* Testo a integrazione dell’audizione del 20 maggio 2024 del prof. Roberto Cornelli presso le Commissioni competenti, in relazione disegno di legge c. 1660/C recante “disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”.
** Contributo pubblicato nel fascicolo 5/2024.
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Prima di esplicitare alcune prime considerazioni di taglio criminologico e politico-criminale sul Disegno di legge in approvazione, desidero sottoporre alle Commissioni parlamentari Giustizia e Affari Costituzionali un dato di contesto che spesso entra in modo distorto nel dibattito politico. Il fondamento politico-criminale richiamato a sostegno d’interventi in materia di sicurezza pubblica solitamente riguarda non tanto il peggioramento delle condizioni di sicurezza “reale”, quanto di un aumento dell’insicurezza percepita. I reati possono anche diminuire – si dice da parte dei più attenti conoscitori delle statistiche della criminalità – ma è la percezione d’insicurezza delle persone a continuare ad aumentare e di questo sentimento la politica deve farsi carico rispondendo in modo fermo.
I dati ISTAT oggi disponibili (grafico 1) dicono esattamente l’opposto, vale a dire che l’insicurezza derivante dalla percezione della criminalità nel proprio quartiere di vita è in netta diminuzione negli ultimi 5 anni e, negli anni precedenti, ha avuto degli innalzamenti, poi rientrati, in corrispondenza all’approvazione di decreti sicurezza (il primo nel 2008) o in presenza di campagne mediatiche particolarmente pressanti (per es. nel 2015). L’ipotesi già validata in altri Paesi è che le leggi sulla sicurezza non intervengano per rispondere a una domanda di sicurezza che viene dal basso, ma al contrario alimentino campagne politico-mediatiche finalizzate, a volte, a ottenere visibilità o legittimazione politica, altre volte, a irrigidire il quadro delle libertà e delle garanzie democratiche. Non sembri un riferimento eccessivo: ogni torsione autoritaria è accompagnata o anticipata da strette repressive presentate come necessarie per garantire la sicurezza. Il problema è semmai capire quando la stretta repressiva sia da considerarsi un effettivo segnale di allarme per la democrazia.
Fatta questa premessa di carattere generale, il disegno di legge in approvazione costituisce certamente l’ultimo atto di una lunga sequela di discorsi e provvedimenti che, nonostante il diverso segno politico dei governi in carica, hanno interessato il campo della sicurezza pubblica in modo tendenzialmente omogeno. I tratti distintivi, che si ritrovano anche in questo testo, sono:
1. La credenza nella deterrenza carceraria, che viene intesa come unica leva per ridurre i reati ma che ormai è ampiamente questionata sulla base dei dati di ricerca criminologica dell’ultimo secolo (già Giacomo Matteotti, nei suoi studi penalistici giovanili di inizi Novecento, ne affrontava le criticità).
In tale direzione:
1.1. si opera un ampliamento della cornice edittale di fattispecie penali esistenti, nell’illusione che l’aumento della gravità della sanzione determini una riduzione dei reati.
1.1.1. Nel caso del delitto di truffa, anche senza considerare l’elevato numero oscuro derivante dalla mancata denuncia, il tasso di svelamento degli autori è talmente basso da risultare di nessuna utilità insistere sulla trasformazione dell’aggravante in reato autonomo di truffa aggravata, con aumento delle pene, garantendone la procedibilità d’ufficio, l’arresto obbligatorio in flagranza e l’applicazione della misura cautelare in carcere (art. 9);
1.1.2. nel caso dell’accattonaggio (art. 13), il rilevante incremento della cornice edittale dovrebbe disincentivare la commissione di comportamenti che, tuttavia, dal punto di vista criminologico, presentano motivazioni che prescindono da una valutazione di costi-benefici. Concretamente si tratta perlopiù di adulti che portano con sé minori nell’attività di accattonaggio e solo raramente di vere e proprie organizzazioni. Il contenimento in carcere di persone che, una volta uscite, se non accompagnate in percorsi reali di presa in carico delle loro vulnerabilità sociali, economiche, culturali e psicologiche, si troveranno nelle medesime condizioni di prima, quando non peggiori proprio per l’effetto della carcerazione, subirà un aumento senza alcun beneficio in termini preventivi.
