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17 Ottobre 2022


Informazione giudiziaria e giustizia mediatica: una inconciliabilità evidente

Intervento del Procuratore distrettuale di Bologna al seminario organizzato presso il Consiglio Superiore della Magistratura dall’Associazione Bachelet (Roma, 20 settembre 2020)



I volumi di Edmondo Bruti Liberati[1] e di Vittorio Manes[2], che abbiamo avuto il piacere di commentare all’incontro organizzato il 20 settembre 2022, presso il CSM, dall’Associazione Vittorio Bachelet, offrono l’opportunità di qualche riflessione sul tema dei rapporti tra il terzo e il quarto potere: ergo, sui rapporti, non facili, tra il mondo della giustizia e quello dell’informazione.

Questa complessità nei rapporti non nasce tanto nella situazione fisiologica e doverosa dell’”informazione giudiziaria”, quanto piuttosto nella situazione patologica della cosiddetta “giustizia mediatica”, in cui la notizia del processo o dell’indagine è spesso solo il pretesto per uno spettacolo mediatico [l’infotainment su cui bene si sofferma Manes], dove conta solo l’audience e dove spesso si fa strame delle esigenze della privacy e del rispetto della presunzione di innocenza.

Va quindi distinto il momento dell’informazione giudiziaria da quello dello spettacolo sul processo [più spesso sull’indagine].

 

L’informazione giudiziaria. L’informazione giudiziaria – corretta e pertinente – è assolutamente doverosa e coessenziale all’esercizio del diritto di cronaca.

Non vi è [solo] un diritto di informare, ma anche e soprattutto un dovere di informare, vuoi, appunto, per consentire la cronaca e con essa il controllo dell’opinione pubblica [la pubblicità è in fondo una garanzia contro gli abusi e uno strumento per esercitare il controllo sull’esercizio della giustizia], vuoi perché l’informazione, come esattamente evidenziato da Bruti Liberati, è uno strumento con cui l’ufficio giudiziario può o, meglio, deve “rendere conto” del proprio agire: è l’accountability, di cui è espressione anche la prassi invalsa negli uffici più attenti di predisporre periodicamente il “bilancio sociale” delle proprie attività.

È quindi ormai dato pacifico, quindi, quello secondo cui l’informazione è un vero e proprio dovere: inteso, beninteso, come dovere di dare conto di quello che si fa, garantendo una informazione corretta e paritaria, senza canali privilegiati, evitando il rischio di informazioni parziali, inesatte, contraddittorie.

 

Le nuove regole. Il problema della soddisfazione di questo dovere di informazione si pone essenzialmente – come è fin troppo ovvio – per le Procure della Repubblica e trova ormai una risposta complessivamente adeguata nel decreto legislativo 8 novembre 2021 n. 188, nell’innovato articolo 5 del decreto legislativo n. 106 del 2006 e, con un ruolo affatto marginale, nella risoluzione del CSM in data 11 luglio 2018, contenente le linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale [costituente coerente sviluppo delle precedenti delibere del CSM in data 24 settembre 2008 e in data 20 febbraio 2008, dedicate al tema dei rapporti tra l’ufficio del pubblico ministero e gli organi di informazione], che fornisce utili spunti operativi tuttora valevoli pur nell’innovato quadro normativo di riferimento.

Sono regole facilmente sintetizzabili.

1) Assume rilievo il ruolo centrale del Procuratore, con la possibilità di “delegare”, in uffici di dimensioni significative, all’aggiunto di riferimento, e la possibilità di consentire la partecipazione alle conferenze del sostituto che ha condotto le indagini.

La scelta di concentrare i rapporti con la stampa [nel procuratore o nel delegato] è scelta opportuna, perché consente una trattazione unitaria della materia, assicura una conoscenza diretta dei mezzi di informazione, contribuisce a realizzare una equilibrata comparazione dei diversi interessi in gioco [soddisfazione del diritto di cronaca, esigenze di rispetto della privacy, dei dati sensibili, del segreto investigativo].

Inoltre, la centralizzazione dell’informazione consente di evitare la “discriminazione tra giornalisti o testate” e/o “la costruzione e il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione”.

Proprio la centralità del procuratore spiega anche il disposto del comma 2 dello stesso articolo 5 del decreto legislativo n. 106 del 2006, in forza del quale: “ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all'ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento”.

