non anche di beni immobili, con effetti lesivi per gli interessi finanziari dell’Unione.
2.1.3. In conclusione, è evidente che il legislatore – costrettovi dai vincoli europei – ha sottratto dall’abolitio criminis la parte senza dubbio minoritaria dei fatti di abuso d’ufficio contestati nella prassi (i peculati per distrazione di denaro e cose mobili). Gli abusi di vantaggio, gli abusi di danno e le omesse astensioni in presenza di conflitti di interessi (oltre ai peculati per distrazione di beni immobili) cadono nella sfera dell’art. 2, co. 2 c.p., realizzando quei vuoti di tutela penale denunciati a più riprese da inascoltati accademici e magistrati nel corso dei lavori parlamentari e che verranno alla luce nelle prossime settimane, man mano che gli esiti di abolizione del reato saranno dichiarati nelle migliaia di procedimenti penali pendenti o definiti. Ciò accadrà nei giudizi di esecuzione, quanto ai fatti coperti dal giudicato, e potrà accadere nei procedimenti ancora in corso a meno che non sia possibile riqualificare i fatti (e, quando necessario, modificare le imputazioni) riconducendoli a un’altra norma incriminatrice.
2.1.4. Una avvertenza. Va ricordato che in non pochi casi l’abolizione del reato può già essere stata determinata dalla precedente riformulazione del 2020, che aveva interessato l’abuso d’ufficio con esiti, appunto, di parziale abolitio criminis relativi ad alcune condotte (rinviamo, sul punto, a un nostro precedente contributo). In relazione ai fatti commessi prima della riforma del 2020, pertanto, il problema della successione di leggi penali nel tempo va valutato tenendo conto degli effetti delle due leggi in successione: quella del 2020 e quella del 2024. E’ possibile, infatti, che l’abolitio criminis sia stata già determinata dalla riforma del 2020 (cfr. Cass. Sez. VI, nn. 38125/2023; 28402/2022; 23794/2022; 13136/2022). Ciò, in particolare, potrà dirsi in rapporto ai fatti commessi violando: a) norme di regolamento; b) norme di legge dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse; c) regole di condotta, anche di fonte primaria, che lascino residuare margini di discrezionalità. Detto in altri termini, posto che l’intervento del 2020 aveva ristretto la fattispecie dell’abuso d’ufficio e determinato una parziale abolitio criminis, l’intervento del 2024 può logicamente avere comportato una abolitio criminis solo in rapporto alle sottofattispecie non abolite nel 2020.
Tornando ora al peculato per distrazione, quel che dicevamo sopra, relativamente alla sua perdurante rilevanza penale attraverso l’art. 314 bis c.p., è in realtà vero solo per i fatti che, dopo la riforma del 2020, erano ancora riconducibili all’art. 323 c.p. Di qui un’altra possibile questione di legittimità costituzionale, sempre con riferimento ai fatti lesivi degli interessi finanziari dell’UE, realizzati sia prima sia dopo la riformulazione e poi l'abrogazione dell'abuso d'ufficio e l'introduzione dell'art. 314 bis c.p. L’art. 4(3) della Direttiva 2017/1371, infatti, a differenza sia dell’abrogato art. 323 c.p. sia del nuovo art. 314 bis c.p., non limita la rilevanza penale della distrazione di denaro o beni ai fatti commessi in violazione di norme di legge (non quindi, di regolamento) e dai quali non residuino margini di discrezionalità. I fatti di distrazione commessi in violazione di norme di fonte sub-legislativa o di norme che lasciano con margini di discrezionalità hanno perso rilevanza penale nel 2020, prima ancora dell’attuazione della direttiva stessa realizzata solo nel 2022, allorché è stato inserito nell’art. 322 bis c.p. il riferimento all’art. 323 c.p. (d.lgs. n. 156/2022). La Direttiva europea non è mai stata attuata in questa parte e, pertanto, né lo è ora per effetto dell’introduzione del nuovo art. 314 bis c.p. Il Paese è esposto a una possibile procedura di infrazione, sul punto, e per quanto si è detto è possibile che la giurisprudenza percorra sia la strada del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, sia quella della questione di legittimità costituzionale per mancata attuazione (originaria) di un obbligo di incriminazione.
