"Essere giudici, essere uomini. Ascoltare per giudicare", convegno in ricordo di Enrico De Masellis, Catania, 4 luglio 2024
Riportiamo di seguito il testo della relazione tenuta dall'Autore in occasione del convegno in ricordo di Enrico De Masellis "Essere giudici, essere uomini. Ascoltare per giudicare", tenutosi a Catania il 4 luglio 2024.
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Il tema dell’incontro di oggi stimola, anzi, sarebbe più corretto dire che forzatamente evoca e pone un imprescindibile contesto di avvio: la “giustizia”, la problematicità della sua nozione, la variabilità delle sue declinazioni.
La giustizia, a sua volta, richiama la giurisdizione, il sistema delle garanzie, imperniato sul processo, ossia sullo strumento che assicura o dovrebbe assicurare le garanzie, e, quindi, sul giudice, uomo o donna, che con il processo e nel processo giudica, formula il giudizio, decide e pronuncia la sentenza in funzione del conseguimento della giustizia.
Giudicare, allora, decidere e definire il processo con il giudizio rappresenta la via per l’attuazione della “giustizia”, quale fondamento dell’ordine sociale in contrapposizione al “caos”.
Sennonché, a quale prospettazione di giustizia occorre ispirarsi, appellarsi, ancorarsi? Con quale prospettazione, cioè, deve essere coerente il giudicare e, quindi, il giudice, uomo o donna, investito di questa funzione? Sicuramente la prospettazione della giustizia offerta dal nostro ordinamento costituzionale.
In ogni caso occorre superare un primo drammatico ostacolo. Il mestiere di giudice suscita, infatti, un moto spontaneo di avversione, di ostilità, è arduo e pesante da sopportare. Con quale legittimazione, con quale animo un uomo o una donna possono arrogarsi il compito, temerario, di giudicare un altro uomo o un’altra donna? All’apparenza si tratterebbe di un’aporia, di una contraddizione insormontabile. Sarebbe il segno di un punto oscuro angosciante, refrattario alla luce.
L’apparente inestricabilità viene, tuttavia, mirabilmente disvelata da S. Agostino. «Che dire dei giudizi che l’uomo pronuncia sull’uomo, i quali non possono mancare nelle città, per quanto siano in pace? Quale opinione ne abbiamo?... In mezzo a questi punti oscuri della vita sociale un giudice sapiente potrà sedere in giudizio o non ne avrà il coraggio? Accetterà certamente; lo costringe e lo trascina a questo dovere la società umana, che è illecito abbandonare» (La Città di Dio, cap. XIX, 6, a cura di Luigi Alici, Bompiani).
Dunque, il giudice è una necessità a cui costringe la società umana, proprio, come ancora sottolinea Agostino, «per la necessità di giudicare».
A questo punto, tornando al nostro ordinamento, per comprendere pienamente l’orditura complessiva di giustizia come luminosamente tracciata dalla Costituzione, occorre andare oltre la disciplina dettata dal titolo IV e tener conto, armonizzandola con questa, di una serie ulteriore di principi costituzionali, che concorrono e convergono imperiosamente a suggellarne l’estensione e la irrinunciabile e profonda autenticità del contenuto. E con tale orditura il giudice deve fondersi, divenendone fedele custode e interprete, coerente e incessante motore, lungimirante presidio.
Giustizia, allora, nel senso di osservanza e attuazione dei principi sanciti dalla Costituzione per garantire l’effettività del diritto alla tutela giurisdizionale, «in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l’assicurare a tutti e per sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio» (Cort. Cost., sent. n. 18/82).
Giustizia, come riconoscimento e rispetto senza scale gerarchiche, dei diritti fondamentali, della dignità della persona e come realizzazione sempre più estesa e diffusa dell’uguaglianza, giacché solo attraverso il riconoscimento dei diritti fondamentali, l’inviolabilità della dignità umana e l’uguaglianza, la coscienza comune può maturare il valore della legalità.
Giustizia, come strada maestra per la percezione, il conseguimento e la difesa del bene comune, senza cui non può parlarsi di solidarietà, di diritti, di democrazia.
Giustizia, come approdo dell’esercizio della sovranità popolare, nella particolare forma della giurisdizione, protesa alla tutela dell’inviolabilità dei diritti (tutti) delle persone e, reciprocamente, alla pretesa dell’adempimento dei doveri, specie quelli inderogabili di solidarietà politica economica e sociale, sulla base dell’uguaglianza.
