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18 Dicembre 2019


Riformare la prescrizione del reato garantendo la ragionevole durata del processo: un’occasione da non perdere


Raffaele Cantone

* Il contributo riproduce, adattato per la pubblicazione, l’intervento svolto dal Cons. Raffaele Cantone l’11 dicembre 2019 durante una audizione informale di fronte alla Commissione Giustizia della Camera nell’ambito dell’esame della proposta di legge A.C. 2059 (Costa e altri).

 

1. Svolgerò di seguito, oggi quale magistrato di Cassazione, a titolo personale, alcune molto sintetiche riflessioni sulla riforma della disciplina della prescrizione del reato, richiamando e sviluppando considerazioni che, quale Presidente dell’ANAC, ho già avuto in parte modo di svolgere in occasione di una precedente audizione, durante i lavori preparatori della l. n. 3/2019. Oggi, a riforma approvata, si discute della sua prossima entrata in vigore, il 1° gennaio 2020, e degli effetti che si produrrebbero in assenza di un contestuale intervento normativo volto a garantire la ragionevole durata del processo, pur dopo il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Nelle mie riflessioni terrò conto dell’attuale contesto e dei dati sull’incidenza della prescrizione del reato e sulla durata del processo penale, che sono stati richiamati in questi giorni.

Cercherò di fare una valutazione complessiva del tema, che nel dibattito pubblico ha purtroppo assunto i toni di una contrapposizione netta, quasi fra Guelfi e Ghibellini: come se da un lato ci fosse il mondo del giustizialismo e, dall’altro, quello del garantismo, senza sfumature intermedie. La realtà è invece ben più complessa, come è messo in evidenza ad esempio dai contributi del prof. Bartoli e del prof. Gatta, pubblicati proprio in questi giorni su Sistema penale, che hanno il pregio di rifuggire posizioni oltranziste che credo ci siano state.

Penso ad esempio che posizioni come quella di chi ritiene che la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado rappresenti una sorta di “ergastolo processuale” siano tesi eccessive, così come quelle di chi sostiene che la sola sospensione della prescrizione sia di per sé la panacea dei problemi del processo penale.

 

2. In primo luogo a me pare, numeri alla mano, che si debba riconoscere che la prescrizione del reato è un serio problema del processo penale: rappresenta un vulnus alla giustizia del nostro paese. È un problema che non si può sottovalutare se ogni anno si prescrivono migliaia di procedimenti penali, dietro ai quali ci sono ovviamente persone: gli imputati così come le vittime, che spesso sono le più danneggiate da questi meccanismi.

In secondo luogo, occorre a mio parere considerare il fenomeno-prescrizione in rapporto alle diverse fasi del procedimento penale.  È acclarato, sulla base dei dati di cui disponiamo, che in quasi il 50% dei procedimenti il reato si prescrive, di fatto, senza che sia stata svolta alcuna attività, nelle indagini preliminari, mentre un altro più o meno 50% dei processi vede il reato prescriversi nelle fasi successive, soprattutto in quella dal punto di vista processuale più delicata: l’appello. Questo è un dato che merita di essere rimarcato ed è l’elemento di maggiore preoccupazione rispetto alla tenuta del processo penale, in rapporto ai tempi particolarmente lunghi del processo d’appello. La prescrizione, quando si verifica nella fase processuale in senso tecnico, con così grande incidenza fra il primo e il secondo grado del giudizio, crea oggettivamente un disdoro all’immagine della giustizia: c’è stata infatti un’attività processuale, a volta anche particolarmente intensa, che si risolve in una perdita di tempo e di risorse, che macchia indelebilmente l’immagine dell’efficienza della macchina giudiziaria. Non solo, a volte si prescrivono reati nel corso di procedimenti particolarmente rilevanti: non si può semplicemente pensare che si prescrivano, a processo in corso, solo le fattispecie bagatellari; per esperienza diretta posso dire che si prescrivono anche delitti di grande allarme sociale, quali la corruzione, la concussione e perfino l’estorsione.

