Riceviamo e volentieri pubblichiamo di seguito, per l'interesse, il testo scritto dell'intervento del Presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, Dott. Luca Poniz, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario 2020 presso la Corte d'Appello di Milano (1° febbraio 2020).
Signora Presidente della Corte d’Appello,
Mi consenta di rivolgere i migliori saluti, miei e di tutta l’A.N.M., alla Presidente della Corte Costituzionale, professoressa Marta Cartabia; al Ministro della Giustizia, On. Avv. Alfonso Bonafede; al rappresentante del C.S.M., dott. Piercamillo Davigo; al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, Avv. Vinicio Nardo; alle Autorità tutte, ai gentili ospiti, alle colleghe ed ai colleghi.
È un grande onore prendere la parola, a nome dell’Associazione Nazionale Magistrati, che qui rappresento, in questo momento solenne, di fronte alle Alte Cariche dello Stato presenti, ed in quest’Aula, dedicata alla memoria di due grandi colleghi; un’Aula che è stata luogo di tanti momenti importanti, alcuni storici; luogo simbolo di apertura e di confronto, di cultura e di dialogo: quel dialogo e quel confronto che costituiscono l’irrinunciabile modalità dell’azione dell’Associazione Nazionale Magistrati, nei rapporti con tutti gli interlocutori, istituzionali, politici, professionali, culturali.
Quest’Aula è stata, e sarà, anche il luogo della formazione scientifica e culturale della Magistratura e dell’Avvocatura, non di rado ad esse comune, come è naturale sia pensando al bene supremo della Giustizia, ed alla collegata, irrinunciabile finalità di condividerne i principi e valori comuni.
Ed è per questo che oggi appare ancora più gravemente impropria un’iniziativa di protesta che, lontano dall’essere un pacato, argomentato, ancorché fermo, confronto di idee, vorrebbe negare la presenza stessa, e la voce, ad un interlocutore, persino nella sua veste istituzionale: ostracismi preventivi e veti ad personam contraddicono apertamente non soltanto il metodo del confronto delle idee, ma quei valori stessi, di fondamento costituzionale, ai quali si pretende di ispirarsi.
In quest’Aula, solo pochi mesi fa, la magistratura milanese ha reagito compattamente al manifestarsi di una crisi istituzionale senza precedenti, che ha investito il suo organo di governo autonomo e, per riflesso, la stessa credibilità dell’intera magistratura. Anche grazie al ruolo e alla fermezza del Capo dello Stato, la stessa magistratura – cui peraltro si deve l’indagine, e l’origine giudiziaria della vicenda – e l’Associazione Nazionale Magistrati hanno affrontato – a cominciare da una drammatica assemblea proprio in questo luogo – la serie degli eventi susseguitisi, e credo ci possa essere riconosciuta una genuina volontà di profondo cambiamento, mossa da analisi anche marcatamente autocritiche. Il percorso di cambiamento, soprattutto quando riguarda assetti profondi, e un certo modo di intendere e coltivare le aspettative di carriera, postula tempi non brevi, e processi culturali dagli esiti incerti…
L’ampia e profonda relazione della Presidente Tavassi e gli interventi che mi hanno preceduto documentano in modo completo lo stato della Giustizia nel Distretto, e nel Paese. Se ne possono ricavare, e sono emersi, plurimi elementi di riflessione e di analisi, che riguardano diversi, e complessi aspetti dell’amministrazione della giurisdizione e della sua organizzazione, che interpellano le diverse competenze e responsabilità, proprie della stessa magistratura, ma anche del Ministro della Giustizia, del Consiglio Superiore, del legislatore, delle tante istituzioni coinvolte nel complesso funzionamento di questo essenziale servizio, e naturalmente dell’avvocatura.
C’è però un punto dal quale è per noi imprescindibile muovere: i dati che oggi emergono, e che sono emersi ieri dalla relazione del Primo Presidente della Corte di Cassazione, ed ancora il 28 gennaio, dalla relazione alle Camere del Ministro della Giustizia, danno innanzitutto conto di un imponente, straordinario impegno dei magistrati italiani, reso evidente dai dati della loro produttività, tanto relativi alla gestione dei procedimenti pendenti, quanto delle sopravvenienze; dati che, anche a livello europeo – come certificato anche dalle ultime pubblicazioni della Commissione Europea per l’efficacia della Giustizia – testimoniano la più alta produttività, ciò che appare ancora più rilevante se si tiene conto del fatto che – come dalle stesse fonti europee emerge – i Magistrati italiani, nel numero di 11 per 100.000 abitanti a fronte della media europea di 22 per 100.000, sono chiamati a governare una media di 2,17 processi di primo grado per 100 abitanti, a fronte di una media europea di 1,08 per 100 abitanti: vale a dire che nel numero della metà rispetto ai nostri colleghi europei, affrontiamo un numero doppio di processi. Non credo di dover argomentare, inoltre, sulla peculiarità socio-criminale che presenta il caso italiano, e larga parte del suo territorio, per aggiungere agli eloquenti dati quantitativi del nostro lavoro, e dei nostri mezzi, la sottolineatura della sua straordinaria complessità, non a caso ben compresa dagli osservatori stranieri.