2.1.5. A fronte dell’intervenuta abolitio criminis, potrà sorgere il dubbio della legittimità costituzionale della scelta – indubbiamente molto forte – di abolire la norma che incrimina l’abuso d’ufficio. A nostro parere, argomenti solidi a sostegno di una questione di legittimità costituzionale sono quelli che, in tema di peculato per distrazione, fanno leva sui segnalati profili di mancata attuazione dell’obbligo di incriminazione previsto dalla citata direttiva sulla tutela degli interessi finanziari della UE. Analogo obbligo di incriminazione dell’abuso d’ufficio, al netto di tutte le altre sue sottofattispecie, non è invece previsto allo stato da alcuna fonte europea o sovranazionale. E’ vero che la proposta di Direttiva Europea per il contrasto della corruzione prevede un obbligo di incriminazione dell’abuso d’ufficio all’art. 11(1): “Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché sia punibile come reato la condotta seguente, se intenzionale: 1. l'esecuzione o l'omissione di un atto, in violazione delle leggi, da parte di un funzionario pubblico nell'esercizio delle sue funzioni al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo”. Senonché si tratta allo stato di una mera proposta: non di una norma invocabile quale parametro interposto di legittimità costituzionale in rapporto all’art. 117, co. 1 Cost. Il discorso sarebbe diverso se la proposta dovesse un domani tradursi in obbligo di incriminazione. Senonché proprio su proposta del Governo italiano, rappresentato dal Ministro Nordio in una riunione svoltasi nel mese di giugno scorso, il Consiglio dei ministri della giustizia dell’Unione europea ha approvato di proporre una modifica dell’art. 11 della Direttiva che trasforma l’obbligo di incriminazione dell’abuso d’ufficio in una mera facoltà: “gli Stati membri [...] possono prendere le misure necessarie affinché [...] l'esecuzione o l'omissione di un atto, in violazione delle leggi, da parte di un funzionario pubblico nell'esercizio delle sue funzioni al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo, sia punibile come reato, se intenzionale. [...]”. Il video dell’intervento del Ministro Nordio è reperibile attraverso questo link. Si tratterà di vedere come procederanno i lavori di approvazione della proposta di Direttiva.
Quanto alla Convenzione di Merida (ONU, 2003), che viene spesso invocata nel dibattito pubblico, va precisato che all’art. 19 prevede non un obbligo di incriminazione ma una raccomandazione/facoltà per gli stati aderenti di punire l’abuso d’ufficio (“Each State Party shall consider adopting such legislative and other measures as may be necessary to establish as a criminal offence, when committed intentionally, the abuse of functions or position, that is, the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the discharge of his or her functions, for the purpose of obtaining an undue advantage for himself or herself or for another person or entity”). Ci si può forse chiedere se la sopravvenuta abrogazione dell’abuso d’ufficio, reato presistente alla Convenzione di Merida che attuava l’art. 19, integri una violazione del diritto internazionale (e, quindi, dell’art. 117, co. 1 Cost.); se, cioè, esista un vincolo convenzionale che impedisca al nostro Paese di fare un passo indietro. La questione meriterebbe di essere approfondita, per quanto la strada sembri senz’altro in salita.
E’ verosimile ritenere che, nella prassi, si valuterà se sollevare questioni di legittimità costituzionale in rapporto ad altri parametri e, in particolare, agli artt. 3 e 97 Cost. La strada, ammesso che sia percorribile, è a nostro avviso senz’altro in salita, in punto di ammissibilità di eventuali questioni. Basta leggere, per rendersene conto, i principi affermati dalla Consulta nella sentenza n. 8/2022. Con quella decisione furono dichiarate in parte inammissibili e in parte infondate questioni di legittimità costituzionale sollevate in rapporto all’abolizione parziale del 2020 (la pre-morte dell’abuso d’ufficio).
