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26 Settembre 2023


L’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la riformulazione del traffico d’influenze nel “disegno di legge Nordio”


* Pubblichiamo di seguito il testo dell'audizione del Prof. Marco Gambardella del 21 settembre 2023 presso la Commissione Giustizia del Senato sul d.d.l. n. 808/2023. 

Segnaliamo altresì che nei giorni scorsi la nostra Rivista ha ospitato anche i testi dell'audizione del prof. Marco Pelissero, del dott. Raffaele Cantone,del Pres. Giorgio Lattanzi e del Pres. R. Garofoli

 

***

 

1.1. L’analisi del disegno di legge n. 808/2023 di iniziativa governativa è qui circoscritta alla parte più strettamente di diritto penale sostanziale, relativa ai delitti di abuso d’ufficio e di traffico di influenze illecite.

Per quanto concerne il reato di abuso d’ufficio, l’art. 1, comma 1, lett. b), del disegno di legge prevede l’abrogazione secca della disposizione (art. 323 c.p.) che lo contempla. Si tratta di una vera a e propria abolitio criminis, disciplinata dal comma 2 dell’art. 2 c.p. e dall’art. 673 c.p.p.

D’altronde è pressoché certo che, se si abroga l’art. 323 c.p., almeno una parte dello spazio occupato dall’abuso d’ufficio sarà coperto da altre incriminazioni, talvolta maggiormente sanzionate, le quali vedranno espandere il loro campo d’azione: si pensi all’omissione di atti d’ufficio (art. 328 c.p.), al peculato per distrazione (art. 314 c.p.), alla turbata libertà delle gare e del procedimento di scelta del contraente (artt. 353 e 353-bis c.p.).

Le figure di reato che si riespandono opereranno solo per i “fatti futuri”, ossia per le condotte umane poste in essere dopo l’abrogazione dell’art. 323 c.p. Non si tratta peraltro di un vero e proprio caso di abrogatio sine abolitione, non delineandosi tra la figura abrogata e quelle che si ampliano una relazione di specialità.

Come poi risulta in modo inequivocabile dai dati ministeriali diffusi (anni 2016-2021), vi è sovente un elenco di reati che sono contestati “congiuntamente” con l’abuso d’ufficio, soprattutto agli amministratori locali: i falsi, la truffa, la corruzione, gli abusi edilizi e paesaggistici. Sopprimere l’art. 323 c.p. non servirebbe dunque a rendere immuni dal diritto penale le condotte dei pubblici funzionari, ma anzi lascerebbe sussistere le più gravi ipotesi criminose e i procedimenti penali a carico degli stessi.  

Quanto alle condanne definitive pronunciate per abuso d’ufficio, esse dovranno essere revocate dal giudice dell’esecuzione ex art. 673 c.p.p. per intervenuta abolitio criminis (art. 2, comma 2, c.p.). Si dovrà procedere inoltre alla riapertura dei giudicati e al ricalcolo della pena inflitta, allorché la condanna definitiva prenda in considerazione un concorso di reati di cui faccia parte l’art. 323 c.p.

 

1.2. Le ragioni sottostanti alla scelta abolitiva sono sinteticamente e chiaramente esposte nella Relazione al provvedimento in questione (c.d. d.d.l. Nordio).

A bene vedere, due sono i punti salienti delle ragioni che spingono verso l’esito abolitivo dell’abuso d’ufficio.

In primo luogo, si afferma che lo «squilibrio tra le iscrizioni della notizia di reato e decisioni di merito, rimasto costante anche dopo le modifiche volte a ricondurre la fattispecie entro più rigorosi criteri descrittivi, è indicativo di una anomalia che ha portato alla scelta proposta con il presente disegno di legge».

Vengono riportati nella Relazione dati statistici al riguardo: “solo” 18 condanne nel 2021 per abuso d’ufficio in dibattimento di primo grado; ancora alto il numero di iscrizioni nel registro degli indagati (4745 nel 2021 e 3938 nel 2022, e di questi procedimenti 4121 sono stati archiviati nel 2021 e 3536 nel 2022).

Siffatti argomenti si collegano a quanto già osservato nelle Relazioni ad altre proposte di legge abolitive (Rossello AC 399 e Costa AC 654), secondo le quali la quasi totalità dei processi per abuso d’ufficio è archiviata; o comunque, a fronte di un’enorme quantità di processi che iniziano, soltanto una quantità infinitesimale si chiude con una condanna. I procedimenti penali avviati per abuso d’ufficio sfociano, cioè, in condanne definitive neanche in un caso su cento (6500 procedimenti avviati e solo 57 condanne definitive).

Ora, l’esiguità delle sentenze di condanna per abuso d’ufficio rischia di indurre ad una fallacia logica: considerare un illecito penale “inutile” solo perché concretamente ineffettivo non tiene in conto né l’effetto di prevenzione generale che assume il diritto penale, scoraggiando i cittadini a commettere reati, né l’importanza che alcune fattispecie penali assumono per la tutela di importanti beni giuridici. Per quanto riguarda, ad esempio, i delitti ambientali inseriti nel codice penale nel 2015, le sentenze di condanna sono ancora molto esigue (nel 2021, 16 condanne per inquinamento ambientale), ma ciò non porta comunque a ritenere vantaggiosa la loro abrogazione.