Difficile, crediamo, chiedere di più.
Nonostante ciò, la complessa radiografia del sistema giustizia restituisce un quadro certo non privo di criticità, principalmente inerenti i tempi delle varie fasi processuali e la durata complessiva del processo, problemi certo non nuovi, in relazione ai quali tutti gli attori del mondo della giustizia mostrano da tempo una doverosa attenzione, nella piena consapevolezza che il tempo del processo è anche vita delle persone, e dunque interessa diritti fondamentali.
È per questo che l’A.N.M. chiede da tempo, non di rado inascoltata, riforme strutturali profonde ed organiche; e lo ha fatto anche di recente, sotto la guida di questo gruppo dirigente, con un metodo trasparente, con l’idea di un lavoro e di un percorso necessariamente condiviso con tutti gli attori protagonisti del mondo della Giustizia; dove centrali sono stati i temi del tempo del processo, della sua efficacia, e dunque anche del rapporto tra le garanzie e le formalità, in un equilibrio sempre molto difficile, e delicato.
Uno degli interventi da sempre invocati dalla magistratura associata è, come noto, quello della disciplina della prescrizione penale, chiedendone l’interruzione definitiva – secondo la nostra proposta più recente, deliberata con altre dal CDC del novembre 2018 – con la pronuncia di una sentenza di condanna. Proprio in quest’aula, il 28 gennaio del 2012, l’allora Presidente della Corte d’Appello pronunciò parole chiare: “una prescrizione che decorre usque ad infinitum, propiziando tecniche dilatorie e impugnazioni palesemente infondate, non è più sostenibile”. Incide sull’efficacia del processo di cui – testualmente “si programma lo scivolamento verso un esito proscioglitivo per il mero decorso del tempo – cui la difesa dell'imputato ha il diritto di tendere – con il conseguente fallimento della funzione cognitiva di accertamento della verità e con la sconfitta dell'ansia di giustizia delle vittime e della collettività”. Correlata la richiesta di “stabilire, con urgenza e determinazione, la sterilizzazione degli effetti della prescrizione del reato, se non dopo l'avvenuto esercizio dell'azione penale, almeno dopo la sentenza di condanna di primo grado”.
L’invocazione di una diversa disciplina della prescrizione è dunque tesa a modificarne non gli esiti in sé, ma l’impatto sull’intero sistema processuale, notandosene gli effetti dissuasivi sul ricorso ai riti alternativi (come, peraltro, sottolineato nella relazione del Presidente della Corte di Cassazione di ieri) – imprescindibili, per il funzionamento stesso del sistema accusatorio – e, all’opposto, gli effetti incentivanti sulle impugnazioni, in relazione alle quali andrebbero sempre ricordati non soltanto i dati che ne certificano la relativa fase di maturazione (un quarto dei processi muore in appello), ma anche quelli che indicano le inammissibilità delle impugnazioni: innanzi alla Corte di Cassazione, un numero così impressionante da rendere evidente la finalità dilatoria di esse.
È dunque da qui che il sistema complessivo potrà trarre beneficio.
Su un punto occorre ancora una volta essere chiari: l’idea che la prescrizione sia istituto idoneo a regolare la durata del processo. Definita tale idea, senza sfumature, “giuridicolaggine” da un giurista illustre come il prof. Giostra, notoriamente sensibile – come del resto noi – alle garanzie autentiche del procedimento e del processo, ne era già stato sottolineato da altro giurista, il prof. Gatta, l’insano realismo che la contraddistingue: quello di considerare la patologia che la prescrizione, a processo in corso, rappresenta – e che tale, innegabilmente, è – come una medicina per curarne un’altra, la durata del processo, che impone ben altre, e genetiche, misure.
Quello che, sull’argomento, rifiutiamo è la contesa manichea, la prospettazione di scenari apocalittici, e ancora peggio l’interessata strumentalizzazione politica di questa o quella posizione, questa o quella precisazione, questo o quel distinguo: ciò che nel nostro linguaggio è da sempre segno di profondità e articolazione del pensiero, diviene sorprendentemente formidabile occasione di strumentalizzazione politica.
E quello, ancora, che troviamo oggi intollerabile è la lezione di garantismo che pretenderebbe di impartire chi, dal mondo della politica, non ha esitato a introdurre a suo tempo le più irrazionali ed ingiuste riforme sostanziali e processuali; e, per rimanere sul terreno stesso della prescrizione, a modificarla nel 2005 con una disciplina piegata a contingenti esigenze (e infatti subito fulminata da una sentenza della Corte Costituzionale) e costruita su princìpi intimamente irrazionali, forieri di effetti irragionevoli, quale, tra gli altri, l’enorme impatto della recidiva sulla durata del tempo per prescrivere.