1.1.3. Viene introdotta l’ulteriore circostanza aggravante dell’art. 639 c.p. per il caso in cui il fatto sia commesso su beni mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche, con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene (art. 16).
1.2. S’introducono nuove fattispecie di reato
1.2.1. che anticipano la tutela penale alla soglia del sospetto, come nel caso della detenzione di istruzioni per il compimento di atti di terrorismo (art. 1);
1.2.2. che puniscono allo stesso modo condotte profondamente diverse, come nel caso dell’occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui in cui si prevede che fuori dai casi di concorso nel reato soggiace alla stessa pena dell’occupante chiunque si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile, ovvero riceve o corrisponde denaro o altra utilità per l’occupazione medesima (art. 8)
1.2.3. che trasformano in illeciti penali quegli illeciti amministrativi già introdotti in precedenti leggi per limitare le forme del dissenso, come nel caso del blocco stradale o ferroviario attuato mediante ostruzione fatta col proprio corpo, con un aggravamento di pena se commesso da più persone riunite (art. 11)
2. Il ricorso sempre più frequente a misure di diritto amministrativo punitivo, che non è altro che la versione contemporanea di quel diritto di polizia ottocentesco che, presente anche nelle democrazie costituzionali (si pensi alla mancata revisione in Italia delle leggi di pubblica sicurezza d’impianto fascista, mai adeguate alla realtà democratica e costituzionale), recentemente ha trovato nuovo slancio con la legge n. 48 del 2017 e che nell’attuale testo viene ulteriormente esteso con l’attribuzione al Questore di disporre il divieto di accesso alle aree di infrastrutture e pertinenze del trasporto pubblico anche a soggetti non solo condannati ma anche solo denunciati per reati contro la persona o il patrimonio (art. 10). La motivazione indicata nel testo è talmente chiara da non richiedere ulteriori commenti: “la disposizione che si intende introdurre avrebbe il pregio di consentire alle forze di polizia di intervenire immediatamente per «espellere» dalle suddette aree le persone destinatarie del divieto di accesso, svolgendo così una funzione di prevenzione di possibili reati che costoro potrebbero ivi commettere.” La libertà di circolazione finisce per essere limitata con provvedimento amministrativo per generiche ragioni di prevenzione.
3. L’irrigidimento dell’ordinamento penitenziario, attraverso principalmente due novità, entrambe estremamente problematiche sia pure sotto diverso profilo.
3.1. Il rinvio della pena per donne incinte e madri di prole fino a un anno, introdotto dal codice Rocco di epoca fascista, viene reso da obbligatorio a facoltativo (art. 12). È una norma di stampo evidentemente mediatico-espressivo, riguardando numeri estremamente ridotti, e che rischia di compromettere in modo irreversibile la crescita psichica e motoria del bambino costringendolo in spazi ridotti e caratterizzati da deprivazione sensoriale. La previsione che la detenzione avverrebbe negli ICAM non allevia la gravità della norma, ben sapendo che queste strutture dedicate alle madri con prole sono presenti solo in 5 istituti in tutta Italia e comunque spesso non sono altro che spazi dedicati all’interno della medesima struttura detentiva.