Non a caso Calamandrei, in un saggio del 1955, ammonisce «che dentro ciascuno degli articoli della Costituzione è racchiusa una fiamma religiosa di solidarietà e di progresso sociale» e Aristotele, non diversamente, meditava che «i cittadini devono essere educati in armonia con il tipo di costituzione che vige nella loro città, perché un insieme di costumi adatto a ciascuna costituzione di solito la conserva e la instaura fin dal principio : così sui costumi democratici si sostiene la democrazia… e sempre i costumi migliori sono il fondamento della costituzione migliore», (Aristotele, “Politica”, I. VIII, pag.623, a cura di C.A. Viano, BUR).
S. Agostino concepisce la giustizia non soltanto, come si è sopra osservato, in termini di necessità per l’ordine sociale, ma addirittura come fondamento per l’esistenza dello Stato stesso. «Remota itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?» (Una volta che si è rinunciato alla giustizia, che cosa sono gli Stati, se non una grossa accozzaglia di malfattori?) (La Città di Dio, IV, 4, pag. 221, a cura di Luigi Alici, Bompiani). Ed ancora, più incisivamente, «dove… non c’è vera giustizia, non può esservi un insieme di uomini associati e perciò non può esservi neppure un popolo… e se non vi è un popolo, non vi è neppure la cosa del popolo, ma di una moltitudine qualunque che non merita il nome di popolo…se lo Stato è la cosa del popolo, se non è popolo quello associato da un accordo giuridico, e se non vi è diritto dove non è alcuna giustizia, si conclude senza ombra di dubbio che dove non c’è giustizia non c’è Stato» ( Ibidem, ivi, XIX, 21, pag. 976).
È, esattamente, in funzione di questa Giustizia che la nostra Costituzione, in contrapposizione al modello burocratico del giudice funzionario, tipico del sistema napoleonico, ma, soprattutto, in antitesi al giudice, ferreamente gerarchizzato, asservito ed omologato, imposto dallo Stato fascista, ha declinato e consegnato una nuova figura di magistrato, la cui statura morale e professionale, traendo alimento e legittimazione incessanti dalla dimensione etica e culturale, si salda, reietta ogni tentazione di arbitrio, nella responsabile e incoercibile consapevolezza della sua indipendenza, autonomia e imparzialità, nel senso inderogabile della sua soggezione soltanto alla legge, per la ricerca razionale, appunto, della giustizia nell’uguaglianza.
Sennonché, proprio questa autentica figura di giudice, indipendente e libero, garanzia e presidio di democrazia e di uguaglianza, e non la figura del giudice di per sé, sembra, oggi, essere messa nuovamente in discussione, quando non addirittura avversata, da quanti, magistrati e non, i primi sedotti unicamente dal privilegio del potere e dalle lusinghe della carriera, dimentichi che la loro funzione costituisce esclusivamente un servizio a tutela dei diritti di tutti; gli altri, i più fortunati o, per meglio dire, i più forti e potenti, a loro volta timorosi di perdere gli spazi di potere, i luoghi di privilegio, i santuari di particolarismi e di favoritismi, comunque occupati, nei quali si sono rifugiati e nei quali intendono stabilmente rimanere. Insieme premono per tornare all’assetto del passato del giudice funzionario, mortificato dal vincolo più o meno stretto, più o meno occulto, di omologazione, se non di vero e proprio asservimento alle variabili esigenze del potere politico di turno.
L’indipendenza, l’autonomia e l’imparzialità dei giudici rappresentano, al contrario e sempre, requisiti intangibili del modello voluto dal costituente, e, lungi dall’essere concepiti e vissuti come privilegi, si identificano in principi costituzionalmente garantiti in quanto correlati sia al concreto esercizio da parte loro delle funzioni giurisdizionali, sia «come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza e imparzialità: nell’adempimento del loro compito» (Cort. Cost. sent. n. 100 del 1981).
Il Giudice delle leggi, però, nell’affrontare recentemente la questione di legittimità costituzionale dell’illecito disciplinare previsto dall’art. 3, comma 1, lett. e), del d. lgv. n.109 del 2006, non ha mancato di cogliere una nuova, preziosa occasione, in termini di doveroso e severo ammonimento, per tornare sulla puntuale definizione, costituzionalmente orientata, del ruolo e dell’agire del giudice. «I magistrati», ha affermato la Corte, «ai quali è affidata la tutela dei diritti di ogni consociato, per tale ragione sono tenuti – più di ogni altra categoria di funzionari pubblici – non solo a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni…ma anche apparire indipendenti ed imparziali, agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni. E ciò per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, che è valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto» (Cort. Cost., sent. n. 197 del 2018).
Gli stessi principi sono, altresì, volti a tutelare «la considerazione che ogni magistrato deve godere presso la pubblica opinione; assicurano nel contempo, quella dignità dell’ordine giudiziario, qualificata come prestigio, che si concreta nella fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa>>, e che <<rientra senza dubbio fra i più rilevanti beni costituzionalmente protetti» (Cort. Cost., set. n. 100/1981, cit.).