La questione infondata, benché ammissibile, non è riproponibile perché relativa al procedimento di formazione della norma che riformulò in chiave restrittiva l’abuso d’ufficio e, in particolare, alla lamentata violazione dell’art. 77 Cost., essendo stata la riforma realizzata (non con una legge, come nel caso che ci occupa, ma) con un decreto-legge (il giudice a quo dubitava dei requisiti di necessità e urgenza e rilevava l’estraneità della materia alle altre disposizioni del decreto, relative all’emergenza Covid).
Le questioni ritenute inammissibili erano relative proprio alla violazione degli artt. 3 e 97 Cost. La Corte (v. il punto 7 della motivazione in diritto) ha argomentato l’inammissibilità in ragione della preclusione delle sentenze in malam partem: tale sarebbe quella che, dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma abrogatrice dell’abuso d’ufficio, comporterebbe la reviviscenza della relativa norma incriminatrice. La Consulta ha precisato che non si tratta di sindacare una noma di favore (che nel linguaggio della giurisprudenza costituzionale – si badi – non va confusa con una mera norma più favorevole, quale è quella che abolisce un reato): la richiesta di sindacato in malam partem del giudice a quo, infatti, “non mira[va] a far riespandere una norma tuttora presente nell’ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale: operazione preclusa alla Corte”.
Parole tombali, a noi pare, alle quali ne seguono altre: “Questa Corte ha già applicato, peraltro, i ricordati principi all’evoluzione legislativa dell’abuso d’ufficio, dichiarando inammissibili, con la sentenza n. 447 del 1998, questioni analoghe a quelle ora in esame, sollevate in riferimento ai medesimi parametri (artt. 3 e 97 Cost.), aventi ad oggetto l’art. 323 c.p., come riformulato – anche allora in senso restrittivo – dalla legge n. 234 del 1997”. Facciamo parlare ancora la sentenza n. 8/2022: “Nell’occasione, si è posto in evidenza come una censura di illegittimità costituzionale non possa basarsi sul pregiudizio che la formulazione, in assunto troppo restrittiva, di una norma incriminatrice, recherebbe a valori di rilievo costituzionale, quali, nella specie, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione. Le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono, infatti, nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni: l’incriminazione costituisce anzi un’extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela (sentenza n. 447 del 1998; in senso analogo, con riferimento all’abrogazione del reato di ingiuria, sentenza n. 37 del 2019; si vedano pure la sentenza n. 273 del 2010 e l’ordinanza n. 317 del 1996). Si è rilevato, altresì, nella medesima occasione, che, in linea di principio, neppure può tradursi in una questione di legittimità costituzionale della norma incriminatrice il rilievo che altre condotte, diverse da quelle individuate come fatti di reato dal legislatore, avrebbero dovuto essere a loro volta incriminate per ragioni di parità di trattamento o in nome di esigenze di ragionevolezza. «La mancanza della base legale – costituzionalmente necessaria – dell’incriminazione, cioè della scelta legislativa di considerare certe condotte come penalmente perseguibili, preclude radicalmente la possibilità di prospettare una estensione ad esse delle fattispecie incriminatrici attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale» (sentenza n. 447 del 1998). In altre parole, ove pure, in ipotesi, la norma incriminatrice (non qualificabile come norma penale di favore) determinasse intollerabili disparità di trattamento o esiti irragionevoli, il riequilibrio potrebbe essere operato dalla Corte solo “verso il basso” (ossia in bonam partem): non già in malam partem, e in particolare tramite interventi dilatativi del perimetro di rilevanza penale (sulla inammissibilità di questioni in malam partem basate sulla denuncia di violazione dell’art. 3 Cost., ex plurimis, sentenza n. 411 del 1995; ordinanze n. 437 del 2006 e n. 580 del 2000)”. Un’affermazione, quest’ultima, che a ben vedere potrebbe essere valorizzata per portare argomenti a favore della tesi della illegittimità costituzionale dell’art. 328 c.p., per le ragioni sopra esposte.
