Trib. Milano, Sez. riesame, ord. 2 novembre 2020, Pres. Rizzardi, est. Alonge
1. Con la sentenza n. 51 del 2020[1], le Sezioni unite della Corte di cassazione avevano tracciato i confini del divieto (temperato) di utilizzare i risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali gli stessi sono stati ottenuti, divieto fissato dall’art. 270 c.p.p.[2]. In particolare, si era affermato che tale disposizione non opera in relazione a reati connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli per i quali le intercettazioni sono state autorizzate, dal momento che in tali ipotesi non si avrebbe a che fare con un “diverso procedimento”, e dunque si sarebbe al di fuori dell’ambito di applicazione del divieto. Tuttavia – e si tratta di un passaggio particolarmente rilevante in questa sede –, il massimo organo nomofilattico aveva altresì precisato che l’utilizzabilità delle intercettazioni per l’accertamento di reati connessi a quelli per i quali esse sono state disposte è ammessa solo allorquando anche tali reati rientrino, a loro volta, fra quelli elencati dall’art. 266, co. I, c.p.p., cioè fra quelli per i quali si consente il ricorso al più insidioso tra i mezzi di ricerca della prova.
All’indomani del deposito della motivazione della sentenza, un Autore, proprio sulle pagine di questa Rivista, aveva subito osservato che la soluzione raggiunta dai giudici di legittimità – pur ritenuta apprezzabile – avrebbe probabilmente fatto discutere gli interpreti[3]. In effetti, la previsione pare proprio aver colto nel segno: a meno di un anno, nella giurisprudenza di merito si registrano le prime prese di distanza dal principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Cavallo”[4]. È a questo proposito che merita di essere segnalata l’ordinanza in epigrafe, emessa dal tribunale di Milano all’esito di un procedimento ex art. 310 c.p.p. promosso dal p.m. avverso un’ordinanza cautelare del g.i.p. presso lo stesso tribunale. Tirando le fila di una motivazione articolata, i giudici milanesi ritengono di non poter aderire al principio di diritto formulato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione[5] nella parte in cui afferma che, quando ci si trova all’interno di un medesimo procedimento – e cioè, nell’ottica delle Sezioni unite, in presenza di reati tra loro connessi ex art. 12 c.p.p. –, le intercettazioni siano utilizzabili solo per l’accertamento dei reati rientranti nell’elenco di cui all’art. 266, co. I, c.p.p.
2. Prima di soffermarci sugli snodi argomentativi dell’ordinanza, sembra opportuno ripercorrere brevemente la vicenda procedimentale.
Le indagini preliminari prendevano l’abbrivio dalla segnalazione, da parte di due dipendenti, di alcune anomalie verificatesi nell’ufficio provinciale milanese dell’Agenzia delle Entrate, consistenti nel mancato pagamento di talune visure richieste da privati. L’attività investigativa era stata così indirizzata nei confronti di alcuni pubblici ufficiali indiziati di corruzione (artt. 319 e 321 c.p.) e si era sviluppata attraverso intercettazioni sia telefoniche, sia “ambientali”. Tramite questo mezzo di ricerca della prova era emersa «un’ampia e diffusa illegalità operativa all’interno degli uffici» e «uno stabile asservimento di pubblici ufficiali alle richieste dei privati c.d. visuristi»[6]. In particolare, le intercettazioni avevano svelato che, in diverse occasioni, i pubblici ufficiali sottoposti ad indagini avevano consegnato a privati copie di atti e di certificati in violazione delle procedure previste dalla legge, e precisamente senza che venissero versate le relative tasse ipotecarie. Tuttavia, solo per alcuni di questi episodi era emersa l’«evidenza del pagamento di corrispettivi in contropartita delle violazioni delle regole di buon andamento della pubblica amministrazione», mentre per altri difettava «la prova diretta della retribuzione o della sua promessa»[7]. A fronte di queste differenti emergenze, il p.m. aveva deciso di contestare il delitto di corruzione (artt. 319 e 321 c.p.) in relazione alle prime fattispecie e il delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) rispetto alle seconde, chiedendo al g.i.p. l’applicazione di misure cautelari per tutti i reati. Nel condividere la contestazione operata dal p.m., il g.i.p. accoglieva la richiesta di applicazione di misure cautelari solo in parte, e segnatamente solo in relazione alle fattispecie corruttive. A tale conclusione il g.i.p. milanese era giunto facendo applicazione proprio del principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Cavallo”, sopra richiamate: trattandosi di un delitto non compreso fra quelli per cui l’art. 266 c.p.p. consente le intercettazioni, i risultati ottenuti non potevano essere utilizzati per disporre una misura cautelare in relazione agli episodi di abuso d’ufficio, ancorché questi fossero connessi a quelli di corruzione.
