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02 Aprile 2020


Documento dell'Associazione tra gli Studiosi del Processo penale: "Emergenza COVID-19 e custodia in carcere: perplessità e proposte, anche in vista della conversione del d.l. n. 18/2020"


Pubblichiamo di seguito un documento approvato dal Direttivo dell'Associazione tra gli Studiosi del Processo penale "G.D. Pisapia" il 30 marzo 2020.

1. A fronte dell’emergenza sanitaria che attanaglia il nostro Paese, sono decisamente fondate le considerazioni critiche provocate dall’assoluta indifferenza mostrata nel d.l. n. 18 del 17 marzo 2020 con riguardo alle sorti dei detenuti non definitivi. In effetti, l’intervento del Governo – tradottosi nella previsione che, salvo per alcune categorie di delitti o di condannati, la pena detentiva non superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di una maggior pena, sia eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza (art. 123 co. 1 d.l. 18/2020) – si giustifica senza dubbio nella prospettiva di salvaguardare la salute dei detenuti e degli operatori penitenziari, con ovvia attenzione all’intera collettività, se è vero che «il virus, una volta entrato in carcere, non rimane dietro le sbarre, ma esce facilmente verso l’esterno»[1]. E questa esigenza di tutela, invero, non può non essere considerata di primaria rilevanza alla luce delle condizioni di sovraffollamento in cui si trovano le nostre carceri, luoghi dove appare impossibile, più che difficoltoso, «assicurare adeguamente l’adozione delle misure indispensabili per evitare contagi (…): distanza di sicurezza, igiene personale, sanificazione dell’ambiente»[2]. Si tratta evidentemente di una problematica che coinvolge l’intera popolazione carceraria: quindi, anche quel terzo sul totale costituito dai detenuti non definitivi, rispetto ai quali, invece, non compare nel testo del provvedimento d’urgenza alcuna previsione, nonostante l’identità di condizioni, di pericoli e, quindi, di necessità di intervento, rispetto ai detenuti definitivi.

 

2. Del resto, nelle raccomandazioni che il 20 marzo 2020 l’European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT) ha indirizzato agli Stati membri del Consiglio d’Europa, viene indicata come «imperative, in particular, in situation of overcrowding», l’adozione di tutte le soluzioni alternative alla privazione della libertà, a partire proprio da un «greater use of alternatives to pre-trial detention»[3]. E questa considerazione era stata autonomamente già formulata dai primi commentatori del d.l. n. 18/2020, i quali hanno suggerito al legislatore, in vista della conversione del decreto-legge, l’introduzione di «una disciplina temporanea che imponga al giudice di tener conto, al momento della scelta della misura cautelare, anche dell’odierna emergenza sanitaria», così da favorire una più diffusa applicazione degli arresti domiciliari, eventualmente con l’uso del braccialetto elettronico[4].

Tuttavia, taluno potrebbe osservare che la manovra normativa risulta consentita nei confronti dei soli detenuti definitivi, perché esclusivamente nei riguardi di tali soggetti è ipotizzabile la quantificazione del periodo residuo di esecuzione detentiva: dato, questo, (che potrebbe essere) considerato necessario per evitare un’uscita dal carcere di condannati nei cui confronti assuma un rilievo particolarmente significativo la porzione di pena ancora da scontare. Laddove si ritenga di poter seguire una simile argomentazione, si dovrebbe escludere la possibilità di effettuare un corretto bilanciamento tra esigenze repressive e tutela della salute del detenuto non definitivo. In effetti, ai nostri fini non sembrano in alcun modo assimilabili ai diciotto mesi (od ai sei mesi) di pena detentiva residua, gli stessi periodi di custodia cautelare astrattamente residua, ricavati dal confronto con i termini di durata massima, siano essi quelli complessivi o quelli finali, trattandosi di termini sì collegati, nel rispetto del principio di proporzionalità, alla gravità o alla tipologia delle imputazioni, ma del tutto avulsi da una valutazione di meritevolezza di pena.

 

3. Invero, i termini di durata massima della custodia cautelare sono il frutto, più o meno accettabile, di un bilanciamento tra il riconoscimento dell’inviolabilità della libertà personale e la necessità di far fronte alle esigenze cautelari. Pertanto, se si vuole dare una risposta alla situazione di assoluta emergenza che interessa i detenuti non definitivi al tempo del coronavirus, dobbiamo partire dalla consapevolezza della necessità di individuare un percorso specifico, necessariamente subordinato ad un intervento del legislatore. Difatti, come noto, ogni valutazione sull’adeguatezza delle misure cautelari, e, tra queste, quella relativa all’inidoneità degli arresti domiciliari irrobustiti dal ricorso alle procedure di controllo a distanza, deve essere operata «in relazione alla natura ed al grado delle esigenze cautelari da soddifare nel caso concreto», mentre la rilevanza riconosciuta alle condizioni di salute presuppone un coinvolgimento diretto dell’imputato e non una situazione emergenziale generale quale quella che oggi l’Italia sta vivendo.

Si è già ricordato come, nella proposta opportunamente avanzata dai colleghi penalisti,  si alluda, per l’appunto, all’introduzione di una disciplina temporanea che inserisca tra i criteri valutativi del giudice de libertate, in sede sia di applicazione sia di modifica della misura carceraria, l’odierna emergenza sanitaria. Chi intenda sviluppare questa riflessione, dovrà decidere se il fenomeno pandemico provocato da Covid-19 potrà rilevare in una logica presuntiva o dopo una verifica del pericolo in concreto riferibile al singolo caso. In questa seconda ipotesi, entrerebbero in gioco delicate e complesse considerazioni sul luogo in cui si sta eseguendo o si potrà eseguire la misura carceraria, sull’età e più in generale sulle condizioni di salute del singolo imputato: insomma, su tutti gli elementi rilevanti nella logica dell’emergenza sanitaria, che potranno quindi giustificare la concessione degli arresti domiciliari, in luogo di una custodia in carcere, unica misura altrimenti adeguata alle necessità cautelari individuate ai sensi degli artt. 274 e 275 c.p.p. Decisioni che saranno spesso conseguenti a perizie, a consulenze, a sopralluoghi, con una tempistica inevitabilmente contrastante l’esigenza di una tempestiva adozione del provvedimento, quale che sia la direzione dello stesso. Se invece si segue l’altra prospettiva, concentrata sulla valorizzazione dello stato di emergenza sanitaria, non pare azzardato pronosticare la previsione di un livello di pericolosità cautelare dell’imputato di eccezionale rilevanza, in presenza del quale gli interventi a fini di  tutela della salute dovranno essere sviluppati, ma in ambiente carcerario, con esiti positivi, purtroppo, assai improbabili. Ed è altresì difficile pensare che, nel disciplinare i casi applicativi del beneficio, il legislatore non tenga conto anche della gravità dell’imputazione per cui si procede, con buona pace degli artt. 3 e 27 co. 2 della Carta costituzionale.

 

4. Insomma, i problemi non mancano per chi, doverosamente, si assumerà la responsabilità di colmare la pesante lacuna oggi presente nel d.l. 18/2020; problemi che, d’altronde, non sono tutti collegati al presente, anzi. Non si può dimenticare che nulla è stato fatto negli ultimi anni per migliorare le condizioni di vita all’interno delle nostre carceri, dove le carenze igienico-sanitarie si accompagnano sempre, nonostante le condanne della Corte di Strasburgo, ad un significativo sovraffollamento. Quindi, oggi ci troviamo impreparati a fronteggiare le situazioni di emergenza, ma anche colpevolmente in ritardo rispetto a situazioni di inadeguatezza cronicizzata del sistema della giustizia penale, in tutti i suoi momenti.

Così, da ultimo, la concessione della detenzione domiciliare stabilita per i condannati a pena residua non superiore ai diciotto mesi dovrà misurarsi con una discutibile previsione sull’obbligatorietà del controllo mediante il c.d. braccialetto elettronico. Ma siamo sicuri della disponibilità di tale strumento? Ovviamente il problema si riproporrà, amplificato, nel caso in cui si decida di estendere la misura attenuata ai detenuti non definitivi.

 

5. In occasione della conversione in legge del d.l. n. 18/2020, dovrà essere sicuramente riconsiderata la previsione contenuta nel comma 3 dell’art. 123, secondo cui, «salvo che si tratti di condannati minorenni o di condannati la cui pena non è superiore a sei mesi è applicata la procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici resi disponibili per i singoli istituti pentienziari». Non solo la carenza di detti strumenti di controllo potrebbe di fatto vanificare l’operatività della disposizione, ma, anche nei casi in cui si riuscisse a rinvenire la dotazione tecnica necessaria, si delineerebbe una palese disparità di trattamento rispetto al regime di mera facoltatività del controllo elettronico riguardante la detenzione domiciliare (art. 58 quinquies ord. penit.), che può interessare condannati a pene anche superiori ai diciotto mesi.

Sotto questo profilo, l’ipotizzata considerazione degli indagati e degli imputati nel novero dei detenuti per i quali potrà essere disposta la misura domiciliare dovrebbe favorire l’abbandono dell’irragionevole obbligatorietà del ricorso al c.d. braccialetto elettronico. Difatti, sia pure all’interno di una previsione nella quale la verifica dell’entità e della natura delle esigenze cautelari andrà effettuata tenendo conto delle emergenze sanitarie, non potrà non mantenere valenza quanto previsto dall’art. 275 bis c.p.p. per l’adozione di forme di controllo mediante mezzi elettronici, nella parte in cui impone l’individuazione di necessità cautelari da soddisfare nel caso concreto per giustificare il regime più severo nell’esecuzione degli arresti domiciliari. Analoga soluzione, mutatis mutandis, potrà essere proposta nei confronti dei detenuti definitivi, per i quali – a norma del comma 2 dell’art. 123 d.l. 18/2020 – la decisione sulla concessione della detenzione domiciliare postula la verifica dell’inesistenza di «gravi motivi ostativi», da individuarsi ragionevolmente nel concreto pericolo di fuga o di commissione di fatti di reato, che dovranno essere considerati anche alla luce delle diverse modalità di esecuzione della misura.

 

[1] E. Dolcini- G.L. Gatta, Carcere, Coronavirus, Decreto ‘Cura Italia’: a mali estremi, timidi rimedi, in Sistema penale, 20.3.2020, p. 2.

[3] In proposito, merita altresì di essere segnalato come l’Organizzazione mondiale della sanità abbia predisposto una sorta di guida per affrontare le problematiche relative al rischio di diffusione del virus Covid-19 nei luoghi di detenzione e nel § 3 abbia segnalato come si debba prendere “maggiormente in considerazione il ricorso a misure non detentive in tutte le fasi dell’amministrazione della giustizia penale, anche nelle fasi cautelari”, privilegiando soggetti con profili di non elevata pericolosità e necessità di assistenza medica.

[4] E. Dolcini-G.L. Gatta, op. cit., p. 9; il suggerimento è stato poi letteralmente ripreso nel già richiamato documento dell’AIPDP, p. 4.