2.2. Veniamo ora al traffico di influenze illecite. In questo caso, come si è detto, si tratta di accertare se, nel caso oggetto del giudizio in corso o della sentenza di condanna o di patteggiamento passata in giudicato, si è verificata una abolitio criminis. La legge Nordio ha riformulato la fattispecie in senso restrittivo, dando luogo così, senza dubbio, a una parziale abolizione del reato, che interessa i fatti non più riconducibili alla fattispecie, dopo la modifica legislativa.
In rapporto ai fatti che, invece, restano sussumibili nell’art. 346 bis c.p. deve trovare applicazione l’art. 2, co. 4 c.p.: nei procedimenti in corso troverà applicazione la disciplina più favorevole tra quelle in successione. Si tratterà, di norma, di quella prevista prima della riforma, che ha innalzato di sei mesi la pena minima edittale della reclusione, che passa da un anno a un anno e sei mesi, invariato restando il massimo edittale di quattro anni e sei mesi. Senonché la nuova disciplina potrebbe in concreto risultare più favorevole perché ha esteso al traffico di influenze illecite due cause di non punibilità: quella del ravvedimento postdelittuoso di cui all’art. 323 bis, co. 2 c.p. e quella della tempestiva e volontaria denuncia del fatto, di cui all’art. 323 ter c.p. Si tratterà, dunque, di valutare se nel caso concreto risulti più favorevole per il reo l’applicazione della vecchia o della nuova disciplina; evenienza, quest’ultima, che si verificherà in presenza dei presupposti per applicare le nuove cause di non punibilità.
Per individuare i fatti che, invece, sono interessati dalla parziale abolitio criminis, occorre richiamare quelli che, in un nostro contributo al quale rinviamo, abbiamo definito cinque lacci che hanno comportato il soffocamento applicativo della fattispecie. I fatti strozzati da anche solo uno di questi lacci hanno perso rilevanza penale (sono penalisticamente morti, in altri termini). A tal fine può risultare utile la tabella di confronto tra la vecchia e la nuova fattispecie, allegata al nostro contributo che si può leggere cliccando qui.
2.2.1. Fatti commessi vantando relazioni asserite con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio. La nuova fattispecie si riferisce solo alle relazioni esistenti e, pertanto, non dà più rilievo ai fatti commessi da faccendieri (o trafficanti di influenze) millantatori. Va ricordato che, nel 2019, la c.d. legge Spazzacorrotti abolì il delitto di millantato credito (art. 346 c.p.) e, contestualmente, estese la portata del traffico di influenze illecite alla vanteria di relazioni asserite. A tal proposito, una recente sentenza delle Sezioni Unite (sentenza Mazzarella, n. 19357/2024), riferendosi alle millanterie commesse prima del 2019, ha affermato l’intervenuta abolitio criminis, ritenendo esclusa la continuità normativa tra l’abrogato millantato credito c.d. corruttivo ex art. 346, comma 2 c.p. e il traffico di influenze illecite. La sentenza Mazzarella si è poste il problema della possibile riconducibilità dei fatti di millantato credito corruttivo alla fattispecie della truffa aggravata ex art. 640, n. 1 c.p., che escluderebbe l’abolitio criminis determinando in rapporto al millantato credito un fenomeno di abrogatio sine abolitione. La conclusione è nel senso che “l'assenza di una relazione di specialità unilaterale tra le due considerate disposizioni incriminatrici [il millantato credito corruttivo e la truffa ai danni dello Stato o di altro ente pubblico] impedisce di ravvisare gli estremi di quella continuità normativa che, ai sensi dell'art. 2, co. 4 c.p., consentirebbe al giudice di