Criticando tale conclusione, il p.m. proponeva appello contro l’ordinanza del g.i.p., chiedendo, tra le altre cose, che venisse applicata una misura cautelare anche nei confronti di G. F., pubblico ufficiale cui erano addebitati unicamente fatti di abuso d’ufficio.
3. Pur rigettando l’appello proposto dal p.m., per via della ritenuta assenza di esigenze cautelari, il tribunale di Milano si è discostato dall’impostazione seguita dal g.i.p. in punto di utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in relazione al delitto di abuso d’ufficio.
Per prima cosa, i giudici chiariscono che le fattispecie di abuso di ufficio portate alla loro attenzione appartengono al medesimo procedimento avente ad oggetto gli episodi di corruzione e che pertanto, non trattandosi di un “diverso procedimento”, non si ricade nel perimetro del divieto di cui all’art. 270 c.p.p. A tale preliminare punto fermo il tribunale approda facendo applicazione proprio della prima parte del principio di diritto affermato dalle Sezioni unite con la sentenza n. 51 del 2020: le condotte qualificate come abuso d’ufficio, infatti, risultavano connesse ex art. 12 c.p.p. ai fatti di corruzione[8].
A questo punto, i giudici si confrontano con l’altro approdo raggiunto dal massimo organo nomofilattico nella sentenza citata, su cui si è già avuto modo di richiamare l’attenzione (cfr. supra, §1). Invero – pare utile sottolinearlo nuovamente –, nell’ottica delle Sezioni unite “Cavallo”, affermare di essere in presenza di un “medesimo procedimento” non comporta, di per sé, l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per l’accertamento di ogni reato sub judice. Piuttosto, a tal fine è necessario che anche i reati connessi a quelli per cui sono state autorizzate le intercettazioni rientrino, a loro volta, fra quelli elencati all’art. 266 c.p.p. Tuttavia, come si è già anticipato, quest’ulteriore limite elaborato dai giudici di legittimità non convince il tribunale di Milano.
4. Gli argomenti spesi nell’ordinanza per prendere le distanze dall’approdo delle Sezioni unite sono essenzialmente quattro.
Anzitutto, si rileva che la Cassazione avrebbe affermato l’esistenza di questo limite senza però confrontarsi «con il consolidato orientamento che […] riconosce l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni disposte nello stesso procedimento anche in relazione a reati che non erano oggetto di autorizzazione e per i quali le operazioni di intercettazione non sarebbero state ammissibili in difetto dei presupposti di cui all’art. 266 c.p.p.»[9]. In altre parole, le Sezioni unite, nel comporre un contrasto che concerneva specificamente la nozione di “medesimo procedimento”, avrebbero compiuto un passo ulteriore – cioè quello di richiedere che ogni reato in connessione rispetti i limiti di ammissibilità delle intercettazioni – senza tuttavia tenere conto di un’elaborazione giurisprudenziale di segno contrario ampiamente condivisa.