3.2. L’introduzione del nuovo reato di rivolta (art. 18) all’interno di un istituto penitenziario che tra le condotte punite inserisce anche le condotte di resistenza passiva (e dunque nei fatti pacifica) all’esecuzione degli ordini impartiti non ha alcuna relazione con il dichiarato intento di migliorare la sicurezza negli istituti, affermando semmai una concezione dell’ordine carcerario ancora una volta antiquata. Buona parte degli operatori di polizia penitenziaria che ho intervistato nelle mie ricerche (circa 1500 in tutto)[1] dimostrano di avere maggiore consapevolezza di cosa serva per migliorare il loro lavoro nelle carceri: la maggioranza di loro dice che serve più formazione alla gestione degli eventi critici, più capacità di relazionarsi in modo rispettoso con i detenuti, più sostegno da parte dei vertici dell’amministrazione penitenziaria nella gestione delle piccole o grandi problematiche quotidiane che creano tensioni tra detenuti e tra questi e gli agenti, spesso lasciati soli nei reparti a dover dare risposte che non possiedono. Non serve inserire norme che rendono ancora più teso, rabbioso e muscolare il clima nelle carceri. D’altra parte, inserire questa fattispecie così concepita nel catalogo dei reati ostativi ex art. 4-bis (art. 25) costituisce una linea di politica penitenziaria volta a smantellare l’eccezionalismo legato a reati gravi di mafia e terrorismo e, insieme, a abbattere il sistema dei benefici come ponte tra carcere e territorio in un’ottica di risocializzazione foriera di maggiore sicurezza.
4. La criminalizzazione di cittadini di Paesi extraeuropei presenti sul territorio italiano senza un titolo di soggiorno valido. Va ricordato che i CPR sono stati istituiti per legge ma senza ottemperare alla previsione dell’art. 13 della Costituzione laddove indica che i modi delle deroghe all’inviolabilità della libertà personale devono essere esplicitamente previsti dalla legge. Oggi i CPR sono luoghi di detenzione amministrativa privi di garanzie e di tutela minima dei diritti a cui non si possono applicare nemmeno le norme dell’ordinamento penitenziario. Va ricordato che nei CPR sono trattenute perlopiù persone non in ragione del fatto che hanno commesso delitti e neppure perché socialmente pericolose, come talvolta si sente dire a giustificazione della necessità di questi luoghi, ma solo per il fatto che non hanno o non hanno più un titolo di soggiorno valido. L’introduzione della condotta di resistenza passiva agli ordini impartiti, la cui applicazione in concreto in luoghi detentivi non accessibili al pubblico avverrà il più delle volte a partire dal resoconto degli operatori di società private che gestiscono i CPR, potrebbe comportare una facile forma di criminalizzazione di persone già private della libertà personale e della tutela dei propri diritti fondamentali. Laddove la previsione riguardi i Centri di accoglienza risulta persino concettualmente insostenibile, non trattandosi di luoghi detentivi neppure per via amministrativa.
5. Incentivo alla diffusione delle armi in circolazione. Estendere a tutti gli agenti di pubblica sicurezza (si stima che ce ne siano più di 300mila, ma il numero esatto non è probabilmente noto nemmeno al Ministro dell’Interno) l’autorizzazione a portare senza licenza armi private diverse da quelle di ordinanza (art. 20) comporta dei rischi collegati a una maggiore diffusione di armi da fuoco, tanto nello spazio pubblico quanto in ambiente domestico. Gli agenti, in effetti, essendo già idonei a possedere un’arma di ordinanza, già oggi non hanno alcuna difficoltà a ottenere il porto d’armi (beninteso per difesa personale e non già per proseguire fuori servizio i propri compiti di pubblica sicurezza, come sembrerebbe indicare il Disegno di legge). L’introduzione di questa norma avrebbe dunque l’unico effetto di incentivare la circolazione non controllata di armi private, con un incremento di rischi per la sicurezza pubblica.
La ricerca sull’argomento è chiara, e mi permetto di richiamarla più diffusamente a seguito di una specifica richiesta avanzata in sede di audizione[2].
Si stima che le armi da fuoco nel mondo per il 2017 siano più di un miliardo, la maggior parte delle quali nelle mani di civili (85%), mentre il 13% in possesso delle forze armate e il 2% a disposizione delle forze di polizia: sono dati della rilevazione della Small Arms Survey, progetto del Graduate Institute of International and Development Studies con sede a Ginevra, che indica un aumento della riserva globale di armi da fuoco nell’ultimo decennio, largamente dovuta a un incremento di armi in possesso di civili, che sono passate da 650 milioni nel 2006 a 857 milioni nel 2017[3]. Queste stime forniscono un quadro di riferimento utile per collocare una serie di riflessioni sulla relazione tra armi da fuoco e tassi di omicidio[4].