Insomma, i magistrati, lontani dal coltivare o inseguire l’utilità personale, devono sentire e praticare, come fine del loro agire soltanto il “bonum publicum” della giustizia «e la loro indipendenza trova la prima e fondamentale garanzia nel loro senso del dovere e nella loro obbedienza alla legge morale, che è propria dell’altissimo ufficio e che consiste nel rendere imparzialmente giustizia» (Cort. Cost., sent. n. 168 del 1963).
Orbene, questa figura di giudice, nel modello scolpito dalla Costituzione e magistralmente richiamato dal Giudice delle leggi, per quanto esprima già molto, tuttavia, va ulteriormente chiarita ed esplorata
Segnatamente, occorre svelarne e raccontarne le implicite, altrettanto fondamentali, caratteristiche umane ad essa necessariamente inerenti e coerenti.
Per meglio dire e più esattamente va sondato e penetrato il rapporto fra questa figura di giudice, uomo o donna, ma in quanto nello stesso momento del giudicare “persona”, con la legge, con il diritto, e, non ultimo, con il giudicando.
Il giudice, come si è visto, deve essere indipendente, autonomo, libero, deve essere equilibrato, diligente, laborioso, riservato, imparziale, corretto.
Ma rispetto alla legge e al suo contenuto, rispetto al giudicando, può essere tale giudice influenzato, meglio, guidato dal suo intimo, dalle ragioni della sua coscienza, dai sentimenti che pur lo agitano, senza mai compromettere l’indipendenza, l’autonomia e l’imparzialità del giudizio?
In altre parole, imbattendosi in una legge il cui contenuto viene ritenuto ingiusto o appare oscuro il giudice deve indossare la veste della neutralità o quella dell’obbedienza irriducibile, o ancora quella del protettore agnostico o ancora quella del rigido esecutore, o quella, infine, di un ardente militante, ripristinatore dell’ordine sociale?
Rispetto a tutte le parti coinvolte nel giudizio, ma, più in particolare, rispetto alla persona giudicanda deve presentarsi in una luce d’indifferenza, in un alone di irraggiungibile distanza, deve ergersi su un piedistallo di superiorità e di supponenza, deve atteggiarsi a inesorabile arma vindice e, al tempo stesso, redentrice della giustizia?
Insomma il giudice, uomo o donna, indossando la toga sacrale, deve inabissarsi saldamente in essa, confinando in tale indumento ogni sussulto, ogni moto, ogni grido, ogni gemito che pur dovesse lambire o toccare il suo animo?
Dovrebbe imperiosamente sfuggire e sottrarsi a qualsiasi impulso di disponibilità ad ascoltare, a comprendere il tormento, la sofferenza, l’umiliazione della persona che sta giudicando?
Deve ignorare che subire il processo e il giudizio infrange nel profondo la dignità del giudicando, quasi sempre gli stravolge la vita, quando, addirittura, non la distrugge?
Costui sarebbe un buon giudice?
S. Agostino, nel commento al Vangelo di Giovanni, soffermandosi sul passo (16, 5-14), in tema di giustizia, osserva «Noli effici iustus multum; non est notata iustitia sapientis, sed superbia praesumentis. Qui ergo fit multum iustus, ipso nimio fit iniustus» (Non voler essere giusto molto; non è la giustizia del sapiente, ma la superbia del presuntuoso. Infatti chi si fa troppo giusto, per ciò stesso diventa ingiusto).
Le parole di S. Agostino sono illuminanti e colgono perfettamente lo spirito che anima la figura del giudice voluto dalla Costituzione. Spogliato finalmente dello stigma burocratico, il giudice deve altresì, nel contempo, rifuggire categoricamente dalla tentazione di assumere la veste del militante profetico, o quella del paladino messianico o, peggio, del fanatico giustiziere. Né, per converso, deve accomodarsi nel ruolo passivo di semplice “bouche de la loi”, secondo la celebre definizione di Montesquieu. Nel primo caso si avrebbe superbia, arroganza, dispotismo del giudice; nel secondo caso si cadrebbe nel rischio opposto, ossia elezione a dogma teorico dell’uniformità della giurisprudenza in una dimensione diacronica, con il fatale corollario del conformismo e dell’omogeneizzazione della funzione giurisdizionale, di cui il potere politico si avvarrebbe per assicurarsi il controllo sull’amministrazione della giustizia.
In entrambi gli scenari viene compromesso il requisito imprescindibile della imparzialità del giudice, indirettamente, lo stesso principio del giudice naturale e, conseguenze rovinose, vengono travolti i principi “supremi” di uguaglianza e del diritto di difesa, con snaturamento della democraticità dell’ordinamento costituzionale.