riqualificare i fatti, già integranti gli estremi di una fattispecie incriminatrice speciale oramai abolita, ai sensi di altra norma generale preesistente e tornata ad essere applicabile”. In particolare, secondo la sentenza Mazzarella, che qui richiamiamo per l’evidente interesse rispetto al tema che ci occupa, “…va rilevato che tra le norme previste dagli artt. 640 e 346, co. 2 c.p. non esisteva affatto un rapporto di genere a specie, inteso come relazione di specialità unilaterale…: perché il confronto della struttura astratta dei due Illeciti permette di affermare che nella fattispecie del millantato credito c.d. "corruttivo" non erano presenti tutti gli elementi costitutivi della truffa, ma solo alcuni latamente comuni (il millantare credito in una, gli artifici e raggiri nell'altra) ed altri specializzanti (il pretesto di dover comprare o remunerare, e la promessa di altra utilità); senza, però, che nell'art. 346, co. 2 c.p. fossero richiamati gli ulteriori elementi specializzanti propri del solo reato di truffa (l'induzione in errore, l'atto di disposizione patrimoniale e l'ingiusto profitto con altrui danno)”. L’assenza di un rapporto di specialità con la truffa, pertanto, conferma per le S.U. l’abolitio criminis del millantato credito corruttivo, determinata dalla ritenuta eterogeneità strutturale con la fattispecie (plurisoggettiva) di traffico di influenze come riformulata nel 2019. Ciò non toglie, precisano infine le S.U. con un argomento che peraltro ci sembra confermare quanto da noi più sopra ipotizzato in merito ai rapporti tra abuso d’ufficio e altri reati (come peculato, turbativa d’asta, rifiuto/omissione di atti d’ufficio) che, ricorrendone i presupposti, “le condotte, già integranti gli estremi dell'abolito reato di cui all'art. 346, co. 2 c.p., potevano, e tuttora possono, configurare gli estremi del reato di truffa (in passato astrattamente concorrente con quello di millantato credito corruttivo), purché siano formalmente contestati e accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi della relativa diversa fattispecie incriminatrice”.
I principi della sentenza Mazzarella andranno ora applicati per valutare i rapporti tra il traffico di influenze, nella versione del 2019 e la truffa aggravata. Alla luce di quella sentenza – per analogia di argomenti – sembra doversi escludere un rapporto di specialità tra le due fattispecie (e, in particolare, la natura generale della fattispecie di cui all’art. 640 c.p., la cui affermazione escluderebbe l’abolitio criminis), con la conseguenza che la legge Nordio comporta una abolitio criminis del traffico di influenze millantate, con conseguente revocabilità delle sentenze definitive (condivide questa opinione, scrivendo prima del deposito della sentenza Mazzarella, V. Mongillo, Splendore e morte del traffico di influenze illecite, in questa Rivista, 22.3.2024, p. 28). Ciò non toglie, in linea con quanto affermato dalla sentenza Mazzarella a proposito del millantato credito corruttivo, che i fatti commessi dal mediatore vantando relazioni asserite possono in via di principio conservare rilevanza penale se ricorrono gli estremi di una truffa (della quale andrà peraltro verificata la procedibilità). In questo senso si esprime anche la Relazione al disegno di legge Nordio. Senonché – si noti – ciò non potrà riguardare chi dà o promette denaro o utilità al mediatore: una volta che la vicenda è attratta nello schema della truffa, costui ne è una vittima non punibile. La riqualificazione del fatto o la modifica dell’imputazione non potrà dunque attingere chi è ricorso al trafficante di influenze millantate.
2.2.2. Dolo intenzionale di utilizzo di relazioni esistenti con il pubblico funzionario. La nuova formulazione dell’art. 346 bis c.p., introdotta dalla legge Nordio, precisa che l’utilizzazione delle relazioni deve avvenire “intenzionalmente allo scopo” di porre in essere le condotte che integrano la fattispecie delittuosa. Con una espressione tecnicamente infelice, il legislatore ha voluto restringere l’ambito di applicazione della fattispecie aggiungendo il requisito del dolo intenzionale in rapporto all’utilizzazione delle relazioni con il pubblico funzionario. Il mediatore deve pertanto agire con l’obiettivo di utilizzare le proprie relazioni, cioè con una forma particolarmente intensa di dolo. In via di principio, richiedere il dolo intenzionale in rapporto a un elemento della fattispecie ne comporta, indubbiamente, la riduzione dell’area applicativa, con esiti di parziale abolitio criminis per i fatti non sorretti da quella forma di dolo in rapporto a quell’elemento della fattispecie. Senonché il nuovo requisito sembra avere in realtà una limitata se non nulla capacità selettiva perché esplicita quel che prima era implicito: anche fino a ieri lo sfruttamento delle relazioni del mediatore con il funzionario pubblico doveva avere di mira il traffico delle influenze. Sembra ben difficile, pertanto, sostenere la tesi dell’intervenuta abolitio criminis con il solo argomento dell’introduzione del dolo intenzionale di utilizzazione delle relazioni.
2.2.3. Utilità economica. Con la legge Nordio, l'utilità data o promessa al mediatore, in alternativa al denaro, deve essere economica. Ecco un altro profilo di abolitio criminis: non sarà più punibile il mediatore che fa dare o promettere a sé o ad altri un’utilità non economica, come ad esempio un rapporto sessuale, o vantaggi sociali o di natura meramente politica. Né sarà punibile, naturalmente, chi ha dato o promesso una utilità non economica al trafficante di influenze. Si torna a una formulazione analoga a quella dell'originaria versione dell'art. 346-bis c.p., che faceva riferimento al denaro o ad altro vantaggio patrimoniale. Potranno essere revocate le sentenze di condanna ove si accerti che, in assenza della dazione o della promessa di denaro, a venire in rilievo erano utilità non economiche (concetto, quest’ultimo, che assume pertanto un rilievo decisivo per la sorte dei procedimenti definiti e di quelli in corso).
2.2.4. Mediazione c.d. gratuita limitata alla remunerazione del pubblico funzionario in relazione all’esercizio delle sue funzioni (e non più, anche dei suoi “poteri”). Con la legge Nordio, rimane fuori dall’ambito applicativo della fattispecie, ed è oggetto di abolitio criminis, il fatto commesso in rapporto all’esercizio dei soli poteri del pubblico funzionario, e non anche delle sue funzioni. La rilevanza di questa modifica, forse limitata, passa attraverso la distinzione tra funzioni e poteri dei soggetti rivestiti di qualifiche pubblicistiche; una distinzione nota al sistema dei delitti contro la p.a. e che, per esempio, ritroviamo nella fattispecie di corruzione per l’esercizio delle funzioni ex art. 318 c.p. che si riferisce, appunto, all’esercizio delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale o (attraverso l’art. 320 c.p.) dell’incaricato di un pubblico servizio. Si potrà affermare l’intervenuta abolitio criminis riuscendo a dimostrare che, nel caso di specie, il trafficante di influenze aveva di mira la remunerazione del funzionario pubblico in relazione all’esercizio dei suoi soli poteri e non anche delle sue funzioni.