2) Vengono dettagliate le modalità dell’informazione: attraverso gli strumenti del comunicato stampa e della conferenza stampa.  Anche se, va aggiunto, per non ingessare il sistema, non possono preconcettualmente escludersi altre modalità di comunicazione – per esempio, attraverso dichiarazioni o interviste del procuratore-  per soddisfare l’esigenza di tutelare l’ufficio da ingiustificati attacchi mediatici o per correggere storture informative rispetto alle quali gli strumenti del comunicato stampa e della conferenza stampa sarebbero di fatto inadeguati.

3) Vengono “codificate” le ragioni legittimanti la diffusione dell’informazione: consentita solo quando è “strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico”; anzi allorquando il veicolo dell’informazione sia rappresentato dalla conferenza stampa, le ragioni di interesse pubblico devono essere rafforzate [e giustificate] con l’esplicitazione della “particolare rilevanza pubblica dei fatti”

4) Soprattutto ci i sofferma sul contenuto dell’informazione: deve essere fornita “in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta ad indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”.

È un sistema che tendenzialmente può funzionare.

Specie se alle indicazioni del decreto legislativo accompagniamo cautele aggiuntive che evitino possibili violazioni indebite della privacy.

 

Le cautele aggiuntive. In primo luogo, buona norma cautelare, in grado di garantire le esigenze di riserbo e di rispetto della presunzione di non colpevolezza, contemperandole con quelle dell’informazione, è quella di evitare – di norma – l’indicazione dei nomi/generalità [a fortiori, delle immagini] delle persone coinvolte [anche della vittima, specie laddove questo potesse consentire di risalire all’indagato]. E ciò al di là dei limiti espressi indicati dall’articolo 114, commi 6 e 6 bis, c.p.p. Con l’unica eccezione in cui la pubblicazione della immagine fotografica sia giustificata da una specifica esigenza investigativa: ad esempio, per sollecitare l’identificazione del soggetto quale possibile autore di fatti analoghi.

In secondo luogo, è opportuno evitare descrizioni inutilmente analitiche del fatto foriere di consentire la detta identificazione [l’indicazione della località del fatto, se particolarmente piccola; l’indicazione di eventuali società coinvolte nei fatti incriminati; ecc.].

In terzo luogo, massima deve essere l’attenzione per la riservatezza dei soggetti diversi dall’indagato: terzi più o meno coinvolti nel procedimento e vittima del reato. Il decreto legislativo n. 188 del 2021 è in effetti specificamente dedicato a tutelare la presunzione di innocenza dell’indagato o dell’imputato. Ma l’informazione, ovviamente, deve essere attenta anche a non danneggiare o ad influenzare negativamente la tutela dei diritti degli [altri] soggetti coinvolti nel procedimento o dei terzi.

Per l’effetto va evitata ogni ingiustificata comunicazione di dati sensibili anche relativi a tali soggetti.

Ciò deve essere declinato in maniera particolarmente stringente per quanto riguarda le vittime del reato, rispetto alle quali deve tra l’altro trovare applicazione anche il disposto dell’articolo 52 del decreto legislativo n. 196 del 2003, laddove, oltre a richiamarsi l’articolo 734 bis c.p. e l’ivi previsto divieto di divulgazione delle generalità o dell’immagine di persona offesa da atti di violenza sessuale, si pone il divieto di diffondere le generalità, altri dati identificativi o altri dati anche relativi a terzi dai quali possa desumersi anche indirettamente l’identità dei minori, oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone.

Per i minori, valendo anche l’ulteriore indicazione normativa secondo cui “è vietata la pubblicazione delle generalità e dell’immagine dei minorenni testimoni, persone offese o danneggiati dal reato fino a quando non sono divenuti maggiorenni “[cfr. articolo 114, comma 6, c.p.p.].

L’attenzione a questo tema è importante anche a fronte di un costume informativo purtroppo diffuso per cui,  rispetto ad alcuni reati “sensibili”, quali  principalmente quelli di natura sessuale,  che pure dovrebbero imporre l’”oscuramento” dei dati sensibili contenuti nella decisione, spesso in fase di indagine originano  vere e proprie campagne di stampa dove non ci si fa scrupoli a declinare le generalità e le immagini dei soggetti coinvolti [per fortuna, finora, non quelle delle vittime] e a riportare ampi stralci delle vicende investigative.

 

Le ulteriori cautele “processuali”. Queste cautele, pur importanti, però non bastano. Vi sono alcune importanti “precondizioni” che riguardano non tanto l’informazione, ma il modo con cui questa può essere costruita.

L’informazione cioè può essere formalmente corretta, ma sostanzialmente può essere ingiustamente lesiva se il pubblico ministero non è attento al rispetto di alcune importanti regole che riguardano il proprio agire investigativo e processuale.