In secondo luogo, per i giudici milanesi «lo sbarramento individuato dalla Suprema Corte» si porrebbe «in contrasto con le stesse premesse da cui la Corte muove per delineare i limiti di operatività del disposto di cui all’art. 270 c.p.p.»[10]. Poiché, come affermano le Sezioni unite, la connessione tra i reati «esclude a monte il pericolo di “autorizzazione in bianco”», e dunque il rischio di una «violazione dei principi costituzionali in tema di libertà e segretezza delle comunicazioni»[11], allora non vi sarebbe ragione per apporre un ulteriore limite all’utilizzabilità delle intercettazioni. D’altra parte, trattandosi di captazioni legittimamente autorizzate – e non di intercettazioni ab origine autorizzate per un reato per le quali non sarebbero ammesse –, non si ricadrebbe in alcuna ipotesi di inutilizzabilità patologica, e anzi dovrebbe trovare applicazione il diverso principio di «naturale utilizzabilità del risultato di una legittima attività d’indagine»[12].
Come terzo argomento contro la soluzione delle Sezioni unite, vengono richiamati due diversi
principi costituzionali: da un lato, il «principio di non dispersione degli elementi di prova»[13]; dall’altro lato, il principio di uguaglianza, posto che, differenziando il regime di utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni all’interno dello stesso procedimento, si verrebbe a creare una disparità di trattamento tra i diversi indagati, senza peraltro che ciò sia giustificato da una previsione di legge.
Infine, per corroborare la propria posizione, il tribunale di Milano fa leva su una recente novità normativa in materia di intercettazioni. Successivamente all’intervento nomofilattico delle Sezioni unite, il legislatore ha infatti messo mano proprio al divieto di cui all’art. 270 c.p.p., restringendone la portata[14]. In particolare, la disposizione da ultimo richiamata, nella sua nuova formulazione, prevede che i risultati delle intercettazioni possano essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati ottenuti non solo quando siano indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, ma anche quando si tratti di dover accertare i reati di cui all’articolo 266, co. I, c.p.p. La novella, secondo i giudici, avallerebbe «le perplessità […] in relazione al doppio sbarramento stabilito dalla Suprema Corte per l’utilizzo delle intercettazioni nell’ambito del medesimo procedimento»[15], in quanto il legislatore si è addirittura «orientato nel senso di un ampliamento della possibilità di utilizzare le intercettazioni» in “procedimenti diversi”, ove si prescinde «dalla sussistenza di un legame come la connessione ex art. 12 c.p.p.»[16]. Al riguardo, vengono richiamate le considerazioni di chi ha osservato che applicare il principio affermato dalle Sezioni unite a fronte di queste coordinate normative «significherebbe riconoscere in modo del tutto illogico un ambito di utilizzabilità delle registrazioni per la prova di reati avulsi da quello vagliato nel provvedimento autorizzativo ex art. 267 c.p.p. (ovvero in “diverso procedimento”) più ampio rispetto a quello riconosciuto in caso di reati strettamente connessi ex art. 12 a quello oggetto di captazione»[17].
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5. Gli snodi motivazionali appena ripercorsi non possono non catturare l’attenzione degli operatori del diritto, non solo per l’estrema attualità della questione affrontata, ma anche perché l’incedere argomentativo dei giudici milanesi sembra destinato a riaprire un dibattito giurisprudenziale su cui solo pochi mesi fa sono intervenute le Sezioni unite. Dato l’interesse che il tema suscita si tenterà allora di proporre qualche considerazione a prima lettura.
