1. Una premessa. Avverto il dovere di operare due precisazioni, una relativa a me stesso e l’altra alla causale dello scritto.
La prima attiene alle mie limitate competenze, riguardanti il diritto penale e i suoi dintorni e con essa miro a dotarmi di una giustificazione per eventuali omissioni e imprecisioni contenute nel lavoro (si potrebbe obiettare che Sciascia scrisse le sue opere a sfondo giudiziario senza essere un giurista: ma questa è la differenza che passa tra un onesto studioso e un gigante della letteratura).
La seconda precisazione riguarda le ragioni da cui nasce questo scritto. Sono stato invitato dalla Camera penale di Pavia a partecipare a un incontro di celebrazione, più che di presentazione, del libro «Le ispezioni della terribilità. Leonardo Sciascia e la giustizia», a cura di L. Zilletti e S. Scuto, Firenze, Olschki, 2022. Si tratta di un’opera collettanea divisa in otto capitoli, i primi sette contenenti riflessioni di studiosi, giudici e avvocati tematicamente ispirate a frasi di Sciascia estrapolate da romanzi e racconti, che danno il titolo ai capitoli.
Per adempiere al mio compito, ho dovuto subito escludere l’idea di esporre il contenuto del libro, troppo profondo per prestarsi a una sintesi; allo stesso modo si è negata da sé la possibilità di privilegiare uno o un altro capitolo, a causa dell’importanza che tutti li contraddistingue in relazione al tema trattato [1]. Così, sperando in un’intuizione, ho ripreso nelle mani alcune opere di Sciascia, selezionate senza nessuno specifico criterio; nel corso della lettura mi sono imbattuto in una storia che ha suscitato in me qualche curiosità e, cercando di approfondire, ne è venuta fuori un’altra storia, che passo a riferire.
2. «Il mare colore del vino» (1973). Si tratta di una raccolta di racconti scritti tra il 1959 e il 1972, ordinati cronologicamente (quello che ci interessa è il penultimo, p. 129-139 di 145) [2]. Nella Nota che già nella prima edizione accompagnava il volume, l’Autore così diceva di sé: «... in questi anni ho continuato per la mia strada, senza guardare né a destra né a sinistra (e cioè guardando a destra e a sinistra), senza incertezze, senza dubbi, senza crisi (e cioè con molte incertezze, con molti dubbi, con profonde crisi)».
La sconfinata ammirazione provata per il Maestro (di Regalpietra) e per la sua straordinaria capacità di istillare il dubbio vedendo, e molto spesso antevedendo, la realtà nelle sue varie sfaccettature trova conferma e alimento nella sofferta sincerità di queste parole.
3. Processo per violenza. Senza indugiare, passo subito al racconto sul quale intendo concentrare l’attenzione, intitolato Processo per violenza.
La trama, come sempre nei racconti di Sciascia, è incalzante.
L’8 dicembre 1870 a Bottanuco, in provincia di Bergamo, una quattordicenne viene uccisa, denudata e il suo corpo orribilmente scempiato. Alcuni particolari, come gli spilli per i capelli disposti a raggiera, vicino al cadavere, e l’asportazione di parti del corpo e delle viscere, aggiungono al dolore lo sgomento.
Il primo sospettato è un muratore, che però dispone di un alibi incontestabile: «e fu liberato ‘ben presto’, ma da una sentenza del Tribunale di Bergamo; e cioè dopo un paio di mesi di carcere» [3].
Otto mesi dopo, il 27 agosto 1871, si rinviene in zona il cadavere di un’altra donna, orribilmente straziato in modo simile che nel precedente episodio.
Passano alcuni mesi e «cominciò a sussurrarsi il nome di Vincenzo Verzeni. “Era costui un giovane di 22 anni, nato e dimorante a Bottanuco, di una agiata famiglia di contadini. Ritenuto infino allora giovane onesto, dedito alle pratiche religiose, alieno da qualunque vizio, non si sarebbe mai creduto capace di sì atroci misfatti, se non si fosse propagata una serie di fatti, sui quali sino allora erasi serbato il più perfetto silenzio”» [4].
Qui si rende necessaria una piccola chiosa. Il passo che precede, al pari di altri che nel racconto lo anticipano e di altri che lo seguono, è riportato tra virgolette. Sciascia non ci dice se sia tratto dalla sentenza o da un rapporto dei carabinieri contenuto nel fascicolo processuale ovvero da una cronaca del tempo (a giudicare dal prosieguo della narrazione, tutte e tre le ipotesi sembrano verosimili). Quale che sia la fonte, la provenienza da un’«agiata» famiglia di contadini e il positivo giudizio sociale sul ragazzo – sui quali torneremo in seguito – sembrano presentati come dati di verità oggettiva.
Andiamo avanti. I fatti riguardanti il Verzeni, oggetto di voci che stavano divenendo sospetti e poi si sarebbero trasformate in prove, erano i seguenti: un tentativo di violenza sessuale in danno di una cugina dodicenne nel di lei letto, abitante nella casa attigua, avvenuto quattro anni prima; tre anni prima, un’aggressione nei confronti di una donna e subito dopo di un’altra e, a distanza di qualche mese, un tentativo forse di violenza, ma arrestatosi senza impiego di energia fisica, su una ragazza dodicenne. Le grida di tutte le vittime avevano fatto fuggire l’assalitore. Più di recente, due ulteriori aggressioni, una ad aprile e l’altra ad agosto del 1871, avevano avuto il medesimo esito. Da notare che, in tutte queste vicende, solo in due occasioni il ragazzo era stato riconosciuto; v’erano però altre persone che, in relazione ai fatti in esame, ricordavano di avere visto nei pressi il Verzeni.
