Inaugurazione dell’Anno Giudiziario dei Penalisti italiani 2024, Unione Camere Penali italiane
Pubblichiamo di seguito il testo dell’intervento del Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Avv. Fabio Pinelli, tenuto in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario dei Penalisti italiani il 9 febbraio 2024 (Roma, Teatro Eliseo), organizzata dall'Unione delle Camere Penali italiane.
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Il mondo della giustizia non è un universo chiuso e isolato: va guardato nella complessità delle sue interazioni con le altre istituzioni e, più in generale, con i contesti politico-culturali di riferimento. Se è vero che la società è oggi tutta proiettata nella giurisdizione, è proprio questa interconnessione sistemica che contribuisce a rendere più agevole l’analisi dei problemi della giustizia penale. La giustizia, d’altronde, è sempre stata il più preciso termometro dei mutamenti sociali.
La fine delle ideologie ha reso irreversibilmente private le visioni del mondo. I partiti e gli altri corpi intermedi – che prima erano fonte di identità collettive ed avevano una straordinaria capacità aggregativa – si sono dissolti. Una volta dire cattolico o comunista, liberale o socialista, significava configurare un’identità politico-culturale. Oggi tutto questo sembra sfumato.
La percezione del dato reale non si coagula più in visioni collettive e precisamente collocate, che attraverso i corpi intermedi si traducevano in visioni del mondo identificabili e preconcette; il dato reale oggi passa attraverso la rarefazione del giudizio dei singoli, dei cives.
Se questo è il contesto politico-culturale odierno, sommariamente esposto senza alcuna pretesa di esaustività, dobbiamo chiederci se sia ancora l’elemento tradizionale, istituzionale e formale, della legge a fondare la legittimazione dell’operato della magistratura, così incisivo nella vita dei cittadini. Potrebbe esserlo, se oggi la legge non fosse in realtà qualcosa d’altro rispetto a ciò a cui abbiamo sempre pensato.
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Infatti, v’è da chiedersi se la legge sia oggi un precetto ben chiaro, inserito nella gerarchia delle fonti, la cui regola – per parlare del diritto penale – individua in modo determinato e tassativo la condotta. E se dunque sia idonea ad essere la prima e unica fonte di legittimazione della giurisdizione.
È lapalissiano che la magistratura sia soggetta soltanto alla legge, in una corretta estrinsecazione del principio di separazione dei poteri. Ma il punto è un altro: il punto è che cosa sia oggi la legge.
Il diritto, e assieme a questo la giurisprudenza, cambia continuamente, anche quello che dovrebbe essere il più stabile e consolidato, perché costruito sulla censura di violazioni gravi e intollerabili, cioè il diritto penale. Il panorama normativo sembra essere sempre più confuso, la legge appare un meccanismo di pura interpretazione. Si assiste alla perdita di paradigmi anche nella legislazione.
Occorre chiedersi quali sono le conseguenze di questa dissolvenza. Anzitutto, sul fronte della pubblica accusa, se la legge si sgrana entra in crisi il principio di obbligatorietà dell'azione penale, che i Costituenti elaborarono come limite legale al potenziale arbitrio dei pubblici ministeri. Questo ha un effetto sistemico dirompente, di tipo politico-culturale.
Vi sono stati casi – l’esempio storico più noto è quello di Tangentopoli – in cui le Procure della Repubblica hanno cercato di definire un’etica pubblica effettuando un controllo di legalità partendo dal diritto penale.
Tornando ad oggi, ad essere applicate non sono soltanto regole precostituite: facendo leva su un dato legale sempre più indefinito e incerto, v’è il rischio di costruire, attraverso le imputazioni formulate dalla magistratura inquirente, anche regole innovative. L’applicazione di queste regole, in particolare a vicende politico-amministrative, che ridondano sulla dirigenza del Paese, indubbiamente concorrono a formare una nuova etica pubblica, attraverso quella che è stata mirabilmente definita da Vittorio Manes «eticizzazione del rimprovero e atipicizzazione delle imputazioni».
