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10 Gennaio 2022


Il pendio verso l’ammissibilità del referendum sull’eutanasia: alcune riflessioni sulla soglia minima di tutela penale della vita e una proposta per ritenere adeguata la disciplina di risulta


* Testo, rivisto e corredato di note, dell’intervento al seminario del 15 dicembre 2021 “Il referendum sull’art. 579 c.p.: aspettando la Corte costituzionale”, organizzato dal Dipartimento di Diritto pubblico italiano e sovranazionale dell’Università di Milano. Il contributo è destinato alla pubblicazione negli atti del seminario; si ringrazia la curatrice, Prof.ssa Marilisa D’Amico, per averne autorizzato l’anticipazione in questa Rivista.

 

1. L’apertura senza precedenti all’area della liceità nelle scelte di fine vita, oggi promessa dal referendum sull’eutanasia, suscita probabilmente in alcuni il timore che lo spettro evocato dall’immagine del piano inclinato o della china scivolosa, con i relativi costi in termini di vite umane, stia infine per materializzarsi.

In verità, dovendo pensare all’imminente giudizio di ammissibilità del referendum, viene in mente una metafora meno potente ma – temo – più realistica: quella di una strada in salita, peraltro con una forte pendenza.

 

2. Pur nell’incertezza derivante dall’oscillante giurisprudenza costituzionale, convincenti analisi[1] ci portano a dare per assodato, in questa sede, che i problemi non riguardino la formulazione del quesito e il modo in cui questo incide sulla disposizione interessata.

Neppure dovrebbero entrare in gioco, insegnano i precedenti e la dottrina[2], considerazioni inerenti alla questione – più insidiosa – circa la ragionevolezza della disciplina di risulta.

A questo proposito terrei comunque a fare un breve appunto, ipotizzando un worst case scenario in cui la separazione di piani rispetto al giudizio di semplice ammissibilità dovesse venire meno. Il dibattito ha presto segnalato che, in caso di risultato positivo del referendum, sarebbe interamente abrogata la fattispecie più grave (l’omicidio del consenziente), mentre resterebbero in gran parte punibili le condotte (di aiuto al suicidio) connotate dal disvalore minore.

L’esito, di per sé considerato, pare in effetti incoerente, ma l’analisi non dovrebbe fermarsi qui. In particolare, non sembra del tutto persuasivo che, per giudicare della ragionevolezza di un simile assetto normativo, possa assumersi quale parametro una disciplina, come quella vigente, essa stessa gravemente sospettabile di irragionevolezza: sia per quanto riguarda il perimetro, eccessivamente ristretto, della non punibilità ritagliata all’interno dell’art. 580 c.p.; sia per quanto riguarda la mancata estensione della liceità, nei termini più o meni ampi riconosciuti per l’aiuto al suicidio, ai casi regolati dall’art. 579 c.p.

Se davvero questo difetto di coordinamento fosse l’ostacolo opposto dalla Corte costituzionale, potrebbe meritare domandarsi se la definizione del giudizio non presupponga di risolvere una o più questioni di legittimità di carattere pregiudiziale, da fare oggetto di auto-rimessione da parte della Corte stessa[3] (schema di recente riscoperto nell’ambito di un giudizio incidentale vertente sulla c.d. regola del patronimico[4]). Resta da verificare la percorribilità, teorica e pratica, di tale via in sede di scrutinio sull’ammissibilità del referendum.

 

3. La questione a mio avviso cruciale e fonte di maggiori difficoltà, dove i temi del diritto penale si intrecciano inestricabilmente con i principi costituzionali e convenzionali, è se e in che misura l’art. 579 c.p. debba ritenersi norma a contenuto costituzionalmente vincolato o norma costituzionalmente necessaria: due limiti in teoria distinti ma che alla luce della prassi e per semplicità possiamo considerare in maniera unitaria, chiedendoci se la disciplina penalistica di risulta garantirebbe una tutela minima alla vita umana[5], bene allo stato protetto dalla norma incriminatrice che si vorrebbe abrogare.

Consideriamo qui la portata oggettiva del quesito referendario, al di là dell’intento dei promotori.

Offre una tutela minima una disciplina in cui condizione necessaria ma anche sufficiente per la liceità della morte direttamente procurata da terzi è il consenso dell’interessato?

La radicalità della prospettiva propugnata dal referendum costringe a fare i conti con uno territorio perlopiù inesplorato, in cui è difficile trovare punti fermi.