 

3. Qualche considerazione sulla durata del processo, che è un tema di rilevanza costituzionale per essere stato oggetto di una riforma che io credo particolarmente positiva, come fu quella dell’art. 111 Cost., che ha attribuito il diritto alla ragionevole durata. Diritto alla ragionevole durata che significa, però, diritto ad avere il processo in tempi ragionevoli, e non diritto alla prescrizione del reato. Nel dibattito in corso qualcuno ha lasciato intendere che c’è un’equivalenza diretta fra i due istituti. È una equiparazione su cui non sono affatto d’accordo: la prescrizione del reato è solo uno dei possibili strumenti che il legislatore mette in campo per assicurare la ragionevole durata, uno strumento che non è costituzionalmente necessario e non è nemmeno in linea con gli standard internazionali, come mostra la realtà di molti altri paesi anche europei. Tutti sappiamo infatti che, soprattutto dopo l’avvio delle indagini e il rinvio a giudizio, in gran parte dei paesi del mondo la prescrizione non decorre più.

Una peculiarità del nostro sistema è d’altra parte quella dei tempi lunghissimi del procedimento, che comportano il rischio di condanne pronunciate a distanza di tantissimo tempo dal fatto; peculiarità che rischierebbe di essere amplificata dalla riforma della prescrizione. Questa fu la ragione per la quale, durante la mia precedente audizione, mi dichiarai contrario alla proposta, che poi è stata approvata. Giungere a distanza di tantissimo tempo dal verificarsi del fatto ad una condanna non ha alcun senso sotto tanti profili, non ultimo quello che il soggetto che è stato condannato potrebbe essere completamente cambiato. Nella mia precedente veste di Presidente dell’ANAC evidenziavo anche come una condanna per corruzione, arrivata a distanza di vent’anni, finirebbe per consentire al funzionario colpevole di continuare a mantenere per tutta la durata del processo il posto di lavoro e per giungere spesso a colpire il funzionario infedele quando ormai potrebbe persino essere andato in pensione. E allo stesso modo l’imprenditore colpevole potrebbe beneficiare dei tempi lunghi del processo per continuare a partecipare a gare di appalto, fino a quando non intervenga una sentenza irrevocabile. Un processo del genere quindi rischierebbe di essere “inutile”, oltre a frustare l’idea della riabilitazione di cui all’art. 27 Cost.

 

4. Oggi ci dobbiamo tuttavia confrontare con un testo legislativo, approvato dal Parlamento, che prevede quella che è stata chiamata, forse per edulcorarne gli effetti, “sospensione” ma che è in realtà una interruzione definitiva della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado. Credo che la ragione che dovrebbe guidare, e certamente guiderà, i lavori della Camera è quella di approfittare di questa occasione, che è un’occasione storica – come hanno sottolineato gli interventi dei professori che ho citato – per creare le condizioni perché il tema prescrizione non continui a rappresentare, come spesso ci viene contestato in sede internazionale, una sorta di zavorra dal punto di vista dell’immagine del nostro paese. Certamente ne è ben consapevole chi interloquisce con i rappresentanti di paesi stranieri: con i sistemi di giustizia europei cui dovremmo far riferimento.

 

5. Al tempo stesso, si presenta oggi al paese l’opportunità di evitare che sia la prescrizione lo strumento per assicurare la ragionevole durata del processo. A tal fine sono a mio parere necessari interventi plurimi che certamente non posso elencare in questa sede, se non in parte limitata.