Al processo, una ragazza chiamata a deporre circa l’avvistamento del Verzeni nel luogo del primo omicidio ritratta il riconoscimento effettuato in precedenza. Sciascia riferisce: «Il pubblico ministero ne chiede l’arresto e il processo immediato. La corte si ritira, lasciando l’aula in agitazione, col Previtali che scongiura la figlia di riconoscere il Verzeni. Quando la corte rientra, la ragazza chiede perdono, si dice convinta che l’uomo visto sotto la tettoia “rassomigliava assai a esso Verzeni”. E il processo riprende vela. Il Verzeni, però, sempre nega. Non ci sono contro di lui che indizi. (...) Ma non aveva alibi, l’imputato, se non nelle messe: ne vide tre il giorno in cui fu assassinata la Motta; tre il giorno in cui fu assassinata la Pagnoncelli. E tutte e due le volte si confessò e comunicò» [5].
L’interrogatorio del Verzeni non dà risultati utili all’accusa, di lui rivelando solo una discreta capacità di intendere. Sciascia ne prende nota, ma sottolinea anche l’inutilità della difesa: «tutte le sue risposte si può dire siano sensate e, nella misura in cui lo sono, improntate all’indifferenza di chi sente vano il buon senso di fronte a quell’assurda macchina che è la giustizia. Ci sono soltanto tre smagliature nelle risposte di Verzeni al giudice (...). Ma di queste tre smagliature né il pubblico ministero né i giudici sanno approfittare» [6].
Giunto a questo punto della narrazione, il lettore è indotto a parteggiare per l’imputato, presentendo che gli ingranaggi della giustizia si stanno preparando a stritolarlo. Come Sciascia in altro luogo scrive: «Se un processo, giuocato su tre indizi fino a un certo punto validi e su un movente appena intravisto tra le quinte della maldicenza, fosse finito in una sentenza di condanna, Laurana ne avrebbe tratto motivo a rinvigorire quel sentimento e quella filosofia di repugnanza e di polemica che costitutivamente portava contro l’amministrazione della giustizia e contro il principio stesso da cui l’amministrazione della giustizia discendeva» [7].
Agli occhi dei giudici e dei giurati la responsabilità del Verzeni è però ormai data per acquisita e ne offre conferma la narrazione, che improvvisamente abbandona la ricostruzione dei fatti e delle prove per spostarsi sull’accertamento dell’imputabilità dell’imputato.
«Affrontata alla “anormalità” dei delitti che gli si attribuivano, la “normalità” dell’imputato, sia fisica che di raziocinio, poneva ai giudici il problema della responsabilità. Bisogna anche dire che difesa e autodifesa all’immagine di “normalità” concorrevano con questi elementi: le indefesse pratiche di devozione – le messe a rotazione, le confessioni e comunioni – cui il Verzeni era dedito; il fatto che fino a ventidue anni non avesse avuto rapporti intimi con donne né indulgesse a solitari vagheggiamenti erotici; la sua comprovata repugnanza ad assistere alla uccisione di polli (che si uccidono, si sa, col tirar loro il collo). “Poiché di tanto la ruota ha girato”, oggi non c’è schiappa d’avvocato che non sa quanto controprodurrebbero tali elementi; ma allora servivano a difendere. Comunque, per affrontare con giusto ausilio di scienza il problema della responsabilità dell’imputato, la corte si rivolse a colui che in quel momento era il massimo luminare della criminologia: il professor Cesare Lombroso, fondatore della scuola positiva del diritto penale» [8].
Una nuova, piccola chiosa. Siamo tra il 1872 e il 1873, e la nomina di Lombroso dipese dal fatto che egli fosse stato, e si apprestava a ridiventare, titolare dell’insegnamento di clinica delle malattie mentali nell’unica Università lombarda, che aveva sede in Pavia [9]. Inoltre, a quel tempo la criminologia non esisteva né come scienza né come indirizzo di studi; lo stesso Lombroso si era impegnato fino allora in studi psichiatrici [10], che avevano preso forma anche nel saggio La medicina legale delle alienazioni mentali studiata col metodo sperimentale, Padova, 1865.
Vero è, piuttosto, che Lombroso si avviava a divenire il fondatore dell’antropologia criminale, in conseguenza di ricerche iniziate quando, nel 1870, in occasione dell’esame autoptico di tale Giuseppe Villella, brigante calabrese, rinvenne alla base del di lui cranio una fossetta di alcuni centimetri in luogo della normale cresta occipitale. Da qui la teoria dell’anomalia cranica del delinquente.
Dunque Lombroso accetta l’incarico e, in forza delle sue teorie sull’atavismo, sulla degenerazione dei delinquenti e sulle loro anomalie craniche, procede agli esami “craniometrici” sull’imputato e studia pure i genitori, i nonni, gli zii e i cugini. Il risultato – riferisce Sciascia – è assai modesto: il padre presenta tracce di pellagra e due zii sono “cretinosi”, un cugino aveva sofferto di iperemia cerebrale e un altro era recidivo nei furti.
«Tutto sommato – annota Sciascia –, niente di più di quanto si nota scoperchiando le famiglie più a modo. Il termine “cretinoso”, per altro, vale come alleggerimento di quello di cretino: “oltre il cretino” spiega il professore “abbiamo il ‘cretinoso’, che partecipa del primo e nello stesso tempo dell’uomo sano e normale”. E viene da rimpiangere che questa parola non sia uscita dalle perizie del criminologo per entrare nell’uso comune: oggi ce ne sarebbe tanto bisogno, ché si attaglierebbe a quelli che partecipano della cretineria mostrando di far uso degli strumenti dell’intelligenza» [11].