 

4. Che la volontà della persona consenta – da sola – di sacrificare lecitamente la vita, scriminando la condotta di terzi, è una possibilità ormai riconosciuta e garantita dall’ordinamento, quando tale volontà si manifesta sotto forma di rifiuto delle cure. È questo il significato, anche penalistico, della l. 219 del 2017.

È vero che la legge, sotto questo aspetto, non è mai stata portata direttamente all’attenzione della Corte costituzionale. Conviene tuttavia ricordare che con essa il legislatore ha recepito una elaborazione dottrinale e giurisprudenziale andata consolidandosi negli anni, fondata su una lettura ampiamente condivisa di alcune norme costituzionali (artt. 13 e 32); e che, da ultimo, la stessa Corte costituzionale nelle note pronunce sull’art. 580 ha finito per avallare la legittimità della l. 219 in parte qua, assumendola ora come parametro (nell’ord. 207/18) ora come strumento di disciplina (nella sent. 242/2019).

Vale la pena puntualizzare: la l. 219 consente già oggi che la persona maggiorenne capace di intendere e di volere ottenga la morte, esprimendo (con le modalità previste dall’art. 1) il rifiuto di iniziare o proseguire un trattamento salvavita, indipendentemente dalla patologia, dalle probabilità di sopravvivenza e dalle ragioni che stanno dietro la scelta.

 

5. I termini della questione cambiano quando vengono in gioco condotte che, con terminologia aggiornata, chiamerei di aiuto medico a morire (nel lessico tradizionale, l’aiuto al suicidio e l’omicidio del consenziente). Non è questa la sede per indagare le ragioni e l’opportunità di un trattamento differenziato delle ipotesi di “eutanasia attiva” in senso lato, per cui mi limiterò a prendere atto di questa specificità.

In materia esisterebbe un precedente-guida, rappresentato dal già richiamato intervento della Corte costituzionale sull’art. 580 c.p.: senonché, ai nostri fini ne ricaviamo indicazioni solo parziali e, per certi versi, ambigue.

La perdurante legittimità di un divieto penale di aiuto al suicidio è stata motivata dalla Corte con la finalità di tutelare la vita «anche, se non soprattutto»[6] delle persone più deboli e vulnerabili, che potrebbero essere condizionate dalla pronta disponibilità di terzi a procurare loro la morte.

Come è stato notato[7], rimane in ombra se il riferimento alle persone fragili sia esclusivo, o se sia una giustificazione legittima dell’intervento punitivo quello di proteggere, contro il loro volere, anche persone né deboli né vulnerabili: in tal caso, sarebbe stato fissato uno standard di tutela penale della vita davvero molto elevato.

Soprattutto, però, in nessun passaggio delle motivazioni la Corte dice espressamente se, oltre a essere legittimo, sia anche necessario un divieto penale di aiuto al suicidio.

Anzi, la Corte usa la semantica della facoltà, piuttosto che del dovere, laddove afferma che al legislatore «non può ritenersi inibito»[8] intervenire con la pena, e che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio «non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione»[9].

Non manca il riferimento a un generico dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo, ai sensi dell’art. 2 Cost.[10], e al dovere, più specifico, di proteggere chi versa in condizioni di fragilità: ma in quest’ultimo caso la Corte[11] richiama l’art. 3, secondo comma, Cost. e le «politiche pubbliche» che la norma menziona, le quali farebbero pensare a misure di rafforzamento del sistema di welfare, non alla previsione di norme incriminatrici.

Nel senso di un obbligo di tutela penale nemmeno si può argomentare a partire dal rilievo che la Corte ha accolto solo in parte le censure di legittimità sollevate dalla Corte d’assise di Milano. Sarebbe errato sostenere che è costituzionalmente necessario, anche in materia penale, tutto ciò che non è dichiarato incostituzionale: oltre che la teoria generale dei rapporti tra Corte e legislatore, lo dimostra, nella materia in esame, l’ampio consenso circa la possibilità di estendere ulteriormente l’area della liceità (per esempio ad opera del Parlamento, quando intervenisse) senza per ciò solo causare un vulnus ai valori costituzionali protetti.

 

6. Alla base della reticenza della Corte si può avvertire il peso della cultura giuridica nazionale, che tradizionalmente nega l’esistenza di obblighi costituzionali di incriminazione[12].

