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27 Novembre 2019


Note critiche sui disegni di legge per l'autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU

Appunti per l'audizione del 26 novembre 2019 innanzi alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati



N.d.r.: Pubblichiamo di seguito il testo scritto predisposto dal Prof. Massimo Luciani per l'audizione informale svolta il 26 novembre 2019 nell'ambito dell'esame in sede referente dei progetti di legge C. 1124 Governo e C. 35 Schullian recanti ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 15, recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 24 giugno 2013, e del Protocollo n. 16, recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 2 ottobre 2013. L'opinione del Prof. Luciani, autorevole costituzionalista, è contraria all'autorizzazione alla ratifica dei due Protocolli e si segnala, anche per i penalisti, per le riflessioni sulle possibili future dinamiche del 'dialogo' tra le corti nazionali e la Corte di Strasburgo. In particolare, infatti, il Protocollo n. 16, prevede la possibilità per le giurisdizioni superiori (compresa la Corte di cassazione) di chiedere pareri alla Corte EDU sull'interpretazione della Convenzione. Per tale via, secondo il Prof. Luciani, si introdurrebbe sostanzialmente un rinvio pregiudiziale alla Corte di Strasburgo, con una serie di risvolti problematici (non sarebbero più solo gli individui, ma anche i giudici a ricorrere alla Corte EDU). Le questioni sollevate interessano il rapporto tra legge e giudice, l'autonomia della giurisdizione nazionale e, in ultima analisi, nella prospettiva del penalista, il tema delle cessioni di sovranità penale, messo da ultimo in evidenza in un recente libro del Prof. Alessandro Bernardi ("La sovranità penale tra Stato e Consiglio d'Europa", Jovene, 2019). L'auspicio è che le riflessioni del Prof. Luciani, ricche di spunti, possano dar vita a un dibattito che la nostra Rivista sarà lieta di ospitare (Gian Luigi Gatta). 

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Premessa. - Occorrono, preliminarmente, due - pur rapide - premesse di sistema.

La prima. I diritti vivono, oggi, un tempo difficile. Difficile e per più profili contraddittorio. Sono, i nostri, da un lato, anni di disordinate spinte al riconoscimento dei più disparati diritti, entro concezioni dei rapporti sociali che non distinguono fra libertà e anarchia: basta pensare all’idea che il web debba essere un luogo (meglio: un non-luogo) sottratto a qualunque norma imperativa, nel quale tutto può essere detto e comunicato, fosse pure in violazione del diritto d’autore, della verità delle informazioni o della dignità delle persone. Dall’altro, sono anni nei quali l’autoritarismo rialza la testa, nella forma del fondamentalismo politico e religioso o addirittura in quella del rigurgito neofascista o neonazista, in ispregio, da noi, di una Costituzione che fa proprio dell’antifascismo il minimo comun denominatore delle forze che la sorreggono[1]. Sono, poi, anni nei quali a un’attenzione marcata per i diritti di libertà civile fa riscontro un netto disinteresse per quelli sociali, stretti fra crisi finanziaria e ristrutturazione selvaggia del mondo del lavoro. Sono anni, insomma, i nostri, nei quali la complessità del quadro imporrebbe nel mondo dei diritti interventi coerenti, meditati, efficaci. Quali, lo dico subito, non sono quelli qui in discussione.

La seconda. Quando si parla di diritti si parla di potere. E si parla di potere sia perché i diritti stessi sono poteri esercitati nei confronti degli altri componenti della società, sia perché è manifestazione di potere la decisione sui diritti. Non solo, ovviamente, quando a decidere è il costituente o il legislatore, ma anche (e forse soprattutto, considerato che una politica sempre più timida s’è ridotta delegargli le scelte che le spetterebbero) quando a decidere è il giudice. Ora, solo un ingenuo potrebbe non intendere che attorno ai due Protocolli di cui stiamo discutendo s’agita proprio una questione di potere. Il c.d. “dialogo fra le Corti” è un fenomeno reale e anche positivo, ma si devono ricordare due cose: a) che attraverso questo dialogo non si risolvono tutti i problemi dei rapporti fra i diritti e fra i diritti e gli interessi sociali, che dovrebbero essere governati, anzitutto, dai legislatori dei vari Stati, se fossero consapevoli dell’importanza del loro ruolo e non delegassero al giudiziario l’assunzione di scelte fondamentali[2]; b) che ognuna delle Corti “dialoganti” cerca di assumere, nel confronto con le altre, il posizionamento tatticamente e strategicamente più vantaggioso, difendendo il proprio potere a scapito delle altre.