In secondo luogo, la Relazione si fa carico di controbattere preventivamente alle critiche di chi obietta alla scelta abolizionista l’imminente possibile contrasto con la proposta di Direttiva europea in materia di lotta alla corruzione, che prescrive obbligatoriamente ai singoli Stati la rilevanza penale dei fatti di abuso d’ufficio.

Si scrive nella Relazione che vi potranno essere in prospettiva interventi additivi per spinte eurounitarie “sopravvenute”, ma attraverso una previsione criminosa formulata in modo più preciso e circoscritto. Non si tiene, tuttavia, in considerazione il “costo” giuridico di tale operazione: la reintroduzione di una nuova figura di abuso d’ufficio varrebbe solo per il futuro, creando così una frattura con la fattispecie abrogata di cui all’art. 323 c.p., le cui sentenze di condanna definitive sarebbero comunque revocate.

 

1.3. Quanto alla conclamata forbice tra i procedimenti iniziati e le condanne definitive pronunciate, è certamente vero che siamo al cospetto di un serio problema.

Ma di fronte a questa anomalia, noi dobbiamo curare la vera malattia.

E qui la malattia non è l’abuso d’ufficio, che, come diremo, è reato esistente in tutte le legislazioni europee e che rappresenta un presidio di garanzia per il consociato.

La soluzione a tali questioni reali poste sul tappeto non può essere quella di abrogare l’art. 323 c.p. La soluzione sta bensì nel far rimanere in vita l’abuso d’ufficio, ma sensibilizzando al contempo i pubblici ministeri, i quali dimostrano talvolta una scarsa attenzione nella gestione delle iscrizioni delle notizie di reato, oltreché nella conduzione delle indagini preliminari.

Su questi profili bisogna insistere, e perciò curare la malattia con la medicina giusta.

La medicina giusta non può essere l’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio, ma è “contenere” il PM nell’iscrizione delle notitiae criminis, che non hanno nulla a che vedere con l’abuso d’ufficio.

Ebbene, nella maggior parte dei casi, l’abuso d’ufficio viene veicolato alle Procure tramite denunce private di cittadini che segnalano episodi di mala gestione amministrativa. Tali denunce, tuttavia, si caratterizzano per lo più dalla mera segnalazione dell’adozione di atti amministrativi illegittimi. Ma in queste ipotesi – oggi a maggior ragione rispetto a ieri – non si può procedere alla immediata iscrizione nell’apposito registro. Ai sensi del novellato art. 335 c.p.p., l’emanazione di un provvedimento illegittimo di per sé non costituisce notizia di reato. Quest’ultima deve contenere la descrizione di un fatto, determinato e non inverosimile, corrispondente in ipotesi a una fattispecie incriminatrice.

Appare allora necessario – proprio a causa della parola “fatto” e degli aggettivi “determinato e non inverosimile” inseriti nel nuovo art. 335 c.p.p. – che nella notizia di reato siano “indicati” e poi “descritti in modo analitico” tutti gli elementi fattuali richiesti da una fattispecie astratta: condotta, evento, nesso causale, presupposti e modalità della condotta. Dovendosi ritenere che la parola “fatto” in tale contesto valga ad indicare tutti gli elementi descritti in una fattispecie incriminatrice, allo stesso modo in cui è stato inteso dalla Corte Costituzionale nella sua giurisprudenza in riferimento al divieto di un secondo giudizio, ex art. 649 c.p.p.

Ora, il delitto di abuso di ufficio è una fattispecie piuttosto analitica, le condotte tipiche e gli eventi incriminati sono determinati – anche sulla base dell’opera interpretativa della giurisprudenza – con molta precisione. Il provvedimento illegittimo dunque è solo un possibile “sintomo” di un abuso d’ufficio: è un “sospetto” di una notizia di reato. Per tale ragione siffatte denunce dovrebbero essere qualificate come “atti non costituenti notizie di reato” e dovrebbero quindi essere iscritte nell’apposito registro (il c.d. modello 45) e potrebbero – su base discrezionale – essere oggetto di una verifica preliminare (la c.d. pre-inchiesta) finalizzata a “ricercare” una notizia di reato vera e propria. Solo nel caso in cui vengano individuati tutti i plurimi elementi che concorrono a delineare il fatto nell’abuso d’ufficio, si potrà iscrivere nel registro degli atti costituenti notizie di reato. Ma in tal caso la notizia di reato non è più la denuncia: si è qui in presenza di una notitia criminis “presa d’iniziativa”.

Oltretutto, sempre ai sensi del nuovo art. 335 c.p.p. solo in presenza di indizi si può procedere all’iscrizione “soggettiva”; la quale, tra l’altro, in base all’inedito art. 335-bis c.p.p., non può determinare effetti pregiudizievoli di natura civile o amministrativa per la persona alla quale il reato è attribuito.

Del pari, una volta avviata l’indagine, la verifica della consistenza probatoria (al fine delle determinazioni relative all’esercizio dell’azione penale) non solo dovrebbe riguardare tutti gli elementi – nessuno escluso – che concorrono a delineare la fattispecie abusiva di cui all’art. 323 c.p., fra i quali spicca il dolo intenzionale, data la sua difficoltà di accertamento; ma impone anche di raggiungere uno standard probatorio complessivo assai pregnante, in ragione della nuova regola decisoria dell’archiviazione, di cui al novellato art. 408 c.p.p., che impedisce l’esercizio dell’azione quando gli elementi acquisiti durante le indagini preliminari non consentano una ragionevole previsione di condanna.

Se si acquisirà maggior consapevolezza da parte delle Procure del funzionamento sia delle nuove regole che governano la scelta relativa all’iscrizione nell’uno o nell’altro registro, sia delle nuove norme che indicano la prognosi a cui deve essere sottoposta la notizia di reato ai fini della richiesta di rinvio a giudizio, non si dovrebbero più verificare quegli effetti patologici segnalati dalle statistiche con una prevedibile diminuzione del numero delle iscrizioni delle notizie di abuso d’ufficio; effetti patologici, quindi, che non possono essere ricondotti alla mancanza di determinatezza della fattispecie, tutt’altro.

 

1.4. Eppure, abbiamo davvero ancora bisogno di una figura di reato quale l’abuso d’ufficio.

La paventata abrogazione dell’abuso d’ufficio inficia infatti il microsistema corruttivo, lo depotenzia, perché tale delitto fa parte a pieno titolo del sottosistema in questione; è, come dire, l’avamposto (insieme al traffico di influenze illecite), il delitto-spia, delle figure di corruzione in senso stretto (è collegato direttamente agli artt. 318 e 319 c.p.).

Si tratta di un microsistema, e il diritto penale è fondato sui microsistemi: reati contro la persona, abusi di mercato, reati contro il patrimonio, reati contro la PA, ecc. I delitti di abuso d’ufficio e di traffico di influenze sono veri e propri perni del sottosistema di lotta alla corruzione; un fenomeno quest’ultimo che, si stima, ha un costo per l’economia dell’Unione pari ad almeno 120 miliardi di euro all’anno.

Che il delitto di abuso d’ufficio completi il sottosistema corruttivo si ricava non solo sulla scorta della facoltà per i singoli Stati di penalizzare l’abuso d’ufficio, ai sensi dell’art. 19 della Convenzione di ONU di Merida del 2003, ma anche dalla circostanza che esso sia presente nella legislazione penale pressoché di tutti Paesi della UE. Gli Stati membri, i quali hanno risposto al “questionario” (25 Stati UE) inviatogli dalla Commissione per condividere le proprie norme incriminatrici concernenti la corruzione in senso lato, presentano nel loro ordinamento penale il reato di abuso d’ufficio, nessuno escluso.

Inoltre, la Proposta di Direttiva del 2023 pone un vero e proprio obbligo di criminalizzazione in tema di abuso d’ufficio. E ciò anche in base al carattere “transnazionale” del reato ex art. 323 c.p., confermato nel nostro codice penale in quanto il delitto di abuso di ufficio è inserito nel catalogo dei delitti di cui all’art. 322-bis c.p., con la conseguenza che anche gli agenti pubblici non nazionali potranno essere ritenuti responsabili di tale reato.

La riprova della qualità della transnazionalità del delitto in questione è fornita dal fatto che il disegno di legge Nordio è costretto ad abrogare parzialmente l’art. 322-bis c.p. (e ad emendare la rubrica) per coordinarlo con la soppressione dell’art. 323 c.p.

 

1.5. E veniamo all’altro motivo (argomento) contenuto nella Relazione al d.d.l. Nordio, che consolida la scelta abolitiva. L’eventualità di specifici “interventi additivi” nel futuro per indicazioni eurounitarie sopravvenute, i quali renderebbero possibile l’inserimento di una fattispecie di abuso d’ufficio tipizzata in modo più preciso e determinato.

Va osservato che, in realtà, il nostro abuso d’ufficio è fattispecie di reato già molto circoscritta e precisa, e che ricalca quanto richiesto dalle Convenzioni internazionali e dalla futura Direttiva europea di lotta alla corruzione. E questo anche rispetto al trattamento sanzionatorio: riguardo alla sanzione, l’art. 15 lett. b) della Proposta di Direttiva cit. stabilisce che il reato di abuso d’ufficio sia punibile con una pena detentiva massima non inferiore a cinque anni; si tratta di una pena leggermente superiore a quanto previsto attualmente per il nostro delitto (4 anni di reclusione).

Nel frattempo, tuttavia, l’abrogazione creerebbe una frattura, una discontinuità, e l’eventuale reintroduzione di una nuova figura di abuso (o simili) varrebbe sole per i cosiddetti “fatti futuri”, lasciando sul tappeto svariate sentenze, ex art. 673 c.p.p., di revoca di condanna definitiva imperniate sull’art. 323 c.p. (o di riapertura dei giudicati di condanna per rimodulare la pena inflitta in concorso con altri reati).

Le critiche sono legate a difetti di tecnica legislativa, che comportano un contrasto con il principio di legalità per carenza di determinatezza della fattispecie legale dell’art. 323 c.p. Non si individua qui, dalla descrizione legale della condotta incriminata, che cosa sia lecito e cosa sia penalmente vietato.

Da questa mancanza di determinatezza è derivata – almeno così si dice – la c.d. “burocrazia difensiva” o “amministrazione difensiva” (parafrasando la materia medica), ossia la “burocrazia del non fare”. L’abuso d’ufficio terrorizza allora chi deve firmare e gli blocca la mano (la sindrome o paura della firma). Ciò porta anche la preoccupazione, espressa dai sindaci italiani, che l’abuso d’ufficio freni la loro azione amministrativa.

Oltretutto, si sostiene che, al più, queste indagini portate avanti siano indagini su episodi storici di modesto disvalore; e che pertanto sia sufficiente al riguardo un illecito amministrativo e/o disciplinare, anche rapportandosi al canone di sussidiarietà ed extrema ratio che deve governare il diritto penale.

Al riguardo, tuttavia, possiamo dire che non è assolutamente vero che l’abuso d’ufficio abbia una fattispecie scarsamente determinata. Lo è soltanto se si mette in discussione la sua “essenza”, data proprio dal necessario controllo del giudice penale sull’attività discrezionale dei funzionari pubblici, sullo scorretto uso dei poteri pubblici, che avvantaggia o danneggia il singolo consociato.

Obiettivo dichiarato di ogni progetto o legge di riforma dell’art. 323 c.p. è di eliminare ogni forma di sindacato del giudice penale sull’attività provvedimentale della PA. Ora, può notarsi come caratteristica fondamentale dell’abuso d’ufficio sia la “resilienza” (nella accezione originaria del termine): a dispetto delle numerose novelle che lo hanno interessato, esso riassume la forma originaria una volta sottoposto a deformazione. La recentissima giurisprudenza di legittimità ha vanificato (almeno in parte) l’obiettivo perseguito dal legislatore del decreto semplificazioni n. 76 del 2020: sottrarre l’attività discrezionale della pubblica amministrazione al controllo del giudice penale, relegandolo al circoscritto ambito dell’attività vincolata.

L’abuso d’ufficio è incriminazione congiunta in modo indissolubile al principio di legalità dell’azione amministrativa; e dunque al sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa avente quale parametro di giudizio proprio il principio da ultimo citato. L’essenza di tale illecito penale è costituita, infatti, dal comportamento dell’agente pubblico posto in essere in violazione del principio di legalità dell’attività amministrativa, il quale, volontariamente, avvantaggia o danneggia qualcuno. Il “tipo delittuoso abuso d’ufficio” è legato in modo inscindibile al comportamento del pubblico funzionario che si estrinseca in una attività o nell’adozione di un provvedimento amministrativo che sia inosservante dei principi e delle regole che governano l’azione dei pubblici poteri. Al giudice penale non può dunque essere sottratto il controllo sulla legalità dell’azione della pubblica amministrazione, pena l’inutilità o l’impossibilità logica di prevedere nel nostro sistema penale una tale figura di reato.

Il binomio è indissolubile: abuso d’ufficio e sindacato sul cattivo uso della discrezionalità amministrativa stanno e cadono insieme (simul stabunt vel simul cadent). Finché sarà vigente il delitto de quo, dovrà essere consentito anche il controllo di legalità del giudice penale sull’azione amministrativa discrezionale: ne rappresenta l’essenza.

E di fronte al comportamento dell’agente pubblico posto in essere in violazione del principio di legalità dell’attività amministrativa, che avvantaggia o danneggia qualcuno, non ci sono episodi di scarso disvalore.

 

1.6. In definitiva abrogando (o comunque come in altri progetti legislativi degradando ad illecito amministrativo) l’abuso d’ufficio, si elimina il controllo di legalità del giudice penale sull’azione discrezionale della PA. Al giudice penale sarà precluso di verificare se l’esercizio dei poteri pubblici sia stato volutamente indirizzato, al di fuori della legalità, a favorire o danneggiare qualcuno.

Ma il controllo del giudice penale sulla legalità dell’agire della pubblica amministrazione origina dal principio illuministico della separazione dei poteri. Al giudice penale, attraverso il principio della separazione dei poteri, è assegnato il compito di garantire i diritti dei cittadini. E tale ruolo di garanzia, per essere efficacemente ed esaurientemente svolto, necessita della possibilità di conoscenza dell’attività amministrativa quando essa interferisca con le libertà individuali fondamentali. Alla cognizione del giudice penale non può essere perciò sottratto nulla che possa servire a tutelare il diritto fondamentale della libertà del cittadino.

Inoltre si sopprime anche il nucleo ottocentesco dell’abuso d’ufficio, collegato alla visione liberale dello Stato: la protezione dei diritti dei cittadini contro le prevaricazioni dei funzionari pubblici (l’abuso di autorità). Viene meno la tradizionale tutela della libertà personale contro gli atti arbitrari commessi con abuso di potere da parte dei pubblici agenti, che assume attualmente rilievo tramite l’evento “del danno ingiusto arrecato ad altri”.

Per esempio, non potrebbe essere più penalmente rilevante, ai sensi dell’art. 323 c.p., il demansionamento di un dipendente comunale attuato con intento discriminatorio o ritorsivo. Ancora, non sarebbe più penalmente rilevante – nell’ambito di concorsi universitari – la condotta di un membro di una commissione e di un candidato che, attraverso condotte minacciose e con mezzi fraudolenti, turbano la regolarità di un concorso per un posto da professore. Sul punto recentemente la Suprema Corte si è infatti espressa ritenendo che tali condotte non rientrino nell’art. 353 c.p. “turbata libertà degli incanti”, ma nell’art. 323 c.p.

 

2.1. Con riferimento al delitto di traffico di influenze illecite, il disegno di legge – all’art. 1, comma 1, lett. c), d), e) – interviene: sia riformulando la fattispecie legale, sia sul piano della risposta sanzionatoria (elevando il minimo edittale della pena ad un anno e sei mesi di reclusione), nonché estendendo allo stesso le circostanze attenuanti previste all’art. 323-bis c.p. e la causa speciale di non punibilità ex art. 323-ter c.p.

Se si esaminano le modificazioni legislative concernenti la fattispecie tipica del reato contemplato all’art. 346-bis c.p., l’idea complessiva che ne emerge è non tanto la finalità di “precisare alcuni elementi del reato” (cfr. in tal senso la Relazione al d.d.l. n. 808/2023), piuttosto quella di restringere il più possibile il campo applicativo dell’incriminazione.

In tale direzione sembrano procedere le seguenti novità normative:

(i) l’esclusione della sottofattispecie della “millanteria”, collegata alla vanteria da parte del trafficante di relazioni soltanto asserite con l’agente pubblico;

(ii) l’inserimento nell’enunciato dell’avverbio “intenzionalmente” per selezionare sul piano del dolo;

(iii) la natura necessariamente “economica” dell’utilità corrisposta o promessa al trafficante;

(iv) la definizione legislativa del concetto di “mediazione illecita” in relazione alla sottofattispecie di c.d. “mediazione onerosa” (nuovo comma 2) e l’inversione delle due ipotesi di “mediazione onerosa” e “mediazione gratuita” (in cui scompare il riferimento ai poteri accanto alle funzioni).

Approfondiamo dunque i punti, gli aspetti di novità, appena elencati, osservando subito che, accanto a cambiamenti sicuramente da approvare (anche se si paga un prezzo in termini di abolitio/revoca condanne), vi sono modifiche che talvolta subdolamente conducono ad esiti inaccettabili.

 

2.2. In relazione alla figura della millanteria (il “vantare relazioni asserite”), com’è noto, il legislatore del 2019 è intervenuto: per un verso, espressamente e formalmente abrogando la disposizione “matrice” dell’art. 346 c.p. (il millantato credito); per altro verso, ha riformulato il delitto di cui all’art. 346-bis c.p. in modo da “tentare” di ricomprendere (nel traffico di influenze illecite) la figura formalmente (e sincronicamente) abrogata.

L’inclusione della figura del millantato credito in quella del traffico d’influenze illecite, sotto il profilo della tecnica normativa, è avvenuta tramite la modifica delle modalità che accompagnano le condotte materiali tipiche di intermediazione: accanto allo sfruttamento delle relazioni esistenti è stata collocata la vanteria delle relazioni asserite con l’agente pubblico. Lo spettro applicativo dell’incriminazione è esteso attualmente sino alla vanteria di rapporti asseriti.

Il d.d.l. Nordio, in controtendenza rispetto alla innovazione apportata dalla legge spazzacorrotti del 2019, ritorna all’originaria configurazione del traffico di influenze illecite (l. n. 190 del 2012) imperniata sullo sfruttamento, da parte del mediatore/trafficante, di relazioni effettivamente esistenti con il pubblico agente (anche internazionale). Si propone infatti di sopprimere la porzione dell’enunciato legislativo riguardante il vantare relazioni soltanto asserite con il funzionario pubblico.

La modifica è sicuramente positiva. Si torna giustamente ad isolare il traffico di influenze illecite dal millantato credito presso un agente pubblico, intendendo così quest’ultimo comportamento sia secondo la sua originaria matrice romanistica (venditio fumi) quale ipotesi specifica di truffa; sia alla luce della dimensione semantica del termine millantare, che denota un inganno, un imbroglio.

Ecco che, sulla scorta di siffatte innovazioni normative, le condotte di c.d. millanteria o vanteria sarebbero penalmente sanzionabili, ricorrendone gli altri elementi costitutivi (a cui si aggiunge la querela di parte prima non necessaria, nemmeno per il millantato credito ex art. 346 c.p.), tramite la fattispecie generale di truffa (art. 640 c.p.). In questi casi, il “cliente” di conseguenza ritornerebbe sicuramente a non essere più punibile come concorrente necessario del trafficante, ma ad avere la qualifica di persona offesa. Il titolare del delitto di querela difficilmente la proporrà, in quanto sarebbe costretto a manifestare alla pubblica autorità il suo intento illecito.

Per inciso, tale modifica avrebbe altresì effetti – risolvendolo – sul contrasto giurisprudenziale, rimesso di recente alle Sezioni unite penali (ud. 29 febbraio 2024) concernente la sussistenza della continuità normativa tra il reato di millantato credito (in particolare con l’ipotesi del secondo comma dell’art. 346 c.p.), abrogato esplicitamente dalla l. n. 3 del 2019, e il reato di traffico di influenze illecite come modificato contestualmente dalla stessa legge spazzacorrotti. L’innovazione legislativa avrebbe inoltre complicati esiti intertemporali con riguardo ad alcune sentenze di condanna irrevocabili, che nel recente passato si sono pronunciate in senso difforme.

Qualche parola merita l’innalzamento del minimo edittale della pena ad un anno e sei mesi di reclusione (rispetto al minino di pena attuale di un anno). Esso appare ancora insufficiente, soprattutto perché l’immutato massimo edittale di quattro anni di reclusione impedisce l’impiego dello strumento delle intercettazioni.

A questo proposito, va ancora osservato che l’insufficiente incremento della cornice edittale del traffico di influenze illecite ha ripercussioni anche sull’equilibrio e la proporzionalità del microsistema dal punto di vista del trattamento sanzionatorio stabilito al suo interno.

La giusta rimodulazione dell’art. 346-bis c.p., incentrata sullo sfruttamento delle reali relazioni tra trafficante e agente pubblico, e il rifluire delle condotte di vanteria ineffettive o simulate nel campo del delitto di truffa rendono il trattamento sanzionatorio del traffico di influenze (da 1 anno e sei mesi a quattro anni e sei mesi di reclusione) non proporzionato per il diverso disvalore rispetto alla truffa (da sei mesi a tre anni di reclusione) e ai reati di corruzione rispetto ai quali esso è prodromico.

 

2.3. Va ora valutata l’introduzione nell’enunciato dell’art. 346-bis c.p. dell’avverbio “intenzionalmente” per connotare il dolo, e così di conseguenza escludere la realizzazione del delitto in questione a titolo di dolo “eventuale” e “diretto”.

Ebbene l’inserimento del requisito appare pleonastico, nel senso che non svolge (almeno qui) un ruolo di autentica “selezione” – sul piano della tipicità soggettiva – della classe delle condotte penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 346-bis c.p.

Sembra quindi davvero arduo supporre uno sfruttamento della relazione con l’agente pubblico avvenuta non per una volontà “specifica” del faccendiere di conseguire tale risultato.

E che sia inutile l’avverbio intenzionalmente si ricava anche dalla configurazione della fattispecie astratta, che contiene già – sul piano della tipicità – una chiara “finalizzazione” designata attraverso la preposizione “per” (la dazione/promessa per remunerare l’agente pubblico ovvero per realizzare un’altra mediazione illecita); finalizzazione la quale richiede un contenuto della volontà dolosa pari a quello di un dolo intenzionale, tagliando fuori così le forme di intensità minori dello stesso (diretto/eventuale).  

 

2.4. Un’importante innovazione è prevista nel disegno di legge con riguardo all’oggetto della condotta tipica: il requisito dell’altra utilità a complemento del denaro come corrispettivo per il venditore di influenze.

Si tratta dell’aggiunta, sul piano testuale, dell’attributo “economica” riferito al requisito dell’utilità corrisposta o promessa al faccendiere da parte del privato/cliente, allo scopo di remunerare l’agente pubblico o per indurlo a compiere l’atto illegittimo.

Abbiamo qui un chiaro tentativo di ritorno al passato (versione originaria 2012 dell’art. 346-bis c.p.) per delimitare l’area penalmente rilevante, il campo di denotazione dell’art. 346-bis c.p.

Invero nella versione vigente del traffico di influenze, a seguito delle modifiche della legge spazzacorrotti del 2019, l’assenza di connotazione – sul piano della struttura linguistica della disposizione – della “utilità” data o promessa dal cliente al mediatore permette di ricomprendere nell’ambito applicativo del termine/concetto qualsivoglia vantaggio anche “non patrimoniale” o “morale”, come ad esempio le prestazioni sessuali.

L’utilità va stimata “economica” quando essa sia suscettibile di valutazione in termini di patrimonialità.

Ebbene, la necessaria natura economica dell’utilità della prestazione del privato committente:

(a) è “eccentrica” nel sistema, giacché non è in linea con quanto stabilito nelle altre ipotesi del microsistema corruttivo: corruzione funzionale, corruzione propria, induzione indebita e concussione, nei quali rileva qualsiasi vantaggio o utilità materiale o morale, patrimoniale e non;

(b) è “contrastante” con le Convenzioni internazionali di Strasburgo del 1999 e ONU di Merida del 2003, le quali fanno riferimento a “any undue advantage”; e con la recente Proposta di Direttiva europea di lotta alla corruzione del 2023, dove all’art. 10 (Trading in influence) si allude “an undue advantage of any kind”.

 

2.5. Da ultimo, si esamina l’intervento centrale, la novità più rilevante del disegno di legge n. 808, concernente il delitto di traffico di influenze illecite.

Essa è costituita, per un verso, dal capovolgimento topografico delle due sottofattispecie di “mediazione onerosa” e di “mediazione gratuita”; per altro verso, insieme alla inversione della sequenza normativa, la proposta legislativa interviene definendo la nozione di mediazione illecita” in relazione alla c.d. mediazione onerosa in un nuovo secondo comma dell’art. 346-bis c.p.

Per comprendere appieno tali modifiche, occorre rammentare che nell’attuale formulazione (l. n. 3 del 2019), il traffico di influenze contiene al suo interno una duplice modalità di realizzazione. Si tratta di due vere e proprie condotte tipiche perfettamente delineate e separate topograficamente (nel comma 1) dalla congiunzione disgiuntiva “ovvero” (congiunzione preceduta peraltro da una virgola). Le stesse vengono sovente denominate – non solo nell’odierna esperienza applicativa, ma altresì nel dibattito dottrinale – con le espressioni “mediazione onerosa” e “mediazione gratuita”.

La previsione criminosa punisce in pratica sia l’accordo volto alla “mediazione onerosa”, allorquando il denaro o altra utilità è indebitamente reclamato dal trafficante per sé stesso; che quello volto alla “mediazione gratuita”, laddove il denaro o altra utilità viene indebitamente chiesto dall’intermediario per destinarlo all’agente pubblico (per comprare il favore del funzionario occorre quindi corrispondergli una utilità). In entrambe le ipotesi, in ogni modo, il disvalore penalistico risiede nel patto preliminare alla corruzione, nel mero accordo tra le parti avente ad oggetto l’influenza illecita.

Per quanto concerne poi la figura della c.d. mediazione onerosa, la Corte di cassazione si è trovata costretta a “creare” un “requisito di tipicità aggiuntivo”, un elemento restato sotto-traccia, nella penna del legislatore. Si è affermato che l’unica interpretazione della disposizione che riesce a soddisfare il principio di legalità sia quella che fa leva sulla particolare finalità perseguita attraverso la mediazione: “la mediazione è illecita quando è finalizzata alla commissione di un “fatto di reato” idoneo a produrre vantaggi per il privato committente» (cfr. Cass., sez. VI, 8 luglio 2021, n. 40518).

Si tratta di un elemento costitutivo di fattispecie sicuramente necessario per rendere la figura criminosa legittima costituzionalmente alla luce dei principi di legalità, proporzione, offensività e colpevolezza. Ma si tratta pur sempre di un elemento soggettivo della condotta tipica “inespresso”, che scaturisce da fonte giurisprudenziale e pertanto da vagliare con attenzione.

In particolare, questa “definizione giurisprudenziale” è stata delineata in presenza di una mediazione onerosa che mirava alla realizzazione di condotte qualificabili come fatti di abuso d’ufficio” (art. 323 c.p.): l’illecita finalità di far ottenere – tramite l’intermediazione dell’ex Sindaco di Roma – alle cooperative legate ai protagonisti di Mafia Capitale un trattamento di favore per i pagamenti dei crediti pregressi, da parte dei competenti uffici comunali, in violazione della normativa che disciplina la materia del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione (Cass., sez. VI, 8 luglio 2021, n. 40518, cit.).

Ebbene, la premessa appare utile per mettere in evidenza la matrice della nuova definizione legislativa contenuta nel d.d.l. Nordio, secondo cui «per altra mediazione illecita si intende la mediazione per indurre» l’agente pubblico anche internazionale «a compiere un atto contrario di doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito» per il privato committente.

Il modello della esplicita definizione (di cui al comma 2 dell’art. 346-bis c.p., d.d.l. Nordio) è chiaramente la definizione di fonte giurisprudenziale appena menzionata, che si rinviene nelle recenti pronunce della VI Sez. della Corte di cassazione.

A tale proposito, va osservato inoltre quanto segue. Come accennato in precedenza, nella versione del disegno di legge si è invertito l’ordine delle sottofattispecie rispetto al testo vigente: prima la c.d. mediazione gratuita poi quella onerosa. E questo probabilmente proprio per far risaltare il collegamento tra la definizione del secondo comma della mediazione illecita e la figura della mediazione onerosa.

Nel primo comma dell’art. 346-bis c.p. d.d.l. Nordio, si parla così di “altra” mediazione illecita (in relazione alla sottofattispecie di mediazione onerosa) riferendosi logicamente alla precedente – sul piano topografico – sottofattispecie di c.d. mediazione gratuita (o di intermediazione corruttiva, come sarebbe meglio denominarla).

Anche la definizione di mediazione illecita, ex comma 2 dell’art. 346-bis c.p. d.d.l. Nordio, è riferita alla “altra mediazione illecita di cui al primo comma”. La definizione si collega quindi, espressamente, soltanto alla mediazione onerosa, con esclusione di quella gratuita.

In definitiva, gli aspetti di novità che bisogna tenere in considerazione sono i seguenti.

Il disegno di legge governativo delinea il concetto di mediazione illecita – in modo condivisibile – unicamente all’interno della sottofattispecie di “mediazione onerosa”, e lo tipizza calcando questa definizione legislativa su alcune recenti e note sentenze della Corte di cassazione.

Senonché, queste decisioni della Suprema Corte che il progetto di legge mutua, plagia letteralmente, sono sentenze che si riferiscono a una mediazione illecita finalizzata al delitto di abuso d’ufficio.

Ecco che, paradossalmente, da una parte, si tipizza qui la mediazione illecita sul modello della “mediazione onerosa” indirizzata all’abuso d’ufficio; mentre, dall’altra, si abroga esplicitamente il reato contenuto nell’art. 323 c.p.

In breve, non sarà più perseguibile una mediazione diretta all’abuso d’ufficio, che è – a torto o a ragione – il campo di applicazione elettivo oggetto delle pronunce della Corte di cassazione.

Ma c’è di più, perché questa modifica produrrà parziali effetti abolitivi; e quindi alla revoca delle sentenze di condanna emesse dalla Corte di cassazione – per abolitio criminis (artt. 2 c.p. e 673 c.p.p.) – lì dove in importantissimi processi come il c.d. processo Alemanno si è giunti ad una condanna per traffico di influenze illecite finalizzato a commettere un abuso d’ufficio. Tali sentenze saranno quasi sicuramente revocate e tutti gli effetti della condanna saranno eliminati.

A ben vedere, poi, leggendo la nuova definizione – è mediazione illecita la mediazione “per indurre” l’agente pubblico “a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato” – si circoscrive ancora, in modo asistematico e irragionevole, l’area denotativa della nozione di mediazione illecita.

Il sintagma “atto contrario ai doveri d’ufficio” consente infatti di ricomprendere nel perimetro applicativo unicamente la corruzione propria di cui all’art. 319 c.p., lasciando fuori la corruzione ex art. 318 c.p.; e quindi una mediazione onerosa finalizzata ad una corruzione funzionale, ad una messa a libro paga dell’agente pubblico da parte del privato, non sarà più perseguibile ex art. 346-bis c.p.

E questo perché, l’ormai consolidato orientamento della VI Sez. della Suprema Corte fonda la differenza tra gli artt. 318 e 319 c.p. sul compimento o meno di un atto contrario dell’ufficio da parte dell’agente pubblico. Il discrimine della corruzione funzionale rispetto alla corruzione propria è segnato dalla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) nel delitto di cui all’art. 318 c.p. ad una fattispecie di danno nel reato ex art. 319 c.p., in cui si realizza la massima offensività del reato con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio.

Viene smentito così quanto osservato dalla stessa Relazione al d.d.l. n. 808/2023, nella quale si afferma che «le modifiche in proposta mirano a meglio precisare alcuni elementi del reato, confermandone la natura di fattispecie “avamposto”»: il traffico di influenze quale un avamposto della corruzione in senso ampio.

In realtà, non si tratta più qui di un avamposto delle figure di corruzione perché viene esclusa la corruzione funzionale. Si contraddice palesemente il cruciale ruolo concepito nel 2012 – in armonia con le altre legislazioni europee – per il traffico di influenze: figura di chiusura del microsistema corruttivo, che punisce condotte prodromiche al vero e proprio accordo corruttivo tra privato e agente pubblico, anticipando la risposta penale nel campo della tutela degli importanti valori della imparzialità e legalità dell’azione della pubblica amministrazione.

Infine, può accennarsi a qualche altra questione sparsa, che solleva il disegno di legge in esame.

Nella sottofattispecie di “mediazione onerosa” la retribuzione, alla luce della nuova definizione della mediazione illecita, non sembra essere necessariamente – come nella versione vigente – il prezzo della intermediazione per il faccendiere: la formulazione del 2 comma dell’art. 346-bis c.p. d.d.l. Nordio non esclude che il corrispettivo possa andare interamente all’agente pubblico.    

Bisogna inoltre anche comprendere in che modo la nuova definizione di “mediazione illecita” sia compatibile, sotto il profilo logico-giuridico, con la circostanza aggravante che scorre qui al comma 5 dell’art. 346-bis c.p., la quale a sua volta fa riferimento al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio.

Può notarsi poi che il legislatore, al (nuovo) comma 4, sembra – forse – essersi dimenticato di aggiungere l’aggettivo “economica” all’utilità, in relazione alla circostanza aggravante basata sulla qualifica soggettiva di agente pubblico (anche straniero) del faccendiere.

 

2.6. In conclusione, la rimodulazione del delitto di traffico di influenze illecite, così come attuata dal disegno di legge in esame, presenta sicuramente apprezzabili novità: quali quella di riportare i casi di mera millanteria all’interno del paradigma della truffa ovvero quella di inasprire il trattamento sanzionatorio.

Accanto a queste condivisibili scelte, vi sono tuttavia nuove proposte che appaiono talvolta inutili come il requisito dell’intenzionalità; o talaltra eccentriche (con il sottosistema della corruzione oppure in contrasto con le Convenzioni internazionali) come per la indispensabile patrimonialità dell’utilità della retribuzione data/promessa al faccendiere; nonché del tutto sconcertanti e foriere di problemi come la tipizzazione del requisito della “mediazione illecita”.

Tale nuova definizione legislativa (comma 2 dell’art. 346-bis c.p.), come illustrato, è calcata sulla giurisprudenza della VI Sezione della Corte di cassazione, la quale ha ritenuto illecita (anche e soprattutto) la mediazione onerosa finalizzata alla commissione di un delitto – l’abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. – che proprio il disegno di legge in analisi intende contestualmente abrogare.

Nel complesso il risultato della riformulazione normativa è quello di determinare un pericoloso restringimento della sottofattispecie di mediazione onerosa” alla sola mediazione illecita indirizzata alla corruzione propria (art. 319 c.p.), senza contare poi gli svariati esiti abolitivi … non sempre pronosticabili in anticipo.