Oggi, tuttavia, la complessità del sistema delle fonti rende ineludibile confrontarsi con i vincoli di matrice sovranazionale, e a questo livello si registra ormai una chiara tendenza a individuare nei diritti fondamentali della persona non solo limiti alla potestà punitiva statale, ma anche, almeno per alcuni di essi e nei casi delle violazioni più gravi, «ragioni che reclamano l’intervento penale»[13] da parte del legislatore nazionale, a tutela degli stessi diritti fondamentali.

Ponendoci in questa prospettiva, è allora proficuo rivolgersi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, a cui verosimilmente guarderà anche la Corte costituzionale, vista la sempre crescente sensibilità di questa verso i parametri convenzionali nell’interpretazione datane dai giudici di Strasburgo (come si è potuto apprezzare anche nelle due decisioni sull’art. 580).

Premessa necessaria è che un limite (non insuperabile) di tale indagine sta nel fatto che la Corte EDU si è sinora pronunciata solo su casi di aiuto al suicidio, e non di omicidio del consenziente.

Il consueto riferimento al caso Pretty questa volta non pare risolutivo. La Corte[14] ha stabilito un principio rilevante per definire la cornice delle legislazioni in materia di fine vita – dal diritto alla vita di cui all’art. 2 Cedu non può essere ricavato un diritto di morire; ciò non significa che gli Stati che ammettono forme di aiuto a morire stiano violando la Convenzione – ma non vengono tracciati limiti netti.

Un aggancio più esplicito e pertinente mi pare che possa invece rintracciarsi nella decisione sul caso Haas. Qui la Corte[15] ha desunto dall’art. 2 un dovere positivo in capo agli Stati di proteggere la vita delle persone vulnerabili – solo di queste, sembrerebbe – da gesti autolesivi: ciò si traduce nel dovere di impedire a una persona di togliersi la vita se la decisione non è presa in modo libero e con piena cognizione delle conseguenze. Al contrario, l’obbligo sembrerebbe venire meno di fronte a un’autentica volontà di morire.

Tuttavia, anche nella sentenza Haas la Corte non chiarisce se il dovere di protezione da gesti autolesivi debba essere assistito da sanzioni penali nei confronti dei terzi che collaborano alla loro realizzazione.

Si potrebbe essere tentati dal considerarlo un profilo affidato all’ampio margine di apprezzamento di cui godono gli Stati in materia.

Nondimeno, in varie altre sentenze, rese fuori dall’ambito eutanasico, è stata ritenuta condizione imprescindibile per garantire il rispetto del diritto alla vita contro offese intenzionali la predisposizione di norme penali dissuasive e di procedure giurisdizionali in grado di portare a una punizione effettiva degli autori della violazione[16]. E a tal fine, si noti, non viene considerata sufficiente la previsione, scontata e del resto onnipresente, di una norma incriminatrice dell’omicidio volontario; ma la Corte si riserva di verificare che non esistano altre norme o istituti tali da depotenziare la portata dell’incriminazione[17]. Come sarebbero, ad esempio, scriminanti o cause esimenti non legittime al metro della stessa Convenzione. Come sarebbe – si può ipotizzare alla luce di quanto visto sopra – il consenso alla propria uccisione prestato da un soggetto in condizioni di vulnerabilità, che lo Stato ha il dovere di proteggere anche da sé stesso.

Combinando questi principi, è plausibile sostenere che ai sensi dell’art. 2 Cedu in capo agli Stati sussiste l’obbligo di sanzionare penalmente i terzi che contribuiscono all’attuazione di scelte di morire non libere o non informate.

 

7. Assumiamo che proprio quello appena enucleato dalle decisioni della Corte EDU sia il livello minimo di tutela da assicurare al bene vita e proviamo a proiettarlo sull’ordinamento italiano.

Le condizioni poste dalla Corte costituzionale nella decisione sull’aiuto al suicidio paiono senz’altro sufficienti per rispettarlo.

Più interessante è chiedersi quale o quali tra le condizioni di non punibilità previste assicurino la conformità ai parametri convenzionali. La malattia irreversibile? La sofferenza intollerabile? La dipendenza da trattamenti di sostegno vitale? Sarei propenso a escluderlo. Il fatto che l’aiuto al suicidio sia lecito in casi del genere ci rivela informazioni importanti sul fondamento sostanziale del diritto del paziente (nell’alternativa tra diritto ad autodeterminarsi nelle cure, diritto a non soffrire o diritto a morire); ma non sembra che il loro rispetto contribuisca a garantire la soglia minima di tutela della vita umana.

Il requisito veramente decisivo sembra invece quello di cui alla lett. d), ossia la presenza di una volontà libera e consapevole – che, almeno in linea di principio, prescinde dalle condizioni di salute della persona[18].

A questo punto, l’interrogativo centrale è se la disciplina superstite dopo l’abrogazione referendaria sia in grado di rispettare questa specifica condizione. Ciò rafforza anche l’idea della irrilevanza – sul piano del giudizio di ammissibilità – dell’asimmetria rispetto alle altre condizioni richieste per la non punibilità nell’ambito dell’art. 580.

 

8. Anche a seguito dell’abrogazione referendaria, il testo dell’art. 579 conserverebbe la disposizione – corrispondente all’attuale comma 3 – che esclude la rilevanza del consenso in alcune ipotesi predefinite (quali minore età, infermità di mente, violenza minaccia inganno).

Ai nostri fini, però, questa clausola di riserva presenta due difetti: da un lato, contribuisce a definire solo in negativo il consenso autentico (rilevante, in futuro, per la liceità del fatto); dall’altro lato, le ipotesi contemplate sono tutte o quasi “casi facili”, in cui il consenso è viziato in modo conclamato oppure intrinsecamente invalido, per una condizione strutturale di debolezza.

La norma invece non aiuta a definire in positivo gli elementi che caratterizzano la corretta formazione del volere della persona, specialmente nei casi dubbi.

Una disciplina del genere non sarebbe tranquillizzante per nessuna delle istanze di tutela in gioco.

Il consenso della persona vulnerabile – nell’esempio della Corte costituzionale, l’anziano malato e solo – probabilmente non sarebbe “invalido” ai sensi della clausola di riserva in esame, ma questo non darebbe automaticamente garanzie sul rispetto delle condizioni richieste dalla Corte EDU (libertà e consapevolezza della scelta di morire). D’altra parte, la vulnerabilità è una condizione da accertare in concreto, e sarebbe comunque difficile incasellarla entro categorie predeterminate in astratto. Accontentarsi della rete di protezione a maglie larghe data dall’art. 579 c. 3 significa con alta probabilità non tutelare a sufficienza il diritto alla vita.

A questa considerazione se ne aggiunge un’altra, già affacciatasi nelle riflessioni sul tema[19]. Fino ad oggi, quando si trovavano di fronte a un caso di omicidio pietatis causa, la giurisprudenza hanno pressoché invariabilmente ritenuto che il consenso prestato dalla persona alla propria uccisione fosse invalido, talora anche al di fuori dei casi descritti dalla clausola di riserva. In mancanza di criteri legali orientativi di segno positivo, è stato elaborato uno standard pretorio di validità, molto rigoroso, di cui in concreto non è mai stata riscontrata la sussistenza: perché si trattava solo di generiche invocazioni di morte, perché il consenso non era stato reiterato al momento della condotta omicidiaria, o perché – l’ipotesi in prospettiva più allarmante – era stato espresso da persona gravemente malata[20].

Quindi, con la disciplina superstite non solo in astratto non sarebbe protetto a sufficienza il diritto alla vita, ma è possibile che non si vedrebbe soddisfatta neppure la domanda di autodeterminazione che si intende favorire, dato che i terzi sarebbero scoraggiati dal prestare aiuto. Peraltro, all’applicabilità dell’apparato sanzionatorio dell’omicidio volontario occorrerebbe aggiungere la riespansione delle aggravanti di cui agli artt. 576-577 c.p., che rendono il delitto punibile con l’ergastolo e delle quali potrebbero facilmente ricorrere gli estremi (si pensi all’uso del «mezzo venefico» o alla premeditazione); e anche le possibilità di mitigazione sanzionatoria sarebbero ridotte, data l’inveterata resistenza della giurisprudenza verso il riconoscimento, in questi casi, dell’attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale. Nell’escursione incontrollabile tra liceità del fatto ed ergastolo sarebbe frustrata anche una basilare esigenza di prevedibilità della pena.

 

9. Per salvare l’ammissibilità del quesito – e almeno in parte l’effettività della disciplina di risulta – la strada obbligata sembra quella di individuare una procedura che consenta il controllo (i) ex ante e (ii) in concreto dell’autenticità del volere, rispettando così esigenze di certezza e garanzia.

La soluzione potrebbe essere, ancora una volta, estendere la “procedura medicalizzata” per l’acquisizione del consenso informato di cui alla l. 219, che la stessa Corte costituzionale ha richiamato ai fini dell’accertamento delle condizioni di liceità dell’aiuto al suicidio.