La perizia conclude che il Verzeni era soltanto affetto da «quel lieve attossicamento cretinoso e pellagroso che si divaricava nei suoi parenti, e che lasciava impronte nel lobo frontale destro e rompeva l’equilibrio delle facoltà affettive in confronto degli appetiti». Ma tutto questo non incideva sulla capacità di intendere e volere.
«Letta la perizia del professor Lombroso, il pubblico ministero cavalier Quintavalle attaccò la sua arringa. Evocò vive le vittime: “vivace, intelligente e prosperosissima, modello alle compagne per castigatezza e purità di costumi” Giovannina Motta; “madre di due teneri figli, uno dei quali lattante ancora” Elisabetta Pagnoncelli. Le fece poi vedere morte, non risparmiando i particolari più orrendi. E infine: “Or non mi resta più altro che trincerarmi dietro il giudizio dei periti”. Vi si trincerò, inespugnabilmente. Per il Verzeni, i lavori forzati a vita» [12]. Così si pronunciò la Corte di Assise di Bergamo il 9 aprile 1873 e così si conclude il racconto di Sciascia.
4. Un errore giudiziario? Fin qui giunge il fatto, riferito da Sciascia nei termini essenziali. Che siano stati utilizzati documenti relativi al processo è evidente, poiché viene tra l’altro riportata fra virgolette una parte dell’interrogatorio dell’imputato e compaiono numerosi passi testuali, taluni ricavati forse dalla sentenza o dal fascicolo processuale e altri dalla perizia di Lombroso; vero è pure, tuttavia, che i passaggi virgolettati della requisitoria del pubblico ministero non possono che appartenere a una cronaca giudiziaria del tempo, alla quale forse potrebbe pensarsi come fonte di tutto il materiale.
L’impressione suscitata nel lettore è comunque quella di un procedimento contro un ragazzo che, alla luce di alcuni episodi precedenti e delle sue “anomalie” comportamentali, appare il perfetto colpevole. Non importa ai giudici che Vincenzo Verzeni si protesti innocente e manchi qualsiasi prova diretta in ordine al compimento dei due omicidi: non un testimone, non una traccia ematica sui vestiti, non un segno o un oggetto in grado di dimostrarne il benché minimo coinvolgimento. Nessun contributo all’accertamento della responsabilità è poi offerto dall’istruttoria dibattimentale, che anzi registra l’intimidazione di una teste di accusa che aveva ritrattato il riconoscimento dell’imputato. Neppure la Corte, per quanto è dato sapere, si arresta dinanzi all’assenza di qualsiasi razionale movente nel Verzeni: avendo nella perizia il prof. Lombroso risposto positivamente al quesito sulla capacità di intendere e volere, viene pronunciata la sentenza di condanna ai lavori forzati a vita.
«Terrificante è sempre stata l’amministrazione della giustizia, e dovunque. Specialmente quando fedi, credenze, superstizioni, ragion di Stato o ragion di fazione la dominano o vi si insinuano» [13]. Il caso in esame rientra verosimilmente nella superstizione: un giovane assiduo frequentatore di chiese, privo di relazioni sociali, del quale si sa che non ha mai avuto rapporti sentimentali o sessuali, presenta i tratti del “mostro” che deve essere condannato per restituire pace e serenità al paese. Aggiungiamo, per averlo letto altrove, che per il voto di un solo giurato la condanna non consistette nella pena di morte e che il Verzeni espiò la pena nel Bagno penale dell’isola di Santo Stefano.
È verosimile che Sciascia non abbia ravvisato la necessità di ulteriori ricerche in archivi e biblioteche perché il fatto (che pure «“è un sacco vuoto”. Bisogna metterci dentro l’uomo, la persona, il personaggio perché stia su») [14] risultava sufficientemente delineato ai fini della prospettazione di un errore giudiziario, derivante da un processo a senso unico nei confronti di un imputato che presentava i caratteri del perfetto colpevole alla luce della sua “condotta di vita”, dei suoi precedenti e dell’assenza di altri possibili sospettati [15].
Solo di sfuggita accenniamo che, malgrado il racconto ci presenti il Verzeni come di «agiata famiglia», probabilmente così non era. Il concetto di “agiatezza” è vago e può anche ammettersi che, nelle campagne bergamasche della fine del secolo XIX, esso potesse semplicemente valere a escludere l’indigenza. Questa accezione minimale – compatibile con l’assenza di qualsiasi indicazione in ordine all’istruzione scolastica ricevuta dal ragazzo – trova conferma nel riferimento, contenuto nella perizia di Lombroso, alle tracce di pellagra presentate dal padre. La pellagra era infatti una malattia dovuta al c.d. monofagismo maidico, cioè a un’alimentazione tipica delle classi rurali più povere dell’Italia centrosettentrionale, basata esclusivamente sul mais. Era chiamata anche la malattia delle tre “D”: dermatite, diarrea e demenza. Da escludere, quindi, che quella dei Verzeni fosse una famiglia “agiata” nel senso oggi corrente [16]; da escludere pure, quindi, che quella famiglia potesse godere di qualche protezione “sociale” o “reputazionale” nel processo.