6. Per prima cosa, pare opportuno fare chiarezza sugli esatti contorni della questione giuridica affrontata. In particolare, si deve sottolineare come il tribunale si sia interrogato sull’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni disposte per un certo reato ai fini dell’accertamento di un reato ulteriore, diverso da quello per cui le intercettazioni sono state autorizzate. Il caso è invero assai limitrofo a quello concernente l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni autorizzate per un certo fatto a fronte di una successiva diversa qualificazione giuridica dello stesso, fattispecie di cui le Sezioni unite “Cavallo” non si sono espressamente occupate[18]. Sebbene in alcuni punti dell’ordinanza si alluda alla medesimezza tra i fatti storici per cui sono state richieste le intercettazioni e quelli poi addebitati – con un diverso nomen juris – in sede di richiesta di applicazione di una misura cautelare[19], da una lettura complessiva si può invece ricavare che i giudici abbiano ritenuto di essere di fronte a fatti di reato diversi, sia pure connessi a quelli per i quali era stata autorizzata la captazione di comunicazioni e poi effettivamente emersi. La vicenda, ad ogni modo, ben dimostra come le due diverse fattispecie – riqualificazione giuridica del fatto storico originariamente ipotizzato ed emersione di un fatto diverso connesso al primo – non paiono, in concreto, sempre nitidamente distinguibili, forse per via della fisiologica fluidità degli addebiti formulati all’inizio delle indagini preliminari[20].
Così definita la questione giuridica portata alla loro attenzione, i giudici milanesi si sono dunque confrontati con l’approdo che, proprio su di essa, è stato recentemente raggiunto dalle Sezioni unite “Cavallo”.
7. Come si è visto, nel richiamare il principio di diritto affermato dal massimo organo nomofilattico, il tribunale in parte ne ha fatto applicazione, in parte ne ha preso le distanze. Ne ha fatto applicazione per quanto concerne la definizione della nozione di “medesimo procedimento”, al fine di affermare che i reati portati alla sua attenzione, in quanto connessi ex art. 12 c.p.p., non potevano dirsi afferenti a “procedimenti diversi”, con conseguente inapplicabilità del divieto di cui all’art. 270 c.p.p. Ne ha invece preso le distanze dalla parte in cui, ai fini dell’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni all’interno di un medesimo procedimento, richiede che tutti i reati connessi rispettino i limiti di applicabilità di cui all’art. 266 c.p.p.
Si è già segnalato che, come primo argomento, i giudici milanesi esternano una certa insoddisfazione per l’apparato argomentativo con cui le Sezioni unite hanno affermato l’esistenza di questo limite: la Cassazione, infatti, non si sarebbe confrontata con un consolidato orientamento giurisprudenziale di segno contrario. Addirittura, secondo il p.m. appellante, gli ermellini avrebbero accolto questo limite in un mero obiter dictum[21].
Questa prima considerazione non sembra del tutto condivisibile. Al contrario, diversi sono gli elementi che potrebbero far ravvisare, nella presa di posizione dei giudici di legittimità, una scelta consapevole e ponderata. Anzitutto, si deve osservare che il limite della riconducibilità di tutti i reati connessi a quelli di cui all’art. 266 c.p.p. è stato accolto nello stesso principio di diritto affermato[22]. In secondo luogo, non deve sfuggire che a tale aspetto è stato dedicato un ampio paragrafo del “considerato in diritto”, il quale peraltro si apre con la considerazione che questo problema «contribui[va] a definire la stessa portata della questione controversa rimessa alla cognizione delle Sezioni unite»[23]. Ancora, non si può trascurare che, nell’esaminare tale specifica questione, i giudici di legittimità hanno fatto leva proprio sui principi cardine della materia, e segnatamente sulla riserva di legge prevista dall’art. 15 della Costituzione[24]. Infine, non può neppure dirsi che le Sezioni unite non abbiano preso in considerazione l’orientamento giurisprudenziale di segno opposto. Invero, nel ricostruire i primi due diversi orientamenti giurisprudenziali sorti in relazione alla nozione di “procedimento diverso”, i giudici di legittimità avevano dato conto del fatto che, all’interno di ciascuno di essi, si registrava una divaricazione tra le pronunce che affermavano e quelle che invece negavano che ogni reato riconducibile a un medesimo procedimento dovesse rientrare tra quelli di cui all’art. 266 c.p.p., richiamando i precedenti nell’uno e nell’altro senso[25]. In definitiva, ad avviso di chi scrive sarebbe riduttivo ritenere che i giudici milanesi stiano invitando la giurisprudenza di legittimità ad approfondire un aspetto soltanto velocemente lambito dalle Sezioni unite “Cavallo”; piuttosto, ciò che si propone sembra un vero e proprio superamento del principio di diritto da esse affermato.
8. A ben vedere, non mancherebbero le ragioni per tornare sulla soluzione raggiunta dai giudici di legittimità, domandandosi se essa possa oggi dirsi coerente con l’attuale quadro normativo. Tra gli argomenti spesi nell’ordinanza, ad avviso di chi scrive ve ne è uno particolarmente suggestivo, e cioè l’ultimo, che fa leva sulla recente riformulazione dell’art. 270 c.p.p.
Come si è visto, il legislatore ha da poco ampliato le eccezioni al divieto di utilizzare i risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli in cui le stesse sono state autorizzate. Se prima veniva in rilievo solo il caso in cui essi fossero «indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza», oggi è altresì contemplata l’ipotesi in cui si debba accertare uno qualsiasi dei delitti di cui all’art. 266 c.p.p. Sicché, l’attuale disciplina può così essere sintetizzata: i) l’art. 270 c.p.p. pone il divieto di utilizzare i risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali le stesse sono state disposte; ii) a questo divieto è stata recentemente apposta un’eccezione assai ampia, concernente i casi in cui si debba accertare uno dei reati di cui all’art. 266 c.p.p.; iii) dall’ambito applicativo del divieto si ricava, a contrario, che nel nostro ordinamento vige la regola secondo cui i risultati delle intercettazioni possono essere liberamente utilizzati all’interno del medesimo procedimento in cui sono stati ottenuti; iv) per le Sezioni unite, però, anche quando ci si trovi all’interno del medesimo procedimento è necessario che i reati da accertare rientrino tra quelli di cui all’art. 266 c.p.p. A fronte di queste coordinate, non si può biasimare il tribunale di Milano laddove afferma che, continuando a rifarsi all’approdo ermeneutico proposto dalle Sezioni unite, si perverrebbe a una soluzione irragionevole. In primo luogo, si darebbe vita a una sorta di interpretatio abrogans del divieto posto dall’art. 270 c.p.p.: poiché la portata della regola di piena utilizzabilità dei risultati all’interno del medesimo procedimento avrebbe la medesima estensione dell’eccezione posta al divieto utilizzazione in procedimenti diversi, quest’ultimo risulterebbe, in ultima analisi, privo di portata precettiva. In secondo luogo, si arriverebbe sostanzialmente ad affermare che, in punto di utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, vige la medesima disciplina sia per i reati rientranti nel medesimo procedimento[26], sia per i reati afferenti a diversi procedimenti, con una equiparazione di situazioni tra loro differenti. Rebus sic stantibus, allora, pare del tutto comprensibile lo scetticismo sulla coerenza della soluzione raggiunta dalle Sezioni unite con il rinnovato quadro normativo[27].