Sarà un’operazione fattibile già de iure condito nel quadro normativo post abrogazione, senza necessità di interventi del legislatore o della Corte costituzionale? La questione sembra massimamente opinabile, ma ritengo che non manchino argomenti per sostenere la tesi positiva.

Sgombriamo subito il campo da un possibile equivoco. La Corte costituzionale, con i propri poteri, può legittimamente spingersi là dove l’interprete non arriva; nonostante questo, la scelta di integrare nel dispositivo un rinvio alla l. 219 ha comunque sollevato critiche per un possibile sconfinamento nell’area riservata al legislatore (di cui inizialmente aveva detto di voler attendere l’intervento).

Non credo tuttavia che affermare l’applicabilità della procedura in questione ai casi di morte medicalmente assistita implichi necessariamente un’attività creativa: significa piuttosto valorizzare, tramite interpretazione sistematica, l’intrinseca vocazione espansiva della l. 219, come legge in grado di disciplinare in generale le modalità di manifestazione del consenso – almeno – in tutti i rapporti medico-paziente o che involgono comunque trattamenti a contenuto medico-sanitario (in senso lato).

Si potrebbe obiettare che nell’assetto normativo prefigurato dal quesito referendario la liceità del fatto non è necessariamente collegata a un contesto sanitario, neanche per le modalità di realizzazione. Ma a questa osservazione – che pare la più insidiosa – può replicarsi che l’autenticità del volere, rispetto a una scelta «estrema e irreparabile» come quella di morire, esige sempre un accertamento medico[21].

D’altra parte, l’introduzione di un momento “medicalizzato” nella formazione e nella manifestazione della volontà varrebbe ad attenuare, se non a eliminare, nei fatti, il disagio avvertito trasversalmente (anche dai promotori, visto l’obiettivo dichiarato di un’abrogazione circoscritta alle ipotesi già eccettuate dall’art. 580) di fronte al rischio di abusi legati a un’espansione incontrollata dei casi di volontario sacrificio della vita[22].

Dubbi semmai possono sorgere su profili di merito, perché, a ben vedere, la l. 219 detta in punto di procedura una disciplina minimale, articolata in un numero limitato di passaggi. Basta mettere a confronto i pochi commi che la compongono con i numerosi e dettagliati articoli della recente legge spagnola che regola l’eutanasia attiva in tutte le sue forme[23]: ad esempio, non è prevista la necessità di reiterare il consenso in più occasioni a distanza di tempo l’una dall’altra, né la pluralità di colloqui, né la consultazione di medici terzi.

Ma queste, più che garanzie minime, potrebbero considerarsi opzioni regolatorie di secondo livello, che spetterà al Parlamento modulare nell’esercizio della sua discrezionalità politica.

Certo è che – tra tutti – a ritenere inadeguata la procedura di cui alla l. 219 difficilmente potrà essere la Corte costituzionale, che già vi ha fatto ricorso per i casi di aiuto al suicidio, rilevando che le condizioni a cui la legge permette alla persona di porre termine alla propria vita non sono incompatibili con l’esigenza di proteggere i più vulnerabili[24].

È vero che nella sentenza sull’art. 580, forse consapevole di alcune lacune, la Corte in effetti ha integrato la procedura con un ulteriore passaggio – la richiesta di un parere al comitato etico territoriale. Anche questa obiezione non sembra definitiva: le perplessità sollevate in dottrina[25] circa la coerenza tra le competenze di tale organo e il compito assegnatogli possono far dubitare che si tratti di una tappa costituzionalmente necessaria in un’ottica di tutela del diritto alla vita.

 

10. Le considerazioni svolte lasciano impregiudicata la questione se l’estensione in via interpretativa delle regole ex l. n. 219/2017, oltre a salvare l’ammissibilità del referendum, sia altresì sufficiente per rendere la disciplina di risulta autoapplicativa.

L’interrogativo investe un ordine di problemi – solo in parte penalistici – diverso da quello in esame, per i quali risulterà decisiva la prova della prassi.

In questa sede ci si può limitare a segnalare che, finché continuerà a mancare un quadro legislativo compiuto, la stessa causa di non punibilità elaborata dalla Corte costituzionale è destinata, per prima, a incontrare difficoltà operative (come mostra tristemente il recente caso di Mario di Ancona[26]).

 

 

[1] Cfr. T. Padovani, Riflessioni penalistiche circa l’ammissibilità del referendum sull’art. 579 c.p., testo della relazione al Seminario preventivo ferrarese “Amicus curiae” del 26 novembre 2021 (in corso di pubblicazione negli atti del convegno), p. 1-3.