In favore dell’errore giudiziario potrebbe attribuirsi qualche rilievo all’intervento nel processo di Cesare Lombroso, che a quel tempo si trovava nella fase di sperimentazione delle sue teorie sulle caratteristiche fisiche dell’uomo criminale, legate all’atavismo e alla degenerazione [17]. È proprio al fine di eseguire i rilievi craniometrici che, come riferisce Sciascia, Lombroso chiede che il ragazzo gli venga consegnato rasato a zero; e possiamo immaginare con quanta ansia abbia egli cercato nel Verzeni quella fossetta occipitale già rinvenuta sul brigante Villella.
Si comprende così la delusione che emerge dalla perizia fin dal suo esordio: «Il Verzeni che a prima vista dai suoi atti dovrebbe giudicarsi un feroce monomaniaco, offre alle indagini antropologiche molti dei caratteri dell’uomo sano di Bergamo». In effetti, delle anomalie rinvenute sul volto del ragazzo, relative a un’asimmetria tra i lobi frontali destro e sinistro, si afferma poco dopo che «possono avere solo un limitato valore»: in altre parole, Verzeni non offre a Lombroso nessun sostegno per le idee che egli sta cominciando a verificare e nondimeno viene indicato come responsabile di tutti i delitti ascrittigli prima ancora della pronuncia della sentenza.
Per quanto ci interessa, emerge così che il processo, già gravato da un forte pregiudizio nei confronti dell’imputato, basato su comportamenti pregressi mai denunciati e quindi mai accertati [18], vide l’intervento di un perito privo di qualsiasi obiettività e animato dall’ansia di riscontrare le proprie teorie sulle fattezze somatiche di chi, ai suoi occhi, era certamente un delinquente.
Al cospetto di una comunità che lo aveva già dichiarato colpevole, di una Corte d’Assise che concorre a intimidire la teste che aveva ritrattato, di un pubblico ministero convinto della sua responsabilità allo stesso modo del perito medico-legale, il Verzeni non poteva avere scampo. D’altra parte, come fa dire Sciascia a uno dei suoi personaggi, «che vuol dire essere innocenti, quando si cade nell’ingranaggio? Niente vuol dire, glielo assicuro. (...) Per come va l’ingranaggio, potrebbero essere tutti innocenti» [19].
5. Il seguito dei fatti. Ma la nostra storia non si conclude con la condanna di Vincenzo Verzeni.
Nel 1873, cioè lo stesso anno della sentenza, la Rivista di discipline carcerarie in relazione con l’antropologia, col diritto penale, con la statistica ecc., diretta da Martino Beltrani Scalia, Ispettore Generale delle Carceri del Regno, pubblica nel fascicolo 4-5, pp. 193-213, un saggio dal titolo “Verzeni e Agnoletti”, con sottotitolo “Studiati dal prof. Cesare Lombroso”.
Nella prefazione si dà conto della vicenda Verzeni (dell’altra, concernente Achille Agnoletti, uccisore del proprio figlio, nulla si riferisce perché «troppo si occuparono i pubblici fogli allorché la celebre causa fu discussa»), allo scopo di «aiutare il lettore nell’apprezzamento dei fatti e delle induzioni scientifiche». I fatti sono quelli già a noi noti; di più apprendiamo solo che Verzeni venne giudicato e condannato anche per i tre tentativi di omicidio prima riferiti e che tutti i reati ascrittigli «nel corso del dibattimento si affermarono evidentemente» [20].
Lo scritto di Lombroso è nella prima parte costituito dalla perizia presentata alla Corte di Assise bergamasca. Da essa ricaviamo dati anamnestici di particolare interesse, ai quali si aggiungono quelli riferiti in una monografia pubblicata nel 1893 da un “coadiutore alla Clinica Psichiatrica della Università di Napoli”, Pasquale Penta, che visitò Verzeni nel Bagno penale di Santo Stefano.
Anzitutto, rispetto alla provenienza del ragazzo da «una agiata famiglia di contadini», Lombroso ricorda che «a Bottanuco, e più nella famiglia Verzeni, oltre il cretinismo e la pellagra domina sovrana la bigotteria e l’avarizia. La morale si fa consistere nelle pratiche religiose e nell’astinenza giovanile» [21].
Rispetto a questo giudizio di tipo sociologico, in qualche modo coerente alle concezioni atavistiche ed ereditarie di Lombroso, Penta si esprime – senza che cambi il risultato – direttamente nei confronti della famiglia Verzeni, «eccessivamente avara, spilorcia e bigotta», ove il padre «è buon bevitore di vino ed alcune volte si ubbriacava (...). Tanto avari tutti quelli della sua famiglia che mangiarono nel 1866, compreso il condannato, polenta di gran turco marcita, pur avendo i mezzi onde comprarne del buono; e tanto bigotti che si ritiene da essi grave peccato la copula dei celibi e tutta la morale si fa consistere nelle esagerate pratiche religiose. Come si vede dunque è un’eredità morbosa che se non per intensità e spessezza, diciamo così, si fa notare certamente per estensione e varietà» [22].
Siamo in piena epoca positivista, nella quale però di positivismo, inteso come scienza sperimentale rigorosamente basata sui fatti e sulle loro relazioni, v’è ben poco, tutto riducendosi a presunzioni e apriorismi finalizzati a dimostrare ereditarietà e degenerazione: nel caso di Verzeni, i fattori rilevanti sono avarizia, bigottismo, cretinismo, ingestione di mais marcio come causa della pellagra.
Spostandoci sulla personalità del ragazzo, abbiamo visto come Sciascia riporti dagli atti processuali che, fino a quando si addensarono su lui i primi sospetti, egli era ritenuto «giovane onesto, dedito alle pratiche religiose, alieno da qualunque vizio, (che) non si sarebbe mai creduto capace di sì atroci misfatti»; inoltre, che nei giorni e nelle ore in cui vennero commessi i due omicidi Verzeni non disponeva di alibi «se non nelle messe: ne vide tre il giorno in cui fu assassinata la Motta; tre il giorno in cui fu assassinata la Pagnoncelli. E tutte le due volte si confessò e si comunicò».
Al contrario, Penta così si esprime: «della vita del nostro individuo, anteriore all’epoca dell’imprigionamento, si sa poco veramente, ma forse gli è tanto che basta. Non frequentò mai le scuole, né s’istruì altrimenti. La famiglia avara e bigotta non gl’insegnava che la via del campo e della chiesa. Non amava affatto le compagnie degli amici: in paese lo si vedeva poco, alcuni finanche nol conoscevano ed egli soleva starsene sempre taciturno, in casa od altrove che fosse. Da ragazzo e da giovinetto rubò parecchie volte frutta ed erbe, prima e dopo i suoi reati di sangue, e se ne confessò al prete» [23].
Ma il dato più sorprendente viene in riferimento alla sessualità. Se, come prima riferito, Sciascia afferma che mai il Verzeni «avesse avuto rapporti intimi con donne né indulgesse a solitari vagheggiamenti erotici» e riferisce pure della sua «comprovata repugnanza ad assistere alla uccisione di polli (che si uccidono, si sa, col tirar loro il collo)», al contrario Lombroso – che in sede di esame obiettivo dell’imputato aveva rilevato «l’uso e anche l’abuso dell’organo» sessuale – scrive: «Si hanno le prove che esso si masturba, che è inclinato alle donne al punto da farsi punire in prigione per solo vederle, e che confessa aver avuto rapporti sessuali precoci perfino con bambine» [24].
Quanto poi all’incapacità di presenziare all’uccisione dei polli, Lombroso dichiara di avere appreso direttamente dal ragazzo che «da dodici anni in su all’iniziarsi della pubertà avvertì che mentre strangolava i polli avvertiva un gran piacere, sicché molte volte ne faceva degli strazi, dando poi ad intendere ai suoi che la faina era penetrata nel pollaio e li aveva uccisi» [25].
Penta aggiunge: «Quando fu arrestato aveva già due amanti in paese, però sia per l’una che per l’altra provava un affetto che confinava molto colla freddezza (...). Si era già masturbato in età molto precoce: però di caratteristico ed importante nella sua vita, a riguardo delle presenti indagini, è quanto egli stesso raccontò al prof. Lombroso e ripetette anche a me, che cioè all’età di 12 anni (sull’iniziarsi della pubertà), provò per la prima volta un strano piacere a strozzare i polli, cosicché molte volte, riluttante finanche la sua ragione, era trascinato a farne strage, nel pollaio stesso della sua famiglia, per saziare in tal modo quel suo desiderio misterioso, impulsivo, prepotente» [26].
Alla luce di questi dati, la figura di Verzeni comincia ad assumere una nuova dimensione. Manca però ancora un movente per gli orrendi crimini a lui ascritti e qui il metodo di Lombroso risulta di particolare interesse.
Il fondatore dell’antropologia criminale comincia ponendo l’accento sulla «sordida avarizia della famiglia che non gli lasciava tempo né denaro per soddisfare gli istinti lascivi e gli vietava il matrimonio, ed irritava coll’assoluto impedimento una precoce e prepotente libidine. Quest’uomo, a cui era stata insegnata la sola morale del frequentare la chiesa e di lavorare, messo nel bivio tra il comprimere un violento prepotente appetito ed il commettere un crimine, scelse questa via senza d’altro preoccuparsi che di tenerlo celato. Dallo stupro fu condotto allo strangolamento, anche, pel bisogno, doppiamente forte, in quel paese, di tener nascosti i rapporti sessuali, ma più ancora pel pervertimento della facoltà genitale e insieme affettiva, a cui certo contribuiva quello attossicamento cretinoso e pellagroso che si riscontrava nei suoi parenti, e che lasciava impronte nel suo lobo frontale destro, e che rompeva l’equilibrio delle facoltà affettive» [27].
Nel passo riportato sono affastellati fattori di spicciola sociologia e mere supposizioni collegate a dati di dubbia rilevanza: ciò che ne rivela il tasso di scientificità, che non viene certo innalzato dalle successive citazioni scientifiche e letterarie (che comprendono anche Lucrezio e Tito Livio) e dai richiami di casi concreti per dimostrare l’associazione tra violenza e libidine, specie quando «è deficiente il senso morale per l’ambiente in cui (l’individuo) vive, ed è pervertito il senso carnale per l’eccessiva continenza» [28].
La digressione così operata, fondata su materiale che poi passerà ne L’uomo delinquente, giunge diretta alla conclusione che «questa specie di furore sanguinario che s’associa alla libidine del casto o del pazzo, insieme alla atrofia di una porzione del cervello e all’influenza ereditaria indiretta, spiegherebbe alcuni fatti che restano inesplicabili» [29].
