Intervento introduttivo del vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, David Ermini, in occasione del seminario organizzato presso il Consiglio Superiore della Magistratura dall’Associazione Bachelet (Roma, 20 settembre 2020)
Saluto tutti i presenti, in particolare gli autori (Edmondo Bruti Liberati e Vittorio Manes), e ringrazio ancora una volta il professor Renato Balduzzi e l’associazione Bachelet per la passione e l’impegno con cui promuovono questi ormai consueti appuntamenti del martedì. Devo dire poi che il format della presentazione incrociata di due volumi di analogo argomento (felicemente sperimentata a maggio con i libri di Violante e Cassese) mi pare particolarmente accattivante e stimolante.
La consiliatura è ormai in scadenza e dunque, nella mia in veste di vicepresidente, questa potrebbe essere l’ultima occasione per un mio breve intervento introduttivo. La curiosa coincidenza è che ci troviamo a riflettere su una questione – il rapporto tra giustizia e media – che fu già oggetto del primo incontro promosso dall’associazione Bachelet a cui partecipai a inizio consiliatura. Allora si ragionava sulle Linee guida da poco adottate dal Csm, ora c’è il recente decreto relativo alla presunzione d’innocenza, segno di un’attenzione crescente a livello normativo. Ma anche segno, evidentemente, di una resistenza dei media a una informazione responsabile, non emotiva e sensazionalista.
Sul processo mediatico la letteratura è ormai copiosa (basta scorrere la bibliografia di Bruti Liberati e i riferimenti in nota di Manes) e ben note ormai sono le distorsioni e i condizionamenti subiti dalla giustizia reale. Eppure, leggere i volumi di Bruti Liberati e Manes, libri in un certo senso complementari e così ricchi di esempi tratti dai quotidiani o dai talk, lascia un sentimento di sconforto, quasi di sfiducia sulla possibilità che si riesca davvero a trovare un equilibrio tra diritto di cronaca e rispetto delle regole e dei tempi dei processi reali e soprattutto della dignità delle persone (imputati, vittime, ma anche terzi) che vi sono coinvolte.
C’è in effetti lo spaesamento che deriva da un paradosso evidente: un tempo, quando il sistema era inquisitorio, l’attenzione della stampa si concentrava sul dibattimento; oggi invece, con un rito accusatorio improntato al principio che la prova si forma in dibattimento, i media sono attratti pressoché esclusivamente dalla fase delle indagini. Abbiamo un processo reale accusatorio e un processo mediatico inquisitorio. Ma non solo, come puntualmente sottolinea Manes, il processo mediatico rovescia la ‘logica falsificazionista’ del processo reale trasformandola in ‘logica verificazionista’ della condanna anticipata segnando così il passaggio dal diritto penale del fatto al diritto penale d’autore.
Rispetto al passato, dove pure non mancavano sulla stampa enfasi giustizialiste (esemplari, al riguardo, gli articoli di Buzzati sul Corriere della sera richiamati da Bruti Liberati), c’è stato in questi anni un oggettivo salto di scala nell’informazione sulla giustizia verso la costruzione, per così dire, di realtà parallele. Viviamo ormai in tempi, in altri termini, di informazione-intrattenimento, di informazione contaminata da forme di spettacolarizzazione e post-verità, dove – come è stato scritto – si presentano fatti verosimili in funzione delle emozioni che sanno suscitare. Una trasformazione influenzata nei decenni passati dal linguaggio televisivo (tv-verità e talk show), ma ora decisamente accelerata dal caos informativo della rete e dei social media.
Uscirne non è facile. Nei libri di Bruti Liberati e Manes ci sono però preziosi suggerimenti, anche a livello normativo, per rendere effettivi i presidi e ribilanciare nel segno del rispetto dei diritti fondamentali e della dignità della persona cronaca e giusto processo. Pur con tutte le sue criticità, il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza segna un buon passo avanti in questa direzione. È un richiamo forte, ulteriore alla responsabilità dei magistrati e, in particolare, delle procure, nel presupposto (in netta antitesi con la vulgata giornalistica della ‘legge bavaglio’) che gli uffici giudiziari abbiano un vero e proprio dovere di comunicare. Perché, alla fin fine, trasparenza e comprensibilità dell’azione giudiziaria aumentano la fiducia dei cittadini nella giustizia e rafforzano indipendenza e autorevolezza della magistratura.
Solo due ultime osservazioni. Io credo che centrale resti comunque il senso di responsabilità, l’etica, la professionalità e il rispetto delle regole deontologiche di chi opera nella giustizia e nell’informazione. Ma da questo punto di vista, anche alla luce di quanto accaduto in questi anni al Csm e di come è stato raccontato e rappresentato dai media, consentitemi di dire che forse una seria riflessione autocritica andrebbe fatta soprattutto dal mondo del giornalismo, che non di rado si ripara dietro lo schermo dell’interesse pubblico per cronache inclini più a istinti di gogna e voyeurismo giudiziario che non a ragioni informative. Ma se, come dicono gli studiosi americani, “news is what newspapermen make it” (la notizia è ciò che ne fanno i giornalisti), ne discende che la valutazione dell’interesse pubblico costituisce la quintessenza della professionalità e credibilità di chi informa, e chi la stravolge a danno della dignità delle persone coinvolte in un processo viola la stessa ragion d’essere del giornalismo.
Infine, non posso non notare che quando, come in questo caso, si ragiona di giustizia e media, la mia sensazione è che si ragioni su qualcosa che è già fuori tempo, come se si discutesse di regole cavalleresche negli scontri ad armi bianche quando in battaglia sono ormai comparse le armi da fuoco. Intendo dire che l’informazione, soprattutto tra i giovani, non circola più attraverso giornali (i dati di vendita sono terrificanti) e tv generalista (gli ascolti dei talk sono in calo) ma in buona misura attraverso i social media, un universo disintermediato e senza filtri, alimentato da camere dell’eco e altamente sensibile alle fake news e all’hate speech. Non certo un ambiente favorevole a una informazione giudiziaria misurata e obiettiva.