Questi sono davvero “imputati per sempre”: il ricettatore di un’auto che, ove recidivo qualificato, potrà stare nel processo per oltre 20 anni, e lo potrebbe stare per statuto normativo, per così dire, e non per inerzia o neghittosità dei giudici. Distratti, talvolta, questi garantisti à la carte…
Quanto agli “imputati per sempre” – che, come sappiamo, esistono per previsione normativa, finora non censurata in relazione al parametro costituzionale sovente, ma impropriamente, evocato – la formula è suggestiva, ma infondata: mentre allude, con preoccupazione del tutto giustamente coerente con la funzione difensiva, al timore di una dilatazione del tempo – ad evitare la quale tutti dovremo lavorare, fin d’ora, alacremente, ognuno secondo le rispettive responsabilità – evoca implicitamente un’idea errata della giurisdizione, e dei giudici, il cui impegno alla definizione dei processi nei tempi, coerenti con un’idea accettabile di giustizia, svanirebbe per il solo venir meno di un timer finora congegnato con l’effetto di poter sancire la morte dei primi. O l’aborto, come ha chiosato con rara efficacia in un recente articolo il Presidente Emerito, Ernesto Lupo.
Mettere dunque mano, nel tempo che si apre prima del primo prodursi degli effetti della nuova disciplina, ad un insieme di riforme: che ripensino dalle fondamenta il diritto penale, la sua ormai patologica ipertrofia; che, tra le altre misure, incentivino il ricorso ai riti alternativi, con incentivi ancora più marcati al patteggiamento nelle indagini, e consentano di diminuire drasticamente il ricorso al dibattimento – cuore del processo accusatorio; che potenzino i segmenti della giurisdizione su cui è prevedibile si producano gli effetti degli interventi normativi; e molto altro ancora, come abbiamo argomentato e proposto, in alcuni casi anche con proposte condivise con l’avvocatura, nei tavoli di confronto istituiti dal Ministro della Giustizia.
Prioritari, ovviamente, investimenti, su personale e mezzi: certamente apprezzabile la netta inversione di tendenza registrata sotto la guida dei due ultimi Ministri, che tuttavia ha dovuto rincorrere gli effetti di precedenti, irresponsabili scelte.
Quando saranno noti i contenuti dell’annunciato intervento riformatore in materia di diritto e processo penale, ordinamento, carriera dei magistrati, Consiglio Superiore della Magistratura, potremo esprimere il nostro articolato parere, secondo le modalità di responsabilità e collaborazione che sono nella migliore tradizione della magistratura associata.
E tuttavia, come abbiamo già lealmente anticipato al Ministro della Giustizia, nella recentissima occasione di incontro con la G.E.C., se troveranno conferma – oltre alle molte parti che sembrano accogliere suggerimenti avanzati nei tavoli, in alcuni casi in modo condiviso con l’avvocatura – alcune previsioni emergenti da un articolato provvisorio inerenti la correlazione tra la previsione di tempi rigidi e normativamente predeterminati nella definizione di fasi processuali e del processo e sanzioni disciplinari per i magistrati, tipizzate con la formula “dolo o negligenza”, non potremo che esprimere, con la nostra netta contrarietà, una ferma protesta: non certo per rifiuto delle responsabilità o rivendicazione corporativa, ma per rifiuto del presupposto da cui muoverebbe una simile ipotesi, tanto sul punto della predeterminabilità rigida di tempi (che sembra muovere da un’idea astratta di un processo tipo, come se il processo fosse uno, e fosse tipizzabile nelle sue pressoché infinite variabili ) quanto sulla collegata responsabilità, ipso facto, al singolo magistrato, su cui ricadrebbe una presunzione pressoché invincibile di negligenza. È un’ipotesi che contraddirebbe, peraltro, le analisi da cui muove la stessa impostazione ispiratrice la linea di questo Ministero, e il costante riconoscimento della laboriosità e persino abnegazione della magistratura italiana. Appare, ancora, una sorta di concessione al “bilanciamento politico” che sembra doversi introdurre, come se le altre riforme fossero una concessione alla magistratura, da compensare così con una norma “manifesto”.
Soprattutto, la previsione racchiude e rimanda un messaggio devastante: la correlazione stretta e per così dire intima tra inefficienza del sistema e responsabilità del magistrato, come se l’efficienza del processo si potesse governare con lo strumento disciplinare.
Infine, ma non da ultimo, rischia di generare riflessi gravissimi nel rapporto tra magistrato e giurisdizione, e dunque, in definitiva, sui diritti che siamo chiamati a tutelare: una giurisdizione burocratica, e, come abbiamo avuto modo di definire, “difensiva”, fatalmente incline a scegliere la soluzione processuale non la più giusta, ma la più comoda, appunto, “deresponsabilizzante”.
Siamo certi che il Ministro della Giustizia non compirà una scelta capace di trasformare la giurisdizione e di imprimerle una direzione dagli esiti potenzialmente nefasti, una scelta che la magistratura associata contrasterà radicalmente, naturalmente con le modalità e il senso di responsabilità che da sempre caratterizza la nostra azione.
Rimane naturalmente ferma la nostra disponibilità al confronto, con la Politica, l’Avvocatura, l’Accademia. Senza toni apocalittici, senza contrapposizioni manichee. Senza la pretesa di possedere soluzioni definitive. Sempre fermi, tuttavia, nella difesa orgogliosa delle prerogative che la Costituzione ci assegna per la tutela delle libertà e dei diritti.