[2] Cfr. l’intervista di A. Pugiotto, in Giustizia insieme, 29 settembre 2021, e in particolare la risposta alla domanda n. 4.

[3] Per la suggestione dell’auto-rimessione, si veda l’intervento di V. Sciarabba in occasione del Seminario preventivo ferrarese “Amicus curiae” del 26 novembre 2021 (registrazione video disponibile su YouTube).

[4] Corte cost., ord. 11 febbraio 2021, n. 18, Pres. Coraggio, red. Amato.

[5] Cfr. R. Romboli, Riflessioni costituzionalistiche circa l’ammissibilità del referendum sull’art. 579 c.p., testo provvisorio della relazione al Seminario preventivo ferrarese “Amicus curiae” del 26 novembre 2021 (in corso di pubblicazione negli atti del convegno), p. 13-14.

[6] Corte cost., ord. 207/2018, § 6 del “considerato in diritto”.

[7] Cfr. T. Padovani, Riflessioni penalistiche circa l’ammissibilità del referendum sull’art. 579 c.p., cit., p. 6.

[8] Corte cost., ord. 207/2018, § 6 del “considerato in diritto”.

[9] Corte cost., ord. 207/2018, § 8 del “considerato in diritto”.

[10] Cfr. Corte cost., ord. 207/2018, § 5 del “considerato in diritto”.

[11] Cfr. Corte cost., ord. 207/2018, § 6 del “considerato in diritto”.

[12] Cfr. G. Marinucci – E. Dolcini, Corso di diritto penale, III ed., Giuffrè, 2001, p. 512.

[13] F. Viganò, L’arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali, in Studi in onore di Mario Romano, Jovene, 2011, vol. IV, p. 2654.

[16] Espressamente in tal senso a partire da Corte EDU, sent. 28 ottobre 1998, Osman c. Regno Unito, § 115.

[17] Per una panoramica di sintesi cfr. S. Zirulia, sub Art. 2 Cedu, in G. Ubertis – F. Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, Giappichelli, Torino 2016, p. 52-53.

[18] Per la tesi secondo cui i requisiti oggettivi di cui alle lett. a), b) e – soprattutto – c) sarebbero giustificabili in quanto garanzie della possibilità di concreto accertamento della autenticità del volere, cfr. però S. Canestrari, Ferite dell’anima e corpi prigionieri, Bononia University Press, 2021, p. 33 ss.

[19] Cfr. ancora T. Padovani, Riflessioni penalistiche circa l’ammissibilità del referendum sull’art. 579 c.p., cit., p. 9.

[20] Sia consentito a rinviare a F. Lazzeri, sub art. 579, in E. Dolcini – G.L. Gatta (diretto da), Codice penale commentato, V ed., Wolters Kluwer, 2021, per i requisiti normativi e giurisprudenziali del consenso rilevante ex art. 579 (p. 910 ss.) e per la casistica più significativa di legittimità e di merito (p. 934 ss.).

[21] Auspica, in materia di fine vita, una procedura di verifica dell’autodeterminazione che si basi «sull’assistenza, sul supporto, sulla relazione, che coinvolge anche il medico, ma non solo», a prescindere dall’esistenza di una patologia, R. Bartoli, Le problematiche del fine vita tra orientamenti della Corte costituzionale e proposta di referendum abrogativo, in questa Rivista, 11/2021, p. 21-22.

[22] Pur nell’ambito di una posizione favorevole all’ammissibilità del referendum, si vedano alcuni esempi estremi ipotizzati da M. Donini, Il senso “ammissibile” del quesito referendario sull’aiuto a morire, in questa Rivista, 30 novembre 2021, p. 2.

[23] Una possibile guida alla lettura in F. Lazzeri, Dum Romae (non) consulitur, la Spagna approva una legge che disciplina l’eutanasia attiva, in questa Rivista, 22 marzo 2021.

[24] Così può leggersi il penultimo capoverso del § 9 dell’ord. 207/2018.

[25] Cfr. C. Cupelli, Il caso Cappato e i nuovi confini di liceità dell’agevolazione al suicidio. Dalla ‘doppia pronuncia’ della Corte costituzionale alla sentenza di assoluzione della Corte di assise di Milano, in Cass. pen., 4/2020, p. 1444.

[26] Sulla vicenda si veda la scheda informativa di N. Rossi, I giudici di Ancona sul fine vita nel caso “Mario”, in Questione giustizia, 24 novembre 2021.