2.2.5. Mediazione c.d. onerosa limitata a quella commessa “per indurre il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio…a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito”. Il legislatore, senza farsi carico per l’ennesima volta di ciò che più serve – e, cioè, di introdurre una disciplina del lobbying, colmando così una lacuna che è da sempre il tallone d’Achille del traffico d’influenze – ha introdotto un’inedita definizione legale di “mediazione illecita” che riprende quella di recente proposta dalla Sezione VI della Cassazione nel caso Alemanno nel tentativo di precisare i confini applicativi della fattispecie. Nella sentenza Alemanno, la Sezione VI della Cassazione aveva definito la mediazione illecita “quando è finalizzata alla commissione di un ‘fatto di reato’ idoneo a produrre vantaggi per il privato committente”. La legge Nordio fa ora riferimento non in genere a un ‘fatto di reato’, bensì al compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato. La formulazione è dunque ancor più stretta di quella introdotta per via giurisprudenziale, che peraltro già lasciava problematicamente fuori dalla sfera del traffico d’influenze le condotte del mediatore dirette, tramite raccomandazioni, a orientare scelte di per sé lecite del pubblico funzionario, nell’ambito della discrezionalità amministrativa (es., questa o quella decisione, tra le più decisioni possibili, la scelta di questo o quel titolare per un incarico, ecc.), oppure dirette a compiere illeciti amministrativi. Non basta, la nuova definizione legale più che un laccio sembra un capestro dopo l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Il perché è presto detto: il traffico d’influenze presuppone, per espressa previsione normativa, che il fatto non integri un’ipotesi di corruzione; l’atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato integra molto spesso un abuso d’ufficio; con la contestuale abolizione di questo reato, la nuova definizione legale di mediazione illecita finisce pertanto per essere ancor più limitativa. Di certo molto distante da quella proposta dalla Sesta Sezione della Cassazione e recepita dalla stessa mano che, con un tratto di penna, ha cancellato l’abuso d’ufficio. Una mano, quella del legislatore, che peraltro ha trascurato un rilevante e non adeguatamente valorizzato passaggio motivazionale della sentenza Alemanno, nella quale la Sesta Sezione qualificava sempre come illecita la “mediazione qualificata” che vede protagonista, come trafficante, il pubblico agente. Sul piano degli effetti, la definizione di mediazione illecita restringe di molto l’ambito applicativo della fattispecie, con conseguente abolitio criminis in relazione a tutte le mediazioni che non possano dirsi illecite in base alla nuova norma: ad esempio, ma non solo, quelle che avevano di mira la realizzazione di fatti di abuso d’ufficio.
2.2.6. Come si vede, in conclusione, il traffico di influenze illecite è stato notevolmente ridotto, con esiti di consistente parziale abolitio criminis. Come nel caso dell’abuso d’ufficio, il giudice chiamato ad applicare la nuova norma e a dichiarare la conseguente abolizione del reato potrà porsi il dubbio circa la legittimità costituzionale dell’intervento del legislatore. Per ragioni illustrate in un nostro precedente contributo, che ribadiamo, questo dubbio ci sembra più che fondato: ben più di quanto lo sia quello relativo all’abrogazione dell’abuso d’ufficio.
Citando la sentenza n. 8/2022 della Corte costituzionale, infatti, abbiamo ricordato come una preclusione alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di norme che comportano una abolitio criminis sia rappresentata dal divieto di sindacato delle norme penali con effetto in malam partem. Quel divieto, per giurisprudenza costituzionale (cfr., da ultimo, Corte cost., n. 37/2019), ammette delle eccezioni, una delle quali è rappresentata dalla “contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, co. 1 Cost.”.
Ebbene, se nel caso dell’abuso d’ufficio, come si è detto, un obbligo di incriminazione di fonte europea esiste solo in rapporto al c.d. peculato per distrazione (riguarda, quindi, una sola sottofattispecie), nel caso del traffico di influenze illecite l’obbligo stesso riguarda tout court la figura di reato. A differenza di quanto accade per l’abuso d’ufficio, pertanto, in tutti i casi di abolitio criminis del traffico di influenze, a seguito della riforma del 2024, si pone un problema di possibile violazione di un obbligo di incriminazione, che riteniamo sia sindacabile dalla Corte costituzionale al metro dell’art. 117, co. Cost. I margini di ammissibilità delle questioni sollevate in rapporto al traffico di influenze ci sembrano pertanto ben maggiori di quelli, assai limitati, che esistono oggi per l’abuso d’ufficio (almeno fino a quando e se sarà confermato un obbligo di incriminazione di quel diverso reato nella futura direttiva europea).