A livello globale nel periodo in cui si è verificato un deciso incremento delle armi in possesso di civili (2006-2017), è aumentata la percentuale di omicidi commessi con l’uso di armi da fuoco, che dal 40% nel 2004 passano al 44% nel 2016; inoltre, l’uso delle armi da fuoco è prevalente proprio in quei Paesi dell’America Latina che presentano un tasso di omicidi molto elevato e, in controtendenza rispetto al trend globale, in aumento negli ultimi due decenni.[5]
Nel contesto della violenza domestica e tra partner, la disponibilità di armi in casa, detenute anche legalmente o per ragioni professionali, aumenta il rischio di esiti letali e nelle aree regionali, come quella dei Balcani occidentali, in cui il possesso di armi è relativamente alto, un’elevata percentuale di omicidi con vittima femminile coinvolge l’uso delle armi.[6] Anche in Europa il possesso di armi è fortemente correlato con il tasso di omicidi di donne più che con quello con vittime maschili: solitamente le armi sono tenute in casa, dove più frequentemente avvengono i femicidi, mentre difficilmente sono portate in spazi pubblici[7]. In una review del 2016 che ha preso in considerazione 130 studi su 10 Paesi che dal 1950 al 2014 hanno esplorato le associazioni tra leggi sul possesso di armi da fuoco e omicidi, suicidi e morti non intenzionali da arma da fuoco, l’implementazione di leggi restrittive è associata a riduzioni nelle morti da arma da fuoco e in particolare a più bassi tassi di omicidi della propria partner e di morti accidentali di bambini.[8]
Un caso interessante da osservare è quello degli Stati Uniti: il possesso di armi da fuoco da parte di civili è uno dei più alti al mondo (secondo le stime della Small Arms Survey decisamente il più alto) e il tasso di omicidi decisamente più elevato di quello dell’Europa Occidentale e del Canada. La percentuale di crimini violenti – così come di suicidi, di incidenti legati al possesso di armi e di uccisioni da parte di agenti di polizia – che coinvolgono armi da fuoco è consistente (sono state usate armi da fuoco in circa il 70% degli omicidi, il 26% delle rapine e il 31% delle aggressioni aggravate) ed episodi di mass shooting compiuti attraverso armi semiautomatiche continuano a scuotere l’opinione pubblica, anche se misure decisamente restrittive circa la produzione e la commercializzazione di armi da fuoco, come quelle adottate di recente dal Governo neozelandese a seguito della strage di Chirst Church, non sembrano ancora praticabili nel contesto statunitense. Eppure un accurato studio di J. Scott Lewis[9] sulle differenze legislative nel controllo delle armi tra i diversi Stati USA rileva come a un maggior controllo delle armi corrisponde una diminuzione delle uccisioni di massa.
Tra i casi di studio sull’impatto della legislazione in materia di regolazione del commercio e del possesso di armi sulla violenza letale[10] spicca senz’altro la Croazia, in cui gli omicidi da arma da fuoco si sono ridotti del 70% tra il 2006 e il 2013, mentre gli altri omicidi sono rimasti stabili. Questa divergenza nell’andamento delle due tipologie di omicidi - che in altri Paesi limitrofi come l’Albania non è data - si riscontra a partire dal 2007 e corrisponde all’entrata in vigore di una nuova legge che ha ristretto le condizioni di acquisizione e possesso delle armi, accompagnata da campagne di sensibilizzazione sulla consegna volontaria delle armi (a dicembre 2011 erano già 58mila le armi raccolte) e sulla consapevolezza dei rischi correlati al possesso di armi[11].
Potremmo sintetizzare quanto detto finora affermando che le condizioni di accesso da parte dei civili al mercato delle armi da fuoco incidono sulle variazioni del tasso di omicidi sia nei Paesi con alto tasso di criminalità violenta, sia in quegli Stati – come l’Italia e più in generale in Europa occidentale – in cui il possesso di armi è generalmente contenuto[12] e il tasso di omicidio è relativamente basso e caratterizzato da quote percentuali sempre maggiori di vittime femminili in ambiente domestico.