Va quindi constatato che la legittimazione dell’operato del magistrato può in taluni casi fondarsi non tanto e solo su una legge che non dà più garanzie di certezza e prevedibilità applicativa, ma anche su fattori politico-culturali influenzati da scelte giudiziarie: un processo di formazione dell’etica pubblica «è una parte non giuridica del diritto, ma il diritto, che ne costituisce un criterio d’identificazione, ne segna anche il perimetro, l’insieme maggiore», come ha insegnato Massimo Donini
In questi termini, il magistrato trova il proprio riconoscimento giuridico e sociale, e quindi la propria legittimazione esterna, nella modalità con cui esercita la propria funzione. Da questa prospettiva, è lecito interrogarsi se l’art. 101 della Costituzione sia ancora l’unico criterio che regola il processo di legittimazione del potere giudiziario.
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Ma il tema della legittimazione si confronta essenzialmente con la parte giuridica del diritto: si confronta con la legge, che oggi come detto è qualcosa d’altro rispetto a ciò a cui abbiamo sempre pensato. È ancora l’art. 101 a cui dobbiamo guardare, che si riferisce ad un ordinamento giuridico tradizionalmente inteso, ormai molto distante da quello che oggi si rapporta con la “modernità”. L’irruzione delle fonti sovranazionali nell’ordinamento interno, tale da aggiungere altre regole e principi, unitamente a un diritto giurisprudenziale che si intreccia con il diritto formale, diventando anch’esso fonte del diritto, sono solo gli ultimi atti di un processo di decostruzione del concetto di legge: il giudice sempre più, anziché effettuare operazioni di “sussunzione” del fatto nella fattispecie descritta dalla norma, è l’autore di “bilanciamenti” di valori, potendo peraltro muoversi su molti piani ordinamentali.
Da ciò discende non solo, una funzione giudiziaria come quella esercitata dalle Procure della Repubblica che assume, nel quadro di una evidente crisi dell’obbligatorietà dell’azione penale, una dimensione, una valenza sempre più centrali nella definizione dell’etica pubblica, ma sull’altro versante, e sul piano della legittimazione interna una vera e propria “crisi della soggezione del giudice alla legge”. «Da organo soggetto ‘soltanto’ alle legge, di fronte a una ‘legge’ che non è più ritenuta in grado di porre effettivi vincoli, il giudice finisce per risultare non più soggetto a nulla: inebriato da una libertà mai prima conosciuta, non si avvede di perdere inconsapevolmente la radice costituzionale della sua legittimazione», come ha acutamente osservato Epidendio.
Così, nel vorticoso quadro sociale appena descritto, in cui la percezione del dato reale passa, senza ‘alcuna mediazione di sistema, attraverso l’esperienza del singolo, l’asse costituzionale della legittimazione dell’operato della magistratura sembra gradualmente spostarsi, dall’art. 101 all’art. 54 della Costituzione.
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Il Costituente ben ha immaginato che per il funzionamento della democrazia siano essenziali i comportamenti dei cittadini, di ciascuno di noi; senza i doveri, che sono il collante delle democrazie, anche l’etica pubblica si polverizza, e le comunità si autodistruggono. L’art. 54 impone a coloro ai quali sono affidate funzioni pubbliche il dovere di adempierle con disciplina ed onore. Oltre i diritti, ci sono i doveri, vale per tutti, anche per i magistrati. Ecco perché al magistrato si richiede contegno e serietà professionale, dedizione e senso di responsabilità radicati nella consapevolezza dell’altissimo compito affidato.
L’insieme dei doveri in capo al magistrato trova la sua declinazione dentro il rapporto di fiducia dei cittadini, il cui giudizio oggi è singolo, non più convogliato in visioni preconcette, e passa attraverso l’esperienza individuale di ciascuno; nel nostro caso, l’esperienza di ciascuno con la giustizia. Un magistrato consapevole del potere che esercita, capace di ascoltare, sensibile alle ricadute della vicenda giudiziaria sulla vita delle persone è un magistrato credibile. Del magistrato burocrate il cittadino diffida, nel magistrato diligente, attento ai suoi doveri, autenticamente terzo, il cittadino ripone fiducia.
Alla domanda su quale fosse il dovere più pregnante al quale il magistrato – sia giudice che pubblico ministero – non può e non deve sottrarsi, se essa sia ricercare la verità, osservare la legge, oppure salvaguardare i diritti, Luciano Violante rispose «Il dovere di pensare che potrebbe sbagliare».
Il primo ostacolo nel processo al conseguimento della giustizia attraverso l’accertamento della verità giudiziaria è proprio l’idea di infallibilità del magistrato: «l’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio. Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto». Sono parole di Leonardo Sciascia del 1986.
In questo senso, va ribadito, è il cittadino il giudice del giudice.
Il magistrato non deve essere sensibile al consenso, che determinerebbe una inaccettabile torsione delle sue funzioni, ma – purtuttavia – interrogarsi sulla sua legittimazione nel quadro di questa modernità, di fronte all’ordinamento e al cittadino che ne resta al centro.
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Quelle appena ripercorse sono circostanze storicamente accertate, sul piano sociale, giuridico e giudiziario, che di fatto determinano il superamento della legge – per la sua intrinseca fragilità ed evanescenza – quale unica fonte di legittimazione dell’operato della magistratura, e ne spostano gradualmente l’asse costituzionale. Si tratta di cifre distintive dello scenario attuale, che si riflettono da ultimo sui due punti acutamente indicati nel titolo del dibattito: “il processo come ostacolo” e “il carcere come destino”.
Il processo è “ostacolo” quando in esso risulta del tutto trascurata la prospettiva delle garanzie individuali. Al contrario, il diritto penale della Costituzione prevede il rispetto della persona che entra nel processo, la garanzia della prevedibilità delle conseguenze giuridiche del suo operato, il ruolo centrale del principio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, non quale formula di stile ma chiave di lettura del processo accusatorio.
Ed è sempre la Costituzione ad impedire che il carcere sia inteso come “destino”. Mi riferisco a all’ineludibile funzione rieducativa, che viene disattesa in una misura ben specifica: quella di circa 5.000 detenuti, che è il numero in eccesso rispetto alla capienza regolamentare delle carceri italiane, fissata in poco più di 50.000, e che si traduce in trattamenti contrari al senso di umanità, pur vietati dall’art. 27. Un “destino” processuale che spesso si compie in una fase anteriore al processo, quella delle indagini, perché oltre 9 mila sono i detenuti in attesa di un primo giudizio, e altri 9 mila sono i condannati non definitivi. Circa un terzo della popolazione carceraria è ristretto in base ad un titolo cautelare. I numeri sono testardi, ma spesso anche impietosi, e quelli relativi alla dimensione penitenziaria della giustizia dimostrano come il nostro sia ancora un ordinamento carcerocentrico; a dispetto di una Costituzione liberale che guarda al carcere, luogo di totale privazione della libertà e troppo spesso anche della dignità, come extrema ratio.
Sembra quasi di udire le parole di una ballata satirica di Eustache Des Champes, poeta medievale francese: «mascalzoni sacrileghi che commettete svariati delitti / siate trascinati legati alle code dei cavalli / e dopo appesi ad una forca / siano avvertiti i balivi e i siniscalchi / prendeteli, impiccateli e tutto andrà al suo posto». Sette secoli dopo, sembra ancora dominante un diritto penale di origine arcaica, fondato sulla minaccia di sofferenze come reazione al delitto e come strategia per l’ordine nella società.
La dimensione processuale e quella carceraria sono, a ben vedere, due facce della crisi endemica in cui versa la giustizia nel nostro Paese, e che trova una concausa nel disordine sistemico che tange il tema della legittimazione: in un mondo così profondamente mutato, essa non può più essere intesa in senso tradizionale.
Da ciò possono farsi discendere molte indicazioni sul modello di magistrato, garante dei valori costituzionali, alla cui costruzione anche l’avvocatura, quale co-protagonista della giurisdizione e della vita costituzionale del Paese, può e deve contribuire. È un percorso in cui tutti gli attori istituzionali devono essere coinvolti, e non sarà un percorso facile: ma contro i venti contrari, come sa ogni buon navigante, si deve andare di bolina.