Da questo (essenziale) punto di vista, non possono essere dimenticati i (non frequentissimi, ma non per questo meno significativi) casi di vero e proprio scontro fra Corti, anche se - magari - composto all’ultimo momento. Come non citare, a tal proposito, la questione della responsabilità degli Stati per violazione dei diritti umani, che ha opposto la Corte internazionale di giustizia e la nostra Corte costituzionale[3]? O il famosissimo “caso Taricco”, in cui sempre la nostra Corte costituzionale si è scontrata con la Corte di giustizia, con la vittoria (fortunatamente) della prima[4]? O, ancora (e qui interessa particolarmente), il parere negativo della Corte di giustizia sull’adesione dell’Unione europea alla CEDU (parere n. 2/2013, pubbl. il 18 dicembre 2014), la cui motivazione è trasparentemente cucita attorno all’esigenza (per lei) primaria della Corte di Lussemburgo di assicurare la propria posizione nei confronti della Corte di Strasburgo?

Ebbene: a me sembra che, ancorché la sua genesi sia risalente[5], oggi il Protocollo 16 costituisca una sorta di risposta della Corte EDU alla Corte di giustizia.

Ma veniamo, partitamente, ai due Protocolli, che - ribadisco - non mi sembrano affatto all’altezza del delicato momento che oggi attraversa il mondo dei diritti. Si tratta di questioni assai complesse, ma, nel rispetto della logica delle audizioni parlamentari, cercherò di sintetizzare al massimo.

 

1. Anzitutto, il Protocollo 15. Si tratta, indubbiamente, di quello che, in questa guerra di posizione, è considerato di minore interesse, come attesta la stessa previsione relativa alla sua entrata in vigore. Mentre il Protocollo 16, ai sensi del suo art. 8, entra in vigore “il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dalla data in cui dieci Alte Parti contraenti della Convenzione avranno espresso il loro consenso a essere vincolate dal Protocollo, conformemente alle disposizioni dell’articolo 7”, il Protocollo 15 entra in vigore “il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dalla data in cui tutte le Alte Parti contraenti della Convenzione avranno espresso il loro consenso a essere vincolate dal Protocollo, conformemente alle disposizioni dell’articolo 6” (art. 7). Insomma: il Protocollo 16 è considerato così essenziale che bastano solo dieci strumenti di ratifica, mentre per il Protocollo 15 si è ritenuto di attendere il consenso unanime degli Stati del Consiglio d’Europa.

Nonostante questo, anche il Protocollo 15 lascia assai perplessi ed è bene, a mio avviso, che si soprassieda alla sua ratifica.

1.1. Le sue singole previsioni non sono di particolare momento.

Qualche dubbio, invero, lo suscita l’art. 2, relativo all’età dei giudici CEDU, perché migliora le attuali disposizioni sull’età massima, ma non lo fa con la dovuta decisione (eliminando, cioè, qualunque limite, come del resto accade negli Stati Uniti).

Dubbi vi sono anche sull’art. 4, che riduce a soli quattro mesi il termine di proposizione del ricorso alla Corte di Strasburgo. Come hanno osservato esattamente le Camere penali nella loro audizione, si tratta di un termine assai breve, specie a fronte dell’esasperato formalismo della Corte EDU in sede di vaglio preliminare di ammissibilità.

Ancor più forti, infine, sono i dubbi che riguardano l’art. 3, a tenor del quale “All’articolo 30 della Convenzione, le parole «a meno che una delle parti non vi si opponga» sono soppresse”. La conseguenza è che la rimessione alla Grande Camera, oggi possibile solo nemine contradicente, sarebbe rimessa alla decisione della Camera semplice, la quale - così - disporrebbe del diritto delle parti al doppio grado di giurisdizione. Non propriamente un bell’esempio di garantismo processuale in una normativa sui diritti umani.

1.2. Il vero nodo problematico, però, sta all’art. 1, laddove si dispone che “Alla fine del preambolo della Convenzione è aggiunto un nuovo considerando”, il cui contenuto è il seguente: spetta in primo luogo alle Alte Parti contraenti, conformemente al principio di sussidiarietà, garantire il rispetto dei diritti e delle libertà definiti nella presente Convenzione e nei suoi protocolli e che, nel fare ciò, esse godono di un margine di apprezzamento, sotto il controllo della Corte europea dei Diritti dell’Uomo istituita dalla presