A proposito dell'art. 1 del d.d.l. n. S. 808 (Nordio)
Pubblichiamo di seguito il testo scritto predisposto dal Prof. Marco Pelissero per l’audizione alla II Commissione Giustizia del Senato in sede referente, svoltasi il 14 settembre 2023, in relazione al disegno di legge n. 808, recante "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all'ordinamento giudiziario e al codice dell'ordinamento militare", presentato dal Ministro della giustizia Carlo Nordio e dal Ministro della difesa Guido Crosetto.
L’intervento si sofferma, in particolare, sulle parti del disegno di legge che prevedono l’abolizione del delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e la riformulazione del delitto di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.).
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1. Si tratta, ancora una volta, di un intervento miniaturistico su parti specifiche dei delitti contro la pubblica amministrazione che richiederebbero, invece, una riflessione più ampia di insieme al fine di affrontare questioni complesse che interessano il rapporto tra controllo penale, garanzie sostanziali e processuali e spazi riservati alla discrezionalità amministrativa.
Il disegno di legge interviene su due fattispecie che sono già state oggetto di ampi interventi normativi, quando il legislatore ha deciso di riformare i delitti contro la pubblica amministrazione: l’abuso d’ufficio nel 1990, 1997, 2020; il traffico di influenze illecite nel 2012 e 2019.
2. L’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio. – Il disegno di legge prevede l’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.). La scelta presenta diversi profili di criticità, come ho già evidenziato in una mia pubblicazione (in Diritto penale e processo, 2023, n. 5, 613-619).
2.1. Esigenze di tutela e processi di riforma: la progressiva contrazione della condotta penalmente rilevante. – Lo sviluppo delle riforme che hanno interessato il delitto di abuso d’ufficio è stato costantemente condizionato da due finalità: trovare una formulazione, sufficientemente precisa, capace di incriminare la strumentalizzazione dei pubblici poteri per fini estranei al perseguimento delle finalità pubbliche; limitare il sindacato del giudice penale sulle scelte discrezionali della pubblica amministrazione, al fine di evitare indebite ingerenze valutative dell’autorità giudiziaria sulle scelte di merito che devono rimanere di spettanza della pubblica amministrazione. In questo sviluppo è maturata la contrapposizione tra opzioni di politica criminale di contrazione della risposta penale e letture giurisprudenziali di espansione dei margini della fattispecie in funzione della tutela del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione: è accaduto in occasione delle riforme del 1990, del 1997 e del 2020.
Sulla diffidenza del legislatore per la prassi applicativa ha certamente giocato l’uso che le procure hanno fatto di questa fattispecie, avviando indagini per abuso d’ufficio, funzionali, in alcuni casi, a far emergere altri reati che l’abuso d’ufficio indiziava; in altri casi, invece, i capi di imputazione non hanno retto dinanzi all’autorità giudiziaria, con un forte scollamento tra numero di iscrizioni nel registro delle notizie di reato e condanne effettive. È vero che, in molti casi, l’attività di indagine del pubblico ministero era condizionata dalla presentazione da parte dei privati di denunce ad ampio spettro.
Tuttavia, prima di fondare l’abrogazione della fattispecie sulla necessità di rimediare allo scollamento tra procedimenti avviati per abuso d’ufficio e condanne definitive (si vedano gli ampi dati riportati da Garofoli nel testo presentato in audizione sulla proposta di legge Pittalis C-645), credo che si debbano considerare alcuni elementi: il numero di procedimenti è in diminuzione (anche in ragione della scelta di significativa contrazione della fattispecie nel 2020); il basso numero di condanne segnala la funzione di filtro di selettività della magistratura giudicante; possono avere un ulteriore effetto limitativo, anche dei procedimenti penali, due novità della riforma Cartabia, relative alla descrizione della notizia di reato all’atto della sua iscrizione (art. 335 c.p.p.) e alla nuova regola di giudizio per l’archiviazione (art. 408 c.p.p.).
Nelle riforme del 1990, 1997 e 2020 c’è stata una progressiva delimitazione legale della fattispecie, con una contrazione a dire il vero eccessiva con l’ultima novella. A fronte della contrazione legislativa, la giurisprudenza proponeva letture ampliative, ma pur sempre entro i limiti tracciati dal legislatore.
La questione ha principalmente interessato la descrizione della condotta nel testo approvato nel 1997 (“violazione di legge o di regolamento”). Si è giunti ad includere, tra le violazioni di legge, anche l’art. 97 Cost., che impone il rispetto dei principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione: questa lettura ha consentito di far rientrare entro il perimento applicativo dell’abuso d’ufficio anche l’eccesso di potere (Cass., sez. VI, 22871/2019; Cass., sez. VI, 49549/2018). Talvolta la giurisprudenza è giunta allo stesso risultato senza richiamare il generico art. 97 Cost., ma dando rilevanza a gravi forme di sviamento di potere, argomentando che la violazione di legge sussiste tutte le volte in cui l’atto del pubblico ufficiale abbia oggettivamente colliso con lo specifico fine che la legge richiedeva di perseguire (Cass., Sez. un., 155/2012).
Si trattava di letture che conducevano ad ampliare l’ambito di incriminazione rispetto alle intenzioni del legislatore storico, ma non contra legem, in quanto l’art. 323 c.p. si limitava a richiedere la violazione di “legge” senza alcuna specificazione sul contenuto (generico o specifico) della fonte. Sul piano dell’interpretazione sistematica, dunque, l’inclusione dell’eccesso di potere era pienamente argomentabile e conduceva a risultati ragionevoli, in quanto consentiva di evitare l’irragionevolezza che sarebbe derivata dal dare rilevanza alle mere violazioni formali, anche di fonti regolamentari, ed escludere invece dall’art. 323 c.p. le ben più gravi condotte di sviamento del potere dal perseguimento dell’interesse pubblico a cui l’atto avrebbe dovuto essere rivolto e con le quali il pubblico ufficiale avesse intenzionalmente cagionato un danno o procurato un vantaggio patrimoniale a sé o a terzi. La lettura proposta, entro il perimento normativo della fattispecie, consentiva di dare rilevanza a gravi forme di strumentalizzazione affaristica o sopraffattrice di coloro che avrebbero dovuto agire nell’interesse pubblico.
Prosegue nella direzione della contrazione della risposta sanzionatoria la riforma approvata con d.l. n. 76/2020 che, mantenendo inalterate la struttura di reato ad evento ed il dolo intenzionale, è intervenuta su una delle modalità alternative della condotta, sostituendo la violazione di legge o di regolamento con la «violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità» (è rimasta, invece, invariata la modalità riferita alla violazione di un obbligo di astensione in presenza di un conflitto di interessi).
La condotta penalmente rilevante si contrae in relazione a diversi profili: si attribuisce rilevanza solo alle fonti primarie, escludendo i regolamenti; la fonte deve individuare specifiche regole di condotta e non lasciare margini di discrezionalità all’agente pubblico. Si tratta di una contrazione irragionevole: da un lato, l’esclusione dei regolamenti taglia fuori moltissime disposizioni che disciplinano l’attività delle pubbliche amministrazioni, che non sono prevalentemente regolate da fonti primarie; dall’altro lato, si richiede che la violazione di legge si riferisca ad un’attività vincolata che definisca in modo specifico la condotta da tenere, ossia casi che rientrerebbero nell’attività amministrativa vincolata che sono del tutto marginali nell’ambito dell’attività della pubblica amministrazione che è caratterizzata da aree di azione connotate da discrezionalità più o meno ampia. È chiaro l’intento del legislatore: a fronte di una giurisprudenza che disattendeva la volontà del legislatore storico del 1997 di espungere dall’art. 323 c.p. la rilevanza dell’eccesso di potere, la nuova formulazione cerca di ribadire quella volontà attraverso una più puntuale descrizione della condotta. L’art. 97 Cost. o le altre disposizioni innanzi indicate, che richiamano genericamente l’imparzialità di azione dei soggetti rivestiti di funzioni pubbliche, non possono essere utilizzati per interpretare la norma.
L’intento è stato colto anche dalla Corte costituzionale nella sent. 8/2022: «risulta trasparente l’intento di sbarrare la strada alle interpretazioni giurisprudenziali che avevano dilatato la sfera di operatività della norma introdotta dalla legge n. 234 del 1997: la puntualizzazione che l’abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche mira ad impedire che si sussuma nell’ambito della condotta tipica anche l’inosservanza di norme di principio, quale l’art. 97 Cost.; richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge e tali da non lasciare “margini di discrezionalità” si vuol negare rilievo al compimento di atti viziati da eccesso di potere». È chiaro l’obiettivo della riforma che, non a caso, è collocata all’interno di un articolato pacchetto di misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale (in spregio, peraltro, del principio di riserva di codice ex art. 3-bis c.p.): liberare i pubblici amministratori dalla “paura della firma” connessa al rischio di incorrere in un’indagine penale.
La riforma del 2020 non convince, perché intende escludere la rilevanza penale dell’esercizio discrezionale dell’attività amministrativa, ossia la maggior parte dei casi nei quali operano gli amministratori pubblici, anche quando vi sia lo sviamento doloso dei poteri pubblici per il cui tramite il pubblico ufficiale intenzionalmente procuri a sé o ad altri un vantaggio patrimoniale o arrechi ad altri un danno. Diventa irragionevole che la violazione dolosa di regolamenti o lo sviamento di potere con causazione intenzionale di un profitto patrimoniale o di un danno a terzi non siano più penalmente rilevanti.
2.2… e le resistenze della magistratura. – L’intenzione del legislatore andava indubbiamente nella direzione della contrazione della risposta penale (lo ha evidenziato anche la Corte costituzionale nella sentenza innanzi citata).
La giurisprudenza ha parzialmente ricollocato, non senza incertezze, i confini dell’art. 323 c.p., ampliandone lo spazio applicativo rispetto alla interpretatio abrogans a cui potrebbe andare incontro una prima lettura della disposizione. Lo ha fatto attraverso due argomenti che sono, peraltro, in continuità con interpretazioni sviluppate in relazione alla formulazione previgente: il richiamo ai regolamenti in chiave di specificazione della fonte legale; il riferimento alla funzione della norma attributiva del potere.
Quando il significato di una norma di fonte primaria si specifica attraverso una norma di fonte secondaria, la violazione di quest’ultima si traduce nella violazione della stessa fonte primaria (Cass., Sez. VI, 46669/2022). In tal modo, nonostante la scomparsa dei regolamenti dal testo dell’art. 323 c.p., la loro rilevanza ricompare per via del richiamo interposto alla fonte subordinata; non solo, ma possono rilevare anche fonti non regolamentari, purché richiamate dalla fonte primaria (Cass., Sez. VI, 13139/2022; analogamente per la rilevanza assunta dal piano di assetto idrogeologico adottato ai sensi del d. lgs. 152/2006, v. Cass., Sez. VI, 13148/2022). Questa lettura riprende quella già sviluppata dalla giurisprudenza dopo il 1997 per dare rilevanza, nella disciplina urbanistica, alle prescrizioni dei piani regolatori che, avendo natura di atti amministrativi generali e non di regolamenti (fonte allora richiamata dall’art. 323 c.p.), erano state ritenute rilevanti, in quanto si sarebbe configurata una violazione di legge attraverso le disposizioni di legge primaria che impongono l’obbligo di conformarsi alle previsioni degli strumenti urbanistici.
Tuttavia, per evitare un indebito svuotamento del principio di riserva di legge, è necessario che la legge rinvii alla fonte secondaria per la specificazione di elementi tecnici di disciplina (Cass., Sez. VI, 1606/2022). La Corte di cassazione ammette l’integrazione anche quando il rapporto tra norma primaria e norma secondaria riproduce quello di una norma penale in bianco, come in materia di tutela dell’assetto del territorio (come, ad es., nella contravvenzione di cui all’art. 44, comma 1, lett. a, T.u. edilizia): le fonti subprimarie, che ne definiscono le condizioni di sviluppo e che non potrebbero essere fissate con fonte primaria, fungono da parametro interposto della violazione di legge primaria che a queste faccia rinvio. Si tratta, peraltro, di un profilo non così definito nemmeno nelle pronunce della sesta Sezione della Corte di cassazione (in senso contrario, v. Cass., Sez. VI, 21643/2022) e meriterebbe un intervento chiarificatore da parte delle Sezioni unite.
Il secondo argomento fa leva sulla funzione della norma attributiva del potere: se c’è una distorsione funzionale dai fini pubblici, perché risultano perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi o collidenti con quelli per i quali il potere discrezionale è attribuito, c’è una violazione della legge che attribuisce al pubblico agente il relativo potere pubblico (Cass., sez. VI, 442/2021). Così riletta, la violazione di legge consente di dare rilevanza ai casi nei quali al pubblico ufficiale è riservato un potere discrezionale che viene esercitato in modo collidente con le funzioni che per legge si sarebbero dovute perseguire.
Dall’ambito di applicazione dell’art. 323 c.p. rimarrebbero certamente esclusi i casi di mera discrezionalità tecnica che rimane un nucleo valutativo insindacabile da parte del giudice penale.
La giurisprudenza propone, quindi, una lettura di contenimento della risposta penale, ma non in termini così ristretti come parrebbe desumersi da una prima lettura della disposizione. Si tratta di una interpretazione che, a ben considerare, riequilibra la ragionevolezza dell’art. 323 c.p. ed evita di espungere dalla fattispecie i casi di dolosa strumentalizzazione affaristica o sopraffattrice delle funzioni pubbliche.
3. Verso un nuovo intervento di contrazione del controllo penale. – La scelta del disegno di legge n. 808 propone la soluzione drastica dell’abrogazione della fattispecie. Non è un’idea nuova, in quanto aveva incontrato il favore di una parte della dottrina critica sull’incertezza dei confini applicativi dell’abuso d’ufficio. La soluzione abrogativa rischia di non risolvere la complessità dei problemi che sono emersi nell’interpretazione della fattispecie, nelle sue innumerevoli varianti strutturali.
Una scelta meramente abrogativa non convince per tre ragioni.
La prima è costituita dal fatto che l’art. 323 c.p., pur gravato da una clausola di sussidiarietà che ne contrae lo spazio applicativo, è norma che, a partire dal 1990, condivide confini complessi con altre fattispecie, come il peculato, l’omissione di atti d’ufficio, la turbativa d’asta. L’effetto dell’abrogazione dell’art. 323 c.p. potrebbe tradursi, per ragioni di connessione sistematica di questa fattispecie con la rete delle altre disposizioni penali, nel corrispondente ampliamento di altre al fine di soddisfare l’esigenza di reprimere forme di strumentalizzazione profittatrice o prevaricatoria dei pubblici poteri.
Un secondo motivo di perplessità sta nel focus ristretto della soluzione meramente abrogativa: davvero il problema della tutela penale della pubblica amministrazione e dell’intreccio tra controllo penale e controlli amministrativi deve essere assorbito dalla discussione sulla permanenza di una fattispecie che ha comunque, pur nella interpretazione data dalla più recente giurisprudenza, uno spazio applicativo più contenuto? Non si rischia di distogliere l’attenzione da temi ben più complessi che interessano lo statuto penale della pubblica amministrazione? Si pensi alle questioni che solleva la qualificazione pubblicistica dei soggetti attivi, non risolta dalla riforma del 1990, qualifica che definisce l’area di applicazione di quello statuto entro un intreccio sempre più intricato tra sfera pubblica e sfera privata; o si pensi alla progressiva espansione nel contrasto alla corruzione di strumenti di tutela propri della criminalità organizzata; o ancora al tema della disciplina amministrativa delle lobbies sulle quali il legislatore ha sempre mostrato l’assoluta incapacità di decidere; per non parlare degli incerti confini delle fattispecie poste a tutela dei “pubblici incanti” come ancora recita il codice penale del tutto scollato dalla disciplina dei contratti pubblici. Possiamo anche abrogare l’art. 323 c.p., ma solo riflettendo entro un più ampio intervento sull’impianto di tutela penale della pubblica amministrazione e dei suoi rapporti con gli strumenti disciplinari e di responsabilità erariale (che tra l’altro, il d.l. 76/2020 ha limitato alla colpa grave in via temporanea).
C’è, infine, una terza perplessità. Già la riforma del 2020, collegando la riforma dell’abuso d’ufficio alla semplificazione amministrativa, aveva lanciato un messaggio sbagliato, secondo il quale la semplificazione e lo snellimento delle procedure burocratiche, entrambi obiettivi fondamentali nel nostro Paese, vada perseguito anche a costo dell’esercizio dolosamente distorto dei pubblici poteri. C’è, in altri termini, il rischio di un pericoloso scivolamento nella tenuta dell’etica pubblica. Non vorrei che la scelta di abrogare questa fattispecie rappresenti un ulteriore consolidamento di codici comportamentali distonici rispetto ai parametri fissati dall’art. 97 Cost.
4. La riformulazione del traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.). –L’attuale formulazione dell’art. 346-bis c.p. si deve alla legge 3/2019 che ha accorpato in un’unica fattispecie il millantato credito, che la riforma del 2012 aveva mantenuto, ed il traffico di influenze illecite. L’intento di semplificazione del legislatore si è, invece, tradotto in una fattispecie la cui formulazione ha aggravato i profili di indeterminatezza ed incertezza che in parte erano già presenti nella fattispecie introdotta nel 2012. Evidenzio due elementi che interessano ai fini dell’analisi del disegno di legge oggi all’esame della Commissione:
1) la presenza nella fattispecie di elementi ad illiceità speciale che connotano come “indebita” la dazione o promessa di denaro o altra utilità in relazione ad una mediazione qualificata come “illecita”
È un limite della fattispecie presente sin dal 2012 e dipende dalla mancanza di regolazione del c.d. lobbysmo (per sapere se è indebito quanto dato o promesso e se la mediazione è illecita, dovremmo sapere quali sono i limiti di liceità dei rapporti tra portatori di interessi e decisori pubblici).
Proprio per colmare il deficit di determinatezza della disposizione la Corte di cassazione ha delimitato lo spazio applicativo della fattispecie, dando rilevanza alla finalità perseguita attraverso la mediazione: la mediazione è illecita quando è finalizzata alla commissione di un fatto di reato idoneo a produrre vantaggi per il committente (Cass., VI, 1182/2022; Cass., VI, 40518/2021).
2) il riferimento al fatto di “sfruttare o vantare relazioni esistenti o asserite” con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio.
La formulazione si deve alla riforma del 2019 che ha inteso includere i fatti rilevanti come millantato credito nel traffico di influenze illecite, lasciando così incerto il confine con la fattispecie di truffa (alla quale l’originaria formulazione del millantato credito era assimilata in ragione della non punibilità di chi promette o dà l’indebito).
Più in specifico, sulla base del vigente art. 346-bis c.p. si possono profilare diverse tipologie di rapporti tra “venditore/mediatore” e “compratore” dell’influenza:
a) la capacità del mediatore, nel momento della condotta di millanteria, di influenzare effettivamente il pubblico agente e la consapevolezza del compratore di tale capacità;
b) un rapporto che esiste tra mediatore e agente pubblico, ma che il primo fa apparire più intenso di quanto lo sia in concreto;
c) una capacità insussistente al momento della condotta, quando tuttavia il compratore sa che il venditore ha il potere di acquisirla, rendendo effettiva la capacità di influenza;
d) un rapporto con l’agente pubblico che il mediatore sa non essere presente né potenzialmente concretizzabile in futuro, a cui corrisponde un compratore che ritiene, invece, esistente o realizzabile tale rapporto per effetto della condotta artificiosa del mediatore.
Le prime tre situazioni possono essere ricondotte all’art. 346-bis, in quanto, sebbene in termini di forte anticipazione della tutela penale, sussiste una direzione offensiva rispetto ai beni del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione. Nella quarta, invece, si realizza una sorta di traffico di influenze impossibile (putativo) che sarebbe irragionevole ricondurre all’art. 346-bis, in quanto siamo fuori dall’orizzonte di tutela della pubblica amministrazione ed il fatto può integrare gli estremi del delitto di truffa, a condizione che l’utilità presenti contenuto patrimoniale. Dare o promettere un’utilità indebita a fronte di chi millanta artificiosamente capacità di influenze inesistenti non offende, neppure in termini prodromici, il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione.
La giurisprudenza ha cercato di definire il rapporto con il delitto di truffa, al fine di evitare che l’art. 346-bis c.p. finisse per colpire anche le vittime di condotte sostanzialmente truffaldine. Dare o promettere un’utilità indebita a fronte di chi millanta artificiosamente capacità di influenze inesistenti non offende, neppure in termini prodromici, il buon andamento e l’imparzialità della p.a.: «se (…) nella fattispecie di cui all’art. 346 c.p., comma 2, assumeva rilievo l’errore di cui era vittima il “compratore”, ingannato dal “venditore di fumo” attraverso una condotta decettiva volta a far apparire esistente un rapporto con il pubblico agente che non solo non esiste al momento in cui il fumo è venduto, ma che non può esistere nemmeno in futuro e che tuttavia il compratore, per effetto della condotta ingannatoria, crede – errando – possa realizzarsi, non è obiettivamente chiaro perché, in relazione a dette ipotesi, dovrebbe essere predisposta una tutela anticipata per la pubblica amministrazione, atteso che questa rimane del tutto estranea, esterna, in astratto e in concreto, rispetto al pericolo derivante dal rapporto tra committente e mediatore (…). In tale contesto, tuttavia, non è obiettivamente chiaro perché il privato che dà o promette denaro o utilità al “veditore di fumo” solo perché indotto in errore per effetto della condotta ingannatoria di questi, dovrebbe essere considerato compartecipe nello stesso reato e ritenuto responsabile di traffico di influenze illecite» (Cass., VI, 28657/2021).
Ne consegue, pertanto, che queste situazioni non sono inquadrabili nell’art. 346-bis, in quanto, a legislazione vigente, possono rilevare come delitto di truffa, nel quale il compratore di una influenza putativa è soggetto passivo non punibile. Seguendo questa lettura, il riferimento alle relazioni asserite va inteso come diretto ai casi nei quali il soggetto non ha attualmente queste relazioni, ma è per lui possibile instaurarle per assicurare l’intermediazione illecita. Questa interpretazione più restrittiva del delitto di traffico di influenze illecite è emersa in giurisprudenza che ha attribuito alla fattispecie la capacità di dare rilevanza ad una «condotta tesa non a sfruttare una relazione inesistente ma a vantare la concreta possibilità di riuscire ad influenzare l’agente pubblico» (Cass., VI, 5221/2020) .
La proposta di riformulazione dell’art. 346-bis c.p. interviene su diversi fronti.
4.1. Lo sfruttamento intenzionale. – Si tratta di una fattispecie già dolosa e la delimitazione al solo dolo intenzionale appare poco comprensibile: cosa aggiunge l’intenzionalità in una fattispecie già connotata dallo sfruttamento di una relazione esistente per farsi dare o promettere indebitamente un’utilità? Il dolo intenzionale, che peraltro nella parte speciale ha un uso limitato anche per la difficoltà di accertamento, si giustifica maggiormente quando è collegato all’evento del reato (come nella vigente formulazione dell’art. 323 c.p.). Non credo, pertanto, che l’intenzionalità aggiunga elementi effettivi di contrazione della fattispecie.
4.2. L’utilità solo economica. – Questo elemento contrae indubbiamente la fattispecie, escludendo le utilità non di tipo economico (v. commi 1 e 3). Si torna così alla scelta che fece la riforma del 2012. Non è chiara la ragione di questa proposta di modifica, considerato che l’art. 346-bis c.p. funge da strumento di anticipazione della tutela rispetto ai reati di corruzione, nei quali è costante la lettura in termini ampi della nozione di utilità (non a caso inclusiva anche di favori sessuali). Credo che nell’ambito delle disposizioni penali che incriminano fatti di transazione illecita (corruzione, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, traffico di influenze illecite) debba essere omogenea la nozione di utilità che affianca sempre il “denaro”.
4.3. La mediazione gratuita. – Permane, anche nella proposta, la rilevanza delle due forme di mediazione, gratuita e onerosa, già presenti nel millantato credito. Da un punto di vista formale, rispetto alla disciplina vigente, il testo presenta la loro inversione, che non cambia, tuttavia, la rilevanza delle due tipologie di mediazione.
Il fine della mediazione gratuita rimane invariato rispetto al testo vigente, essendo sempre rivolto a “remunerare un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli atri soggetti di cui all’art. 322-bis, in relazione all’esercizio delle sue funzioni”. Scompare, tuttavia, il riferimento ai “poteri” che ora sono indicati accanto alle funzioni: non si comprende la ragione della proposta, considerato che il richiamo all’esercizio delle funzioni o dei poteri si spiega con i soggetti a cui la remunerazione è rivolta non solo a pubblici ufficiali, che esercitano funzioni, ma anche agli incaricati di un pubblico servizio che non esercitano funzioni, ma posseggono poteri. Sarebbe preferibile tornare alla formulazione previgente, anche se sul piano interpretativo si giungerebbe alla stessa conclusione.
4.4. La mediazione onerosa. – Più significativa è la riforma della mediazione onerosa, perché la nuova formulazione supera l’indeterminatezza della vigente, incentrata sulla “mediazione illecita”. In assenza di una regolamentazione delle attività di lobby, che consentirebbe di definire i limiti di liceità della mediazione, la proposta introduce la definizione di mediazione illecita, ossia quella finalizzata a «indurre il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’art. 322-bis a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito». In questo modo la fattispecie recepisce l’interpretazione che la Corte di cassazione, proprio a causa dell’assenza di disciplina del lobbysmo, dà di mediazione illecita che è tale «se è rivolta alla commissione di un illecito penale – di un reato – idoneo a produrre vantaggi al committente» (Cass., VI, 1182/2022).
In tal modo il delitto di traffico di influenze illecite diventa fattispecie a tutela anticipata rispetto ai delitti di corruzione, nella mediazione gratuita, e di altre fattispecie di reato, nella mediazione onerosa, purché integrate dal compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio (reati, dunque, espressivi delle funzioni esercitate) e produttive della possibilità di acquisire un vantaggio indebito.
Il disegno di legge, che riporta la nozione di mediazione illecita entro i confini del rispetto del principio di determinatezza in coerenza con la lettura avanzata dalla Corte di cassazione, costituisce pur sempre una scelta di ripiego rispetto all’approvazione della disciplina extrapenale dell’attività di lobby.
Si suggerisce, tuttavia, l’opportunità di eliminare comunque la qualificazione di “indebito” attribuita al vantaggio, perché appesantisce inutilmente la fattispecie di un ulteriore elemento ad illiceità speciale: la norma, infatti, già chiarisce che il soggetto deve farsi dare o promettere “indebitamente” denaro o altra utilità economica; inoltre, considerato che la mediazione è stata circoscritta a quella finalizzata a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato, il vantaggio che da questo potrebbe derivare non potrebbe che essere “indebito”.
4.5. Circostanze. – Non si hanno rilievi in ordine alla circostanza aggravante (comma 4).
La soppressione del vigente quarto comma, che prevede la circostanza attenuante dei «fatti di particolare tenuità» è compensata dalla più razionale menzione dell’art. 346-bis nell’art. 323-bis.
5. La compatibilità del disegno di legge con la proposta di direttiva sulla lotta alla corruzione del Parlamento europeo e del Consiglio (3 maggio 2023). – In relazione ad entrambe le fattispecie, il disegno di legge si allontana dagli standard di armonizzazione di cui alla proposta di direttiva sulla lotta alla corruzione presentata dal parlamento europeo e dalla Commissione nel 2023.
Quanto all’abuso d’ufficio, il testo del disegno di legge è distonico rispetto alla proposta di direttiva che chiede agli Stati di rendere punibile l’abuso d’ufficio (art. 11): anzi, se il testo definitivo della direttiva dovesse rimanere quello presentato, ci sarebbero problemi di compatibilità rispetto alla versione da ultimo approvata nel 2020 (è abuso d’ufficio, se intenzionale, l’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione delle leggi, da parte di un funzionario pubblico nell’esercizio delle sue funzioni al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo).
Quanto al traffico di influenze illecite, segnalo che il disegno di legge non soddisfa l’ampia formulazione dell’art. 10 della proposta di direttiva che: a) attribuisce rilievo, in modo espresso, alla corresponsione, promessa, offerta, concessione di un “vantaggio di qualsiasi natura”; b) attribuisce rilevanza alle influenze “reali” o “presunte”; c) individua l’obiettivo finale della remunerazione nell’ottenimento di «un indebito vantaggio da un funzionario pubblico”.
La XIV Commissione (Politiche UE) ha espresso valutazioni critiche in sede di esame di sussidiarietà sulla proposta di direttiva in relazione al mancato rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità. In effetti, si tratta di ampliamento significativo dell’area di incriminazione rispetto ai delitti di abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite, che presentano peraltro tecniche diverse di formulazione nei diversi ordinamenti.
Ritengo tuttavia che, non essendovi alcuna urgenza di provvedere in relazione a questi due reati, tra l’altro al di fuori di un generale disegno di revisione dei delitti contro la pubblica amministrazione e di regolamentazione delle attività di lobby, sarebbe opportuno attendere l’approvazione del testo definitivo della direttiva che, se rimanesse quello della proposta ed il disegno di legge fosse approvato dal Parlamento, imporrebbe nuovamente un intervento correttivo in relazione a fattispecie particolarmente attenzionate dalle Istituzioni europee nelle politiche, nazionali e sovranazionali, di contrasto alla corruzione: la scelta di contrazione del controllo penale in questo settore, durante l’iter di approvazione della direttiva, trasmetterebbe un messaggio, preoccupante, di abbassamento della guardia sul fronte della repressione.