9. La considerazione appena svolta, si badi, mira semplicemente a far notare come, nonostante il recente intervento delle Sezioni unite – che si erano sforzate di raggiungere una soluzione il più possibile rispettosa del principio di legalità imposto dalla Costituzione[28] – sia del tutto comprensibile che fra gli interpreti si registri un certo disorientamento, a fronte della riformulazione dell’art. 270 c.p.p. Ciò non significa, però, che il nuovo dato normativo non sia in sé criticabile. Anzi, sia consentito brevemente osservare che, a sommesso avviso di chi scrive, la disposizione riformata presta il fianco a seri dubbi di legittimità costituzionale. Non si deve infatti dimenticare che, ponendo un divieto e individuando le eccezioni, l’art. 270 c.p.p. dovrebbe raggiungere un equilibrio tra due principi, entrambi di rango costituzionale, tra loro confliggenti: la libertà e segretezza delle comunicazioni, da un lato; l’esigenza di repressione dei reati, dall’altro. Come è stato chiaramente affermato dalla Corte costituzionale, «l’utilizzazione come prova in altro procedimento trasformerebbe l’intervento del giudice richiesto dall’art. 15 della Costituzione in un’inammissibile “autorizzazione in bianco”, con conseguente lesione della “sfera privata” legata alla garanzia della libertà di comunicazione e al connesso diritto di riservatezza»[29]. Muovendo da questo solido punto fermo, lo stesso giudice delle leggi ha affermato che ogni eccezione al divieto di utilizzazione in altro procedimento deve risultare «diretta al soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante» e «circoscritta alle operazioni strettamente necessarie alla tutela di quell’interesse»[30]. Tale vaglio è stato in passato superato dalla deroga che riguarda i delitti per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza, venendo in gioco l’«interesse dell’accertamento dei reati di maggiore gravità» e trattandosi di reati «presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale»[31]. Stando così le cose, difficilmente si potrebbe oggi riproporre la medesima giustificazione per l’eccezione che abbraccia tutti i reati di cui all’art. 266 c.p.p. Del resto, non sempre il legislatore seleziona i reati per cui sono ammesse le intercettazioni sulla base della gravità; talora «si ammettono intercettazioni per reati meno gravi […] che si consumano con attività in relazione alle quali l’intercettazione si rivela uno strumento di indagine particolarmente utile, come la minaccia»[32]. Il nuovo art. 270 c.p.p. pare allora aver travalicato i limiti entro i quali l’ordinamento è disposto a tollerare compressioni alla libertà e segretezza delle comunicazioni da parte di “autorizzazioni in bianco”. Il ventaglio dei reati per i quali i risultati delle intercettazioni possono essere utilizzati senza una previa autorizzazione a monte ha oggi la medesima ampiezza di quello dei reati per il quale il giudice potrebbe autorizzare l’intercettazione. In questo modo, però, si è giunti a rendere simmetriche due classi di fattispecie che invece, come riconosciuto in passato dalla stessa Corte costituzionale, sarebbero tra loro «diverse ed eterogenee»[33].
[1] Cass. pen., Sez. un., 28 novembre 2019 (dep. 2 gennaio 2020), n. 51, pubblicata in questa Rivista con nota di G. Illuminati, Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi: le Sezioni unite ristabiliscono la legalità costituzionale, in questa Rivista, 30 gennaio 2020.
[2] Come sottolinea N. Galantini, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Cedam, Padova, 1992, p. 466, si tratta di un divieto probatorio che mira a neutralizzare l’«inopportuna autorità probatoria di un atto […] validamente eseguito».
[3] Cfr. G. Illuminati, Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi…, cit., §3.
[4] Per comodità del lettore si riporta il principio di diritto formulato nella citata sentenza delle Sezioni unite: «il divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate le intercettazioni – salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza – non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 cod. proc. pen. a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge».
[5] Cfr. p. 10 dell’ordinanza.
[6] Per questa e la precedente citazione cfr. p. 2 dell’ordinanza.
[7] Per questa e la precedente citazione cfr. p. 2 dell’ordinanza.
[8] Rispetto ai reati contestati a F. G. nel capo 2 e nel capo 4 i giudici parrebbero evocare la connessione c.d. teleologica ex art. 12, lett. c) c.p.p., in quanto si tratterebbe di condotte «strettamente strumentali» a quelle di corruzione realizzate dall’indagata T. B. (cfr. p. 6 dell’ordinanza). Al riguardo, si potrebbe osservare che la “sostanziale coincidenza” tra i reati contestati ai due indagati – di cui si dà esplicitamente conto a p. 6 dell’ordinanza – avrebbe potuto indurre i giudici a qualificare la condotta di F. G. in termini di concorso materiale ex art. 110 c.p. nel delitto di corruzione, ciò che avrebbe allontanato qualsiasi dubbio sull’utilizzabilità delle intercettazioni anche nei suoi confronti. Per quanto riguarda invece il capo 8, che vede contestato il delitto di abuso d’ufficio sia a T. B., sia a F. G., il tribunale richiama la connessione ex art. 12, lett. b), c.p.p. sub specie di reato continuato (cfr. p. 6 e p. 10 dell’ordinanza).
[9] Cfr. p. 7 dell’ordinanza.
[10] Per questa e la precedente citazione cfr. p. 8 dell’ordinanza.
[11] Per questa e la precedente citazione cfr. p. 8 dell’ordinanza. Cfr. anche p. 7 ove, nel proporre il medesimo argomento, vengono richiamate le riflessioni di F. Vanorio, Il permanente problema dell’utilizzo delle intercettazioni per reati diversi tra l’intervento delle Sezioni unite e la riforma del 2020, in questa Rivista, 6/2020, p. 180 ss.
[12] Cfr. p. 8 dell’ordinanza. Sul punto viene citato A. Innocenti, Le Sezioni unite limitano l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per la prova di reati diversi da quelli per cui sono state ab origine disposte, in Dir. pen. proc. 2020, VII, p. 993 ss.
[13] Cfr. p. 8 dell’ordinanza.
[14] Ci si riferisce al d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, convertito con modificazioni dalla l. 28 febbraio 2020, n. 7.
[15] Cfr. p. 8 dell’ordinanza.
[16] Per questa e la precedente citazione cfr. pp. 8 e 9 dell’ordinanza.
[17] Cfr. p. 9 dell’ordinanza, che sul punto cita A. Innocenti, Le Sezioni unite limitano…, cit.
[18] Cfr. Cass. pen., Sez. un., 28 novembre 2019 (dep. 2 gennaio 2020), n. 51, §11, ove si può leggere che la questione affrontata concerne l’esistenza di «due fatti-reato […] storicamente differenti». Del resto, anche nel principio di diritto, già richiamato supra, nota 4, si fa espresso riferimento all’alterità tra il reato per cui le intercettazioni sono state autorizzate e quello, a esso connesso, per il cui accertamento si intende utilizzare i risultati.
[19] Cfr. p. 5 dell’ordinanza, ove si afferma che «[n]ella vicenda in esame, i fatti storici sottoposti al GIP in sede di richiesta di autorizzazione delle operazioni di intercettazioni erano in sostanza gli stessi poi confluiti nelle incolpazioni provvisorie, alcune delle quali erano state ex post qualificate dal P.M. – rispetto all’iniziale più grave ipotesi di corruzione – come fattispecie di abuso d’ufficio (contenuta in ognuna delle corruzioni contestate, ma assorbita nel loro maggior disvalore, come del resto recita la clausola di riserva dell’art. 323 c.p.)».
[20] Sul punto si rinvia alle attente considerazioni di N. Galantini, L’inutilizzabilità dei risultati, in Aa. Vv., L’intercettazione di comunicazioni, T. Bene (a cura di), Cacucci Editore, Bari, 2018, pp. 228-229, la quale osserva che in giurisprudenza «è avvertibile la tendenza a mantenere validità ai risultati in caso di modifica del reato e anche in relazione a nuovi reati non ammissibili, dovendosi ritenere che sia la sola assenza del presupposto originario a generare la sanzione, mentre la mancanza sopravvenuta dovrebbe escludere una valutazione ex post anche alla luce della possibile modificazione di qualificazione giuridica del fatto che può avvenire nel percorso procedimentale e processuale. Dalla motivazione del provvedimento autorizzativo dovrebbe tuttavia potersi comprendere se la non corrispondenza del reato sia effettivamente dovuta ad un mero cambiamento di nomen iuris ovvero ad una diversa configurazione del fatto che già originariamente poteva essere individuato, con conseguente operare della sanzione perché l’atto è stato ammesso ed eseguito fuori dei casi consentiti».
[21] Cfr. p. 4 dell’ordinanza.
[22] Cfr. supra, nota 4.
[23] Cfr. Cass. pen., Sez. un., 28 novembre 2019 (dep. 2 gennaio 2020), n. 51, §8.
[24] Cfr. Cass. pen., Sez. un., 28 novembre 2019 (dep. 2 gennaio 2020), n. 51, §8: «[…] la previsione di limiti di ammissibilità delle intercettazioni (delineati in particolare per le intercettazioni “ordinarie” dall’art. 266 cod. proc. pen. attraverso il riferimento alla comminatoria edittale del reato e/o l’indicazione di tipologie generali o specifiche di fattispecie incriminatrici in relazione alle quali viene chiesta l’autorizzazione) è espressione diretta e indefettibile della riserva assoluta di legge ex art. 15 Cost., che governa la materia delle intercettazioni, e dell’istanza di rigorosa – e inderogabile – tassatività che da essa discende […], riconnettendosi alla natura indubbiamente eccezionale dei limiti apponibili a un diritto personale di carattere inviolabile, quale la libertà e la segretezza delle comunicazioni (art. 15 della Costituzione)».
[25] Cfr. Cass. pen., Sez. un., 28 novembre 2019 (dep. 2 gennaio 2020), n. 51, §3.2 e §4.1 del “considerato in diritto”, ove vengono richiamate diverse pronunce della Corte di cassazione.
[26] Questo ragionamento non può che assumere, quale premessa, la definizione di “medesimo procedimento” recentemente fornita dalle Sezioni unite, non essendo questa la sede per interrogarsi sulla correttezza di tale approdo. Vale però la pena ricordare che, da tempo, parte della dottrina propende per una diversa accezione di “diverso procedimento”, tendente in ogni caso a escludere (salvo le eccezioni di cui all’art. 270 c.p.p.) che i risultati delle intercettazioni possano essere utilizzati per accertare reati diversi da quelli per cui le stesse sono state autorizzate. In questo senso cfr., ad esempio, le riflessioni di F. Ruggieri, Divieti probatori e inutilizzabilità nella disciplina delle intercettazioni telefoniche, Giuffrè, Milano, 2001, p. 108, secondo cui un procedimento deve intendersi diverso ogni qualvolta riguardi un reato per cui le intercettazioni non sono state richieste o non sono state disposte.
[27] Sul punto cfr. le considerazioni di F. Alvino, La circolazione delle intercettazioni e la riformulazione dell’art. 270 c.p.p.: l’incerto pendolarismo tra regola ed eccezione, in questa Rivista, 5/2020, pp. 240 ss.
[28] Sul punto cfr. le considerazioni di G. Illuminati, Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi…, cit., §3, secondo cui il limite all’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni all’interno del medesimo procedimento individuato dalle Sezioni unite rappresenta «una piana applicazione della legge, senza che nemmeno si debba scomodare l’art. 15 Cost., posto che l’art. 266 c.p.p. vieta l’impiego di questo mezzo di indagine per i reati che non superino una soglia minima di gravità. I risultati sono dunque inutilizzabili ai sensi dell’art. 271 c.p.p., poiché non sembra si possa dubitare che derivino da intercettazioni eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge. L’autorizzazione non è un passepartout per disapplicare, una volta che sia stata concessa, i limiti stabiliti in via generale. Il fatto che il segreto delle comunicazioni sia stato legittimamente infranto non implica che ogni forma di tutela sia per ciò stesso venuta meno, e che il diritto inviolabile non necessiti più di essere garantito in relazione agli ulteriori sviluppi dell’indagine».
[29] Cfr. Corte cost., 11 luglio 1991 (dep. 23 luglio 1991), n. 366, §3 del “considerato in diritto”.
[30] Cfr. Corte cost., 10 febbraio 1994 (dep. 24 febbraio 1994), n. 63, §3 del “considerato in diritto”.
[31] Per questa e la precedente citazione cfr. Corte cost., 10 febbraio 1994 (dep. 24 febbraio 1994), n. 63, §3 del “considerato in diritto”.
[32] Cfr. P. Tonini, Manuale di procedura penale, XX ed., Giuffrè, Milano, 2019, p. 403.
[33] Cfr. Corte cost., 10 febbraio 1994 (dep. 24 febbraio 1994), n. 63, §4 del “considerato in diritto”.