L’ultima frase colpisce per la sua contraddittorietà all’interno di un contesto fortemente contraddittorio, poiché in apertura della perizia Lombroso aveva affermato l’irrilevanza dei fattori ereditari nel Verzeni. D’altra parte, occorre soppesare l’utilizzo del verbo condizionale, che si riflette nelle righe finali: «Io concludo, quindi, ad una diminuzione di responsabilità pel Verzeni per quanto concerne, almeno, l’ultima parte dell’atto. Che vi sia stato qualcosa di morboso nella insolita ferocia in questo atto si ammette e si spiega colle anomalie craniche e coll’eredità, ma che l’ebbrezza spermatica e la influenza pellagrosa e cretinosa abbiano potuto completamente renderlo inconscio di sé prima e dopo quell’atto, troppo bene lo confutano la nessuna fama di bizzarro o di matto, la capacità cranica, la ricchezza di capelli, le poche alterazioni della sensibilità al dolore, l’affettività ben conservata, la calma e l’astuzia con cui subito dopo l’atto comincia a preparare un alibi, la perspicacia nelle negative, ecc.» [30].
Ecco dunque a cosa si riduceva il metodo c.d. positivo: aprioristiche assunzioni pseudo-scientifiche dalle quali si pretendeva di desumere conclusioni inconfutabili. Sulla base di un siffatto metodo si stabiliva il destino degli imputati, l’inflizione della pena capitale, la durata della pena detentiva.
D’altra parte, basterebbe qui allargare la visuale allo psicologismo di Raffaele Garofalo – insieme a Enrico Ferri componente della triade che fondò il positivismo in Italia e in Europa – per renderci conto che si trattava di presunzioni prive di qualsiasi fondamento: dalle quali, però, si svilupparono i germi del razzismo e della “pulizia sociale”, che avrebbero di lì a poco influenzato le sorti del mondo con uno straordinario carico di orrore [31].
Può forse essere questa la ragione dell’interesse di Sciascia per il processo Verzeni: un processo indiziario, con indizi riferiti solo a fatti pregressi e dunque scarsamente probanti rispetto all’imputazione di due omicidi e tre tentati omicidi, accompagnato da una perizia fondata su presunzioni pseudo-scientifiche e quindi sfociato nella condanna di un imputato che mai aveva confessato i propri crimini.
Ma la storia non è ancora conclusa. Il saggio di Lombroso, dopo la trascrizione della perizia da lui redatta, riporta la narrazione di un incontro successivo di pochi giorni alla sentenza, «quando io potei intrattenermi, parecchie ore, collo sciagurato, e coglierne l’intera rivelazione del movente dei suoi misfatti. “Io ho, disse, veramente ucciso quelle donne e tentato di strangolare quell’altre – perché provava in quell’atto un immenso piacere in quanto ché appena metteva loro le mani addosso sul collo mi si ... il ... e ne sentiva un gran gusto (un vero piacere venereo). (...) La Motta la spaccai non colla falcetta ma con un rasoio (?), con cui il giorno prima m’ero sbarbato, provai nello spaccarla un gran piacere: le graffiature che si trovarono sulle coscie non erano prodotte colle unghie ma coi denti, perché io, dopo strozzata, la morsi e ne succiai il sangue ch’era salato, con che godei moltissimo».
Dopo essersi dilungato sullo strazio dei due cadaveri e del piacere provatone, Verzeni dichiara di non avere confessato dinanzi alla Corte per il timore di reazioni dei suoi compaesani e di non avere riferito nulla al proprio avvocato. «A Lei lo dico perché capisco che mi vuol bene».
«Matto non lo sono, ma quando ero a casa mia, taceva sempre; però in quei momenti dello strozzamento io non vedevo più niente (...). Non ho rimorsi. Fino a un certo punto, e me lo disse il confessore delle carceri, è però meglio che io sia in carcere e ci resti, perché se fossi fuori tanto era quel piacere che io non potrei fare a meno di procurarmene, e uccider altre donne. Io non ho mai pensato a toccare o indagare le parti sessuali, o analoghe, ma solo mi limitavo a stringerle al collo ed a succiarne il sangue; ignoro ancora come viene conformata la donna; durante o dopo lo strozzamento però io mi stringeva attorno a tutto il corpo senza badare ad una più che ad un’altra loro parte».
Lombroso riporta le dichiarazioni di Verzeni, senza manifestare altro dubbio che quello riferito all’uso del rasoio, che difficilmente avrebbe potuto produrre lo scempio realizzato; ma subito rilevando che «ci aggiungono fede, almeno, ad una parte di esse il fatto che egli, rivelandosi per la prima volta antropofago, non poteva, certo, migliorare la sua situazione davanti alla legge». Soprattutto, la credibilità del racconto viene rafforzata dalla «analogia coi fenomeni asserti dal Legier e dal Bertrand, i quali avevano, veramente, preferenza pei visceri e pel sangue» [32].
La conclusione è la seguente: «Quello che vi è straordinario in questo caso, e che giustifica fino ad un certo punto la sentenza ed anche la perizia mia è la perfetta lucidità di mente dell’accusato, la sua tenacia a nascondere anche al confessore il delitto fin dopo emanata la sentenza; la coscienza, quindi, della sua gravità – ma nello stesso tempo l’irresistibilità dell’atto. Se il racconto una volta che fosse accertato, non riuscirebbe a cancellare del tutto la sua responsabilità, certo gioverebbe a diminuirla notevolmente, e non solo dopo l’atto, ma anche prima di esso, perché rientrerebbe in quei cinque o sei casi che si possedono nella scienza di necrofilomania o pazzia per amori mostruosi o sanguinari – e sarebbe un esempio di più della necessità dei manicomi criminali in cui collocare questi esseri, in cui non esiste più quasi una linea di confine fra il delitto e la pazzia» [33].