Un’ultima annotazione: sulla base dei dati forniti dal rapporto Censis-Federsicurezza del 2018[13], se “l’Italia fosse l’America”, vale a dire se il nostro Paese avesse la medesima diffusione di armi pro capite presente negli Stati Uniti, si stima che ci sarebbero 2550 omicidi in più all’anno con arma da fuoco (nell’anno considerato, il 2016, in Italia si sono verificati 150 omicidi). Tutto sommato, pare che la corsa ad armarsi non sia una soluzione auspicabile per migliorare le condizioni di sicurezza, costituendo, semmai, un ulteriore problema[14].
6. Incremento dei poteri di polizia. Le misure per rafforzare la tutela dell’attività espletata dagli ufficiali o agenti di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza (artt. 14 e 15), quelle per tutelare le funzioni della Guardia di finanza (art. 21) e le disposizioni per il potenziamento dell’attività d’informazione per la sicurezza (art. 23) costituiscono interventi disorganici e a rischio di incostituzionalità (come nel caso in cui si prevede per le collaborazioni a fini informativi per la sicurezza possibilità di deroghe a vincoli di riservatezza previsti dalla normativa di settore di norme sulla privacy) o sproporzionate rispetto alle esigenze di tutela (come nei casi d’introduzione delle lesioni lievi e lievissime nell’art. 583-quater e dell’aggravante privilegiata non soggetta a bilanciamento anche per la resistenza a pubblica ufficiale).
D’altra parte, occupandomi di sistemi di polizia, di gestione dell’ordine pubblico e di uso eccessivo della forza, sostengo da tempo la necessità che questa materia sia sottratta a interventi puntuali, soprattutto per iniziativa governativa, e trovi un ambito di riforma complessiva, organica e coerente rispetto ai principi costituzionali.
[1] Cfr. R. Cornelli, Prima indagine sul personale lombardo della Polizia Penitenziaria (PolPen XXI), in questa Rivista, 6 dicembre 2022.
[2] Cfr. R. Cornelli, “Argomenti criminologici sulla legittima difesa”, Diritto Penale e Processo, 7/2019, pp. 986-994.
[3] McEvoy, Hideg, Global Violent Deaths 2017, Small Arms Survey, 2017.
[4] Cfr. Firearms and Violent Deaths, Small Arms Survey Research Notes, 60, 2016; Study on Firearms. A study on the transnational nature of and routes and modus operandi used in trafficking in firearms, UNODC, Vienna, 2015.
[5] Oltre ai rapporti di UNODC, cfr. A Fatal Relationship. Guns and Deaths in Latin America and the Caribbean, Small Arms Survey, 2012.
[6] Cfr. Too Close To Home. Guns and Intimate Partner Violence, Small Arms Survey, 2013.
[7] Killias - Markwalder, Firearms and Homicide in Europe, in Liem, Pridemore (a cura di), Handbook of European Homicide Research, New York, 2012, 261-272.
[8] Santaella-Tenorio - Cerdá - Villaveces - Galea, What Do We Know About the Association Between Firearm Legislation and Firearm-Related Injuries?, in Epidemiologic Reviews, 38, 2016.
[9] Scott Lewis, The Relationship between Gun Control Strictness and Mass Murder in the United States: A National Study 2009-2015, in International Social Science Review, 94(2), 2018.
[10] Cfr. il libro di Carlson, Goss, Shapira (a cura di), Gun Studies: Interdisciplinary Approaches to Politics, Policy, and Practice, 2019.
[11] Cfr. Firearms and Violent Deaths, Small Arms Survey Research Notes, 60, 2016.
[12] Cfr. Firearms in the European Union, Flash Eurobarometer 383, 2015.
[13] Censis-Federsicurezza, Primo rapporto sulla filiera della sicurezza in Italia, 2018, p. 28.
[14] Cfr. I risultati della review di studi empirici di Stroebe, Firearm possession and violent death: A critical review, in Aggression and Violent Behavior, 18, 2013, 709-721.