In primo luogo, bisogna certamente intervenire sul sistema delle notifiche, rendendo effettive le modalità che consentono di beneficiare dei progressi dell’informatica e prevedendo come la notifica vada sempre fatta al difensore quale rappresentante dell’imputato; e poi incidere sulle impugnazioni, che vedono un vero e proprio imbuto nella corte d’appello, che è in assoluto uno degli uffici che ha maggiori problemi dal punto di vista degli organici. È evidente che su questo aspetto accanto agli interventi sul processo (che potrebbero riguardare molti aspetti) bisogna pensare anche a modifiche ordinamentali. Tutti sappiamo come funziona il sistema delle carriere in magistratura: si può passare direttamente da giudice di tribunale alla Cassazione senza transitare per la corte d’appello. È quello che normalmente avviene, anche perché, per gran parte dei giudici, l’esperienza dell’appello non viene considerata professionalmente importante. Si può pensare ad incentivi sul piano della carriera per chi faccia anche un “passaggio” in appello?

E poi ci sono evidentemente problemi di carattere più squisitamente organizzativo. L’indagine statistica del Ministro Orlando, nel 2017, evidenziava un dato: non era assolutamente vero che corti d’appello gravate dall’esistenza di pesanti fenomeni criminali avevano tassi di prescrizione particolarmente rilevanti; al contrario: corti d’appello del Nord, non gravate da numeri rilevantissimi di fatti criminali, almeno secondo la vulgata generale, presentavano tassi di prescrizione elevatissimi (per esempio ricordo il caso della Corte d’Appello di Venezia). E ricordo invece il caso di corti d’appello meridionali che presentavano tassi di prescrizione nettamente inferiori malgrado la presenza, nota, di fenomeni criminali indiscutibili. Partendo da quei dati bisogna capire su quali snodi organizzativi intervenire, creando le effettive condizioni perché ci siano tempi certi per il verificarsi del processo fra il primo e il secondo grado.

Premetto e voglio tener fermo che, a mio avviso, la principale ragione di critica alla legge Bonafede del 2019 sia di non avere provato a capire quali erano i problemi organizzativi che causavano negli uffici giudiziari l’estinzione dei processi né di aver valutato, a questo fine, l’impatto della precedente riforma del 2017; si è voluta invece modificare una riforma senza aver mai visto se quella precedente avesse potuto funzionare o meno, soprattutto nella fase del giudizio d’appello.

Aggiungo che a mio avviso meglio sarebbe stato comunque opportuno quantomeno limitare l’imprescrittibilità nei giudizi d’impugnazione alla sola sentenza di condanna; nel caso di sentenza di assoluzione. l’impugnazione del p.m., nel determinare l’imprescrittibilità, può fare danni enormi soprattutto per chi, per esempio, svolge funzioni pubbliche che può restare per un periodo lunghissimo comunque sotto la spada di una imputazione e con una decisione non definitiva.

Orbene, tutto ciò premesso è a mio avviso fondamentale prevedere, accanto alla imprescrittibilità dopo le sentenze di condanna in primo grado, dei tempi e dei termini entro i quali il processo deve essere concluso. È un sistema già adottato in alcuni paesi con buoni risultati: la Germania per esempio ne prevede uno analogo con la possibilità (sulla quale non nascondo qualche perplessità, ma che ha una sua ragion d’essere) persino di adeguare la pena, attraverso un meccanismo compensativo, una sorta di attenuante obbligatoria nel caso in cui il processo abbia una durata oltre i limiti.

 

6. Concludo da un lato ribadendo il mio auspicio di cogliere questa occasione di affrontare il tema della prescrizione e dall’altro intravedendo nella riforma che ha bloccato la prescrizione del reato dopo le sentenze di primo grado un trend su cui riflettere, ovviamente con meccanismi non arbitrari e trasparenti. Essa ha riconosciuto implicitamente una sorta di “obbligatorietà temperata dell’azione penale”, utilizzata dalle procure, in cui la prescrizione finisce per essere uno strumento deflattivo, strumento che non ha invece senso per quei processi già avviati, per i quali è indispensabile si giunga a una decisione definitiva, di assoluzione o di condanna.