In sostanza, Lombroso non si chiede il motivo di una confessione resa a lui solo e neppure si duole del suo errore diagnostico sulla piena imputabilità del Verzeni [34]. Neppure si chiede le ragioni per cui il ragazzo, abituale frequentatore di chiesa, non avesse preferito confidarsi esclusivamente con il prete, che gli avrebbe garantito il segreto al contrario di quanto fece Lombroso. Né infine si chiede come possa egli affermare di sentirsi destinatario del di lui affetto, dopo essere stato trattato solo come oggetto di studio [35].
La penna di Sciascia sarebbe stata preziosa per portare luce in questa oscura storia. Forse avrebbe immaginato un tranello teso dal Verzeni al Lombroso, al fine di dimostrare la vanagloria dell’uomo e la pochezza delle sue teorie, senza riuscire nell’intento a causa del rapido deterioramento delle sue condizioni mentali. Oppure avrebbe pensato a una confessione menzognera come atto di gratitudine nei confronti di Lombroso, che aveva contribuito a evitargli la condanna alla pena capitale, consentendogli una vita che, in fondo, non doveva essere peggiore di quella vissuta fino ad allora. O, ancora, nella confessione del ragazzo avrebbe Sciascia potuto trovare conferma degli effetti del processo inquisitoriale, all’esito del quale «bisogna, anche se innocenti, rendersi alla colpa: e per il fatto che alla colpa, come esempio di colpevolezza, si è stati scelti» [36].
6. La conclusione. Vincenzo Verzeni, nato a Bottanuco l’11 aprile 1849, arrestato per plurimi omicidi consumati e tentati l’11 gennaio 1872, fu condannato il 9 aprile 1873 alla pena dei lavori forzati a vita, consistenti – come affermava l’art. 16 del codice penale sardo-piemontese del 1859 – nella sottoposizione «alle opere più faticose a profitto dello Stato, colla catena ai piedi, e nel modo prescritto dai regolamenti». In conseguenza della nuova scala sanzionatoria introdotta nel 1889 dal primo codice penale dell’Italia unita, la sua pena venne commutata nella reclusione di trent’anni e la scarcerazione avrebbe dovuto quindi verificarsi alla fine del 1902; anche a causa – sembra – della viva apprensione suscitata tra i suoi compaesani dalla notizia dell’imminente liberazione, Verzeni fu però trattenuto per qualche tempo in domicilio coatto nell’isola di Ventotene. Tornato infine a Bottanuco, vi morirà il 31 dicembre 1918.
Di lui non si è perduta memoria. Navigando su Internet, il suo nome compare in tutti i siti dedicati al crimine e all’horror, con le qualifiche di «primo serial killer certificato della storia italiana», «vampiro della bergamasca», «strangolatore di donne», «squartatore di donne».
[1] L’opera è già stata oggetto di ottime recensioni da parte di E.R. Belfiore, Riscoprire Sciascia in otto atti e attraverso la penna di Massimo Bordin. Una lettura di Ispezioni della terribilità. Leonardo Sciascia e la giustizia, in Archivio penale, 2023, n. 3, p. 1 ss.; L. Risicato, Leonardo Sciascia e la giustizia. Analisi di un’ossessione in dieci lemmi, in Criminalia, 2022, p. 367 ss.
[2] La prima edizione è di Einaudi, 1973; noi ci atteniamo all’edizione di Adelphi, 1996.
[3] L. Sciascia, Processo per violenza, in Il mare colore del vino, Adelphi, Milano, 1996, p. 131.
[4] L. Sciascia, Processo per violenza, cit., p. 132.
[5] L. Sciascia, Processo per violenza, cit., p. 134 s.
[6] L. Sciascia, Processo per violenza, cit., p. 136 s.
[7] L. Sciascia, A ciascuno il suo (1966), Adelphi, Milano, 1988, p. 99.
[8] L. Sciascia, Processo per violenza, cit., p. 137.
[9] Enciclopedia Treccani online, voce Cesare Lombroso. Da essa si apprende che, a partire dal 1863, Lombroso aveva tenuto diversi corsi di insegnamento nell’Università di Pavia, divenendo nel 1867 professore straordinario di clinica delle malattie mentali; nel 1871 aveva assunto la direzione del manicomio di Pesaro e nel 1873 era tornato a ricoprire il suo incarico universitario a Pavia, per trasferirsi poi nell’Università di Torino nel 1876.
[10] L’opera principale è Genio e follia, Chiusi, Milano, 1864; di esso v. II ed., Brigola, Milano, 1872; III ed., Hoepli, Milano, 1877; IV edizione, Bocca, Milano, 1882.
[11] L. Sciascia, Processo per violenza, cit., p. 138. L’A. ha dedicato profonde riflessioni alla figura del cretino. In Nero su nero, Adelphi, Milano, 1991, p. 6, così si legge: «È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino. Ma di intelligenti c’è sempre stata penuria; e dunque una certa malinconia, un certo rimpianto tutte le volte ci assalgono che ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genuini, integrali. Come il pane di casa. Come l’olio e il vino dei contadini». Nella storia qui raccontata, dunque, ben si colloca il rilievo che Lombroso si laureò in Medicina a Pavia, nel 1858, con una tesi sul cretinismo in Lombardia.
[12] L. Sciascia, Processo per violenza, cit., p. 139.
[13] L. Sciascia, La strega e il capitano (1986), Adelphi, Milano, 1999, p. 26.
[14] L. Sciascia, Il contesto (1971), Torino, Einaudi, 1991, p. 37.
[15] D’altra parte, nell’opera citata nella nota precedente, p. 18, l’ispettore Rogas, esaminando fascicoli processuali, aveva tratto «la convinzione di quanto non fosse difficile, in fondo, distinguere anche sulle morte carte, nelle morte parole, la verità dalla menzogna; e che un qualsiasi fatto, una volta fermato nella parola scritta, ripetesse il problema che i professori ritengono s’appartenga soltanto all’arte, alla poesia».