L’obbligo internazionale di incriminazione che viene in rilievo è previsto dall’art. 12 della Convenzione sulla corruzione del Consiglio d’Europa (convenzione di Strasburgo del 1999) che, a differenza della nuova formulazione dell’art. 346 bis c.p.:
Riteniamo che nei procedimenti pendenti per traffico di influenze illecite – ovvero nei procedimenti che potranno essere avviati davanti al giudice dell’esecuzione per la revoca delle sentenze definitive di condanna ex art. 673 c.p.p. conseguente alla parziale abolitio criminis – il giudice chiamato ad applicare la nuova disciplina, dopo aver escluso la via dell’interpretazione conforme alla Convenzione di Strasburgo, resa impossibile dal nuovo tenore letterale dell’art. 346-bis c.p., potrà in relazione ai tre profili di contrasto sopra menzionati, sollevare questione di legittimità costituzionale invocando come norma-parametro l’art. 117, co. 1 Cost. e come norma interposta l’art. 12 della Convenzione di Strasburgo.
E’ vero che il principio di legalità osta a che la Corte possa ovviare alla mancanza di un’incriminazione conforme agli obblighi internazionali, estendendo la portata di norme incriminatrici, ma è anche vero che la Corte può dichiarare l’illegittimità costituzionale di norme che, in violazione di obblighi internazionali di incriminazione, come quello di cui all’art. 12 della Convenzione di Strasburgo, abroghino norme incriminatrici o, come nel caso della legge Nordio rispetto all’art. 346-bis c.p., ne restringano l’ambito di applicazione. In tale ipotesi, una pronuncia della Corte avrebbe come effetto la reviviscenza della norma incriminatrice di cui all’art. 346-bis c.p. introdotta nel 2019 dalla legge Spazza-corrotti proprio in attuazione del predetto obbligo di incriminazione, come confermano per tabulas i rapporti del GRECO (rinviamo il lettore al nostro precedente contributo più volte citato).
Si tratterebbe, forse, della prima pronuncia con la quale la Corte potrebbe essere chiamata a dichiarare costituzionalmente illegittima una legge che viene meno a un obbligo di incriminazione, dopo la sua attuazione ad opera di una precedente legge. Ma è anche vero:
Va inoltre considerato e precisato, per completezza di informazione, che il nostro Paese, ai sensi dell'art. 37 della Convenzione di Strasburgo, si era in passato riservato all'atto del deposito dello strumento di ratifica di non attuare l'obbligo di incriminazione previsto dall'art. 12 in tema di traffico di influenze, in particolare con riferimento all'ipotesi delle influenze millantate (vedi qui). La riserva, che ha una durata triennale, non è stata però rinnovata dopo il 2019 (quando fu riformulato il delitto di cui all'art. 346 bis c.p. in senso conforme alla convenzione, punendo anche le influenze meramente asserite) e si è pertanto estinta. A riprova ulteriore che la fattispecie ora riformulata dalla legge Nordio viola in modo frontale un obbligo di incriminazione convenzionale.
3. Il quadro dei problemi di diritto intertemporale e di legittimità costituzionale che pone la legge Nordio, quanto agli interventi sul diritto sostanziale, è dunque molto complesso e articolato. Senza pretesa di completezza, e con i limiti di un commento a caldo, speriamo di avere fatto al lettore cosa utile cercando di mettere in ordine temi e problemi che occuperanno la prassi a partire dai prossimi giorni. La nostra Rivista seguirà con interesse l’evoluzione giurisprudenziale e sarà grata di ogni eventuale segnalazione.
[1] Sia consentito rinviare a G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, 13 ed., 2024, p. 150 s.