Non a caso, infatti, la Corte costituzionale ha ripetutamente riconosciuto che l’imparzialità affonda le sue radici nel principio di uguaglianza e da questo trae il primo fondamento, non diversamente dal principio del giudice naturale precostituito per legge, anch’esso diretto ad assicurare l’assoluta imparzialità degli organi giudiziari, sottraendo ad ogni possibilità di arbitrio la loro competenza, la quale, in tal modo, deve essere preventivamente determinata dalla legge in via generale (sentenza n. 272 del 1998). L’imparzialità, perciò, «è connaturata all’esercizio della giurisdizione e richiede che la funzione del giudicare sia assegnata ad un soggetto terzo, non solo scevro da interessi propri che possono far velo alla rigorosa applicazione del diritto ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia da decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio in occasione di funzioni decisorie che egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza» (sent. n. 155 del 1996). Convinzioni precostituite scaturenti, altresì e inevitabilmente, qualora si sia in presenza di un giudice dispotico (per arroganza, superbia o fanatismo), ovvero si consolidi come dogma l’uniformità diacronica della giurisprudenza, restando, in tal modo e fatalmente, oscurati l’imparzialità, il principio del giudice naturale e, in definitiva, la ricerca della giustizia nell’uguaglianza.
È indubbio, infatti, che la funzione del giudicare non può non tradursi nella ricerca e nell’attuazione della giustizia per il tramite dell’applicazione della legge e del diritto. Ed è proprio nel momento dell’applicazione del diritto, nel momento, cioè, dell’esercizio del delicato compito, affidato al giudice, di interpretazione della legge che si svela l’autenticità della sua figura, uomo o donna che sia, nella completezza della sua umanità e, contemporaneamente, nella pienezza di sintonia al modello delineato e voluto dalla Costituzione. Non si tratterà, ovviamente, né del giudice “dispotico” (militante profetico, paladino messianico, giustiziere), né del giudice passivamente adagiato nel formalistico ruolo di “bouche de la loi”. Bensì, del giudice, in primo luogo, altamente consapevole del dovere di adempiere la funzione giurisdizionale affidatagli «con disciplina e onore» (art. 54 Cost.); al tempo stesso, egualmente e irriducibilmente consapevole che l’esercizio della funzione giurisdizionale, ancorché certamente espressione di un potere necessario e costituzionalmente garantito, rappresenta, al tempo stesso, essenzialmente un servizio, che si identifica nel “principio supremo costituzionale”, intangibile, della tutela giurisdizionale nell’interesse di tutti i cittadini per la ricerca e l’attuazione della giustizia nell’uguaglianza e nel riconoscimento dei diritti inviolabili della persona umana.
In tale orizzonte diventano cruciali lo sforzo, la tensione etica, la preparazione tecnico-giuridica, nonché culturale, e la coscienza del giudice nello svolgimento dell’attività interpretativa per l’individuazione della regola iuris da applicare nella decisione del caso concreto. In tal modo, l’interpretazione diviene lo strumento fondamentale per l’attuazione e l’effettività della giustizia e la regola iuris non è unicamente e strettamente un’entità esterna predeterminata, quasi che il giudice debba limitarsi passivamente a prenderne atto, ma, per l’appunto, costituisce il risultato di una scelta o di una serie di scelte che il giudice, autonomamente assennatamente e ragionevolmente, senza superbia, senza arroganza, senza spirito vindice o redentore, compie nella legge, con la legge o anche contro la legge, sempre guidato e sorretto dalla responsabile ricerca della giustizia. Così, al cospetto della legge ingiusta ovvero oscura il giudice non potrà procedere, supinamente, alla sua applicazione, parimenti dovrà astenersi dall’inventarsi egli stesso la norma, ma dovrà risolvere il dubbio, sovente drammatico, investendo la Corte costituzionale.
In ogni caso deve essere scongiurato il pericolo che le scelte che il giudice compie e, quindi, l’esercizio da parte sua del potere discrezionale, che inevitabilmente gli è riconosciuto, si trasformi in arbitrio, travolgendo la “legittimità” della decisione, conseguenza devastante per l’affidabilità e l’effettività dell’amministrazione della giustizia. La legittimità delle decisioni giudiziarie risiede, infatti, nella loro irrinunciabile razionalità, in un contesto di uguaglianza come garanzia di giustizia.
Insomma, tanto più il giudice acquista autorevolezza, legittimazione e credibilità, quanto più, nello svolgimento della sua altissima e delicata funzione, si mostri, richiamando S. Agostino, “sapiente”, s’ispiri, cioè, ad umiltà, assennatezza, cultura, disponibilità di ascolto, non disgiunte da fermezza, senza mai dimenticare di essere persona e, al tempo stesso, conscio del dovere di mostrare la massima spersonalizzazione, per salvaguardare l’obiettività della funzione giudicante.