[16] Lombroso occupò una posizione di primo piano nello studio della pellagra al tempo in cui dirigeva il manicomio di Pesaro, presso cui erano ricoverati numerosi pazzi pellagrosi. La sua teoria, che attribuiva la pellagra alla cattiva conservazione del mais, il cui deterioramento provocava lo sviluppo di sostanze tossiche, era però errata: in realtà la malattia derivava da una carenza alimentare e soprattutto di vitamine del gruppo B nell’organismo.
[17] La teoria lombrosiana sarebbe stata esposta nell’opera L’uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie, Milano, Hoepli, 1876, che con il titolo L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, giurisprudenza ed alle discipline carcerarie e poi L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza ed alle discipline carcerarie sarebbe giunto fino alla V ed., Torino, Bocca, 1896-1897.
[18] «E sommamente ingiusto (...) sembrava poi l’elemento dei “precedenti” (...), come argomento incontrovertibile e definitivo. Se uno aveva a dodici anni rubato prugne nell’orto del vicino, a trenta poteva bene avere ucciso a scopo di rapina. Se poi le prugne le aveva rubate nell’orto della canonica, tutto lasciava credere che dieci anni dopo potesse avere ucciso sua madre» (L. Sciascia, Il contesto, cit., p. 20 s.).
[19] L. Sciascia, Il contesto, cit., p. 25.
[20] Le aggressioni che precedettero i due omicidi vennero dunque qualificate – con evidenti forzature – come omicidi tentati e non come tentativi di violenza sessuale. Tale scelta della pubblica accusa, poi condivisa dal giudice del dibattimento, non era dettata dall’assenza di querela delle persone offese, perché l’art. 489 del codice penale sardo piemontese (1859) sanciva la procedibilità di ufficio per il reato di “stupro violento”; la perseguibilità a querela, richiesta tuttora, fu introdotta dal codice penale del 1889 nell’art. 336.
[21] C. Lombroso, Verzeni e Agnoletti, in Rivista di discipline carcerarie, 1873 (III), fasc. 4-5, p. 199.
[22] P. Penta, I pervertimenti sessuali nell’uomo e Vincenzo Verzeni strangolatore di donne, Napoli, Luigi Pierro, 1893, p. 46.
[23] P. Penta, op. cit., p. 54, il quale conclude le proprie indagini sulla persona di Verzeni affermando che il suo organismo «è mal conformato, lo sviluppo di lui è stato debole, malfermo, deviato e disquilibrato, nei primi anni, da un processo morboso; in una parola, antropologicamente lo strangolatore è uno dei tanti degenerati».
[24] C. Lombroso, Verzeni e Agnoletti, cit., pp. 197 e 199.
[25] C. Lombroso, Verzeni e Agnoletti, cit., p. 204.
[26] P. Penta, op. cit., p. 55.
[27] C. Lombroso, Verzeni e Agnoletti, cit., p. 199.
[28] C. Lombroso, Verzeni e Agnoletti, cit., p. 200.
[29] C. Lombroso, Verzeni e Agnoletti, cit., p. 201.
[30] C. Lombroso, Verzeni e Agnoletti, cit., p. 202.
[31] Si consentito qui un rinvio al mio Il delitto tentato, Milano, Giuffré, 2012, p. 406 ss. Vd. pure V. Accattatis, Introduzione a Ferri, Sociologia criminale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 15, secondo cui in Garofalo «il cinismo e la ferocia sono massimi. (...) La logica della violenza di classe è espressa da Garofalo senza alcun pudore. Si direbbe che già in quell’epoca sono in incubazione fascismo e nazismo».
[32] Per i passi riportati C. Lombroso, Verzeni e Agnoletti, cit., p. 203 s.
[33] C. Lombroso, Verzeni e Agnoletti, cit., p. 204.
[34] L’art. 94 del codice penale sardo-piemontese del 1859 sanciva che «non vi è reato se l’imputato trovavasi in istato di assoluta imbecillità, di pazzia, o di morboso furore quando commise l’azione, ovvero se vi fu tratto da una forza alla quale non poté resistere». L’art. 95 aggiungeva: «Allorché la pazzia, l’imbecillità, il furore o l forza non si riconoscessero a tal grado da rendere imputabile affatto l’azione, i Giudici applicheranno all’imputato, secondo le circostanze dei casi, la pena del carcere estensibile anche ad anni dieci, o quella della custodia estensibile anche ad anni venti».
[35] Anche P. Penta, op. cit., p. 58 s., assume come pacifica la responsabilità del Verzeni e riferisce che «dei delitti poi non serba rimorso affatto, come non n’ebbe, subito dopo consumatili: li accetta quasi una cosa naturale e per le povere vittime nessun rimpianto, nessun sentimento di pietà. Egli stesso confessa i suoi delitti e li racconta come meglio ricorda, con tutti i particolari raccapriccianti che gli sovvengono». L’A. osserva nel Verzeni «una vera e completa apatia morale, una vera anestesia psichica, come direbbero i tedeschi. (...) La custodia lo ritiene un bravo condannato, come in generale sono nei bagni i briganti più efferati, e spesso i delinquenti più odiosi e gravi. Ma gli è per questa apatia che egli non trasgredisce i doveri della disciplina, non per spontanea e libera elezione della sua mente».
[36] L. Sciascia, Dalle parti degli infedeli, Sellerio, Palermo, 1979, p. 29.