Sono regole che riguardano le modalità di iscrizione dei fascicoli e soprattutto l’utilizzo di alcuni importanti, ma invasivi mezzi di prova.

Sotto il primo profilo, risulta evidente che un improprio, arbitrariamente eccessivo utilizzo dell’iscrizione a modello 21 è già di per sé un danno ingiustificato per la privacy, pur a fronte di un’informazione [solo] formalmente corretta.

Il tema della correttezza dell’iscrizione, in effetti, è molto delicato e spesso è stato affrontato male negli uffici del pubblico ministero, soprattutto con la diffusione di tralaticie prassi operative che hanno portato ad iscrizioni a modello 21 del tutto ingiustificate, motivate magari con l’improprio richiamo all’” atto dovuto” imposto dalla necessità di dovere compiere attività irripetibili: ma dimenticando, in proposito, che, per assunto pacifico, l’atto irripetibile sarebbe pur sempre successivamente utilizzabile nei confronti del soggetto che non era indagabile e lo diventi solo successivamente; e soprattutto dimenticando che per l’iscrizione a modello 21 è necessario un fumus indiziario soggettivamente indirizzato.

Proprio questo modus agendi, per esempio, ha portato spesso a frettolose iscrizioni a carico di tutti indistintamente i sanitari che si sono occupati di un paziente deceduto, senza specifici approfondimenti, e solo per la necessità di effettuare l’autopsia ovvero a generalizzate iscrizioni a carico di tutti i titolari potenziali di una posizione di garanzia, senza distinzione dei ruoli e del coinvolgimento nella singola vicenda, in caso di infortuni sul lavoro o di disastri colposi.

Ora, si dovrebbe cambiare con la Riforma Cartabia, alla luce di quello che dovrebbe essere il nuovo comma 1 bis dell’articolo 335 c.p.p., che condiziona l’iscrizione soggettiva alla sussistenza di “indizi” a carico.

In ogni caso, il mancato rispetto di queste regole, determinerebbe un pregiudizio, in quanto la notizia di una iscrizione “sbagliata” a modello 21, formalmente ineccepibile, si risolverebbe in un inaccettabile vulnus per la reputazione dell’interessato.

Sotto l’altro profilo, un’altra precondizione per il corretto esercizio del diritto/dovere di informazione insiste sull’ utilizzo proprio e “corretto” di certi mezzi di prova.

L’ipotesi calzante è quella delle intercettazioni.

Come è noto, vanno verbalizzate e possono essere acquisite solo le intercettazioni rilevanti e utilizzabili [cfr. le indicazioni fornite dal CSM con la delibera in data 29 luglio 2016, in tema di buone prassi in materia di intercettazione di conversazioni]

Non certo quelle irrilevanti, specie se riguardanti dati sensibili; non certo quelle inutilizzabili [per esempio, quelle con il difensore].

Delle inutilizzabili ed irrilevanti deve essere vietata la verbalizzazione, che porta con sé il rischio dell’utilizzo e della pubblicizzazione.

Il mancato rispetto di queste regole risulterebbe infatti lesivo vuoi in occasione del deposito degli atti, vuoi quando gli dovessero essere utilizzate queste intercettazioni nel corpo dell’ordinanza cautelare, la quale, dopo l’esecuzione, è ostensibile e pubblicabile [articolo 114, comma 2, c.p.p.].

È allora evidente che un improprio versamento in atti, nel corpo della misura cautelare, di queste intercettazioni irrilevanti e/o inutilizzabili, contribuirebbe a pregiudicare in modo ingiustificato la reputazione delle persone, perché “arricchirebbe” in modo arbitrario l’informazione giudiziaria, pur formalmente corretta, con dati e circostanze di cui invece non ci sarebbe ragione legittima di diffusione.

 

Le possibili inefficienze dell’informazione giudiziaria. Non si può negare che molto può essere fatto per migliorare l’informazione giudiziaria.

Va certamente evitato il rischio di trasformarla in una sorta di operazione di marketing rispetto alle iniziative della polizia giudiziaria e della magistratura. Così come va evitato il rischio di “autoreferenzialità”, per cui il soggetto che dovrebbe essere controllato nel proprio agire dall’opinione pubblica sceglie cosa vuole comunicare.

Questo rischio si evita solo con il buon senso e con la correttezza di chi da l’informazione. Ma soprattutto il rischio si evita considerando – come rileva esattamente Bruti Liberati – che la comunicazione ufficiale non esclude e non può limitare il diritto/dovere del giornalista di acquisire autonomamente informazioni e notizie sulle indagini, con il solo limite del rispetto del segreto, e di valutare criticamente ciò che il soggetto controllato ha detto.

Sta ai media – dice bene Bruti Liberati – non considerare la comunicazione della Procura una “somministrazione di verità ufficiale”.

Inoltre, si pone spesso un problema di forma, che riguarda soprattutto i comunicati stampa.

Il linguaggio deve [dovrebbe] essere chiaro, conciso e semplice. Non espresso in giuridichese [o in legalese].

Qui, la risposta non può che essere culturale e di esperienza. Ci si deve impegnare di più e, probabilmente, si dovrebbe avere la forza [strutturale] di creare negli uffici giudiziari dei veri e propri uffici stampa.

 

La giustizia mediatica. E però il tema non è solo quello dell’informazione giudiziaria sperabilmente corretta.

Il tema vero ed inquietante è quello della “giustizia mediatica”, che ne è una distorsione, e sulla quale interessanti e più che condivisibili sono le considerazioni di Manes.

“La giustizia penale è diventata spettacolo” e “Le notizie di indagini e processi entrano nelle case con la forza delle breaking news”: sono le prime frasi della premessa del libro di Manes.

Come non essere d’accordo con lui quando distingue il tema della cronaca giudiziaria [cui è dedicato il decreto legislativo n. 188 del 2021] dall’intrattenimento e dal gossip.

Il problema vero, quindi, non riguarda i rapporti con la stampa complessivamente ben disciplinati dal decreto legislativo 8 novembre 2021 n. 188 in tema di presunzione di innocenza

Il problema che bene intercetta Manes è completamente diverso. È il processo “spettacolo”, è l’infotainment che caratterizza a volte il rapporto dei media con la giustizia.

Il processo, e prima di esso finanche le indagini, non si fanno nelle aule di giustizia ma sui mezzi di informazione: nei talk show, ma a volte anche sui quotidiani; per non parlare dei social media.

È un processo, come bene dice Manes, anomico e acronico.

È anomico, perché non rispetta le regole del codice, le prove, l’al di là del ragionevole dubbio.

Ci sono le regole dello spettacolo, il verosimile, il possibile, il più convincente sotto il profilo dell’audience.

È acronico, perché il processo mediatico è velocissimo, consumandosi nello spazio necessario per soddisfare le regole dello spettacolo. Non ci sono i tempi a volte lunghi, ma a volte fisiologicamente necessari per la decisione giudiziaria. La decisione del pubblico “anticipa” sempre e comunque quella del giudice, con il rischio che quella del giudice arriva quando ormai non vi è più alcun interesse a conoscerla.

Questo finisce con il “neutralizzare” la valenza della decisione giudiziale.

Ma vi è di più. Il deflagrare del giudizio mediatico, superficiale e gridato, può fare correre finanche il rischio del “condizionamento” involontario della decisione del giudice. Tanti processi “mediatici”, con l’alternanza delle decisioni, lo confermano indirettamente.

Abbiamo tutti una grande fiducia in chi è chiamato a decidere. Ma certo un dubbio sul rischio potenziale per la serenità del giudizio è lecito spesso porselo.

È fin troppo evidente che alla “giustizia mediatica” non si può rispondere con regole o norme.

L’unica speranza è in una soluzione “culturale”, che passi magari, anche se un po’ utopisticamente, attraverso uno sforzo comune di tutti i protagonisti dell’informazione [magistrati, avvocati, giornalisti], finalizzato alla condivisione di principi tutti egualmente importanti: quello del diritto/dovere di cronaca, certamente, ma non disgiunto dall’obbligo di tutelare i diritti fondamentali della persona, tra cui quelli della reputazione e del diritto alla presunzione di innocenza.

Manes efficacemente invoca una sorta di modello di shared responsability che iscriva anche i giornalisti nella “comunità degli interpreti” che deve assicurare tutela ai principi in gioco e indirizzare l’informazione secondo una prospettiva orientata ai diritti fondamentali.

Come dargli torto? Iscrivendo tra i protagonisti di questo “patto”, insieme ai giornalisti, anche i magistrati, gli avvocati, le forze di polizia, chiamati tutti a fornire le informazioni su cui può giocarsi [anche] la reputazione delle persone.

 

 

 

[1] Delitti in prima pagina. La giustizia nella società dell’informazione, Raffaello Cortina Editore, 2022

[2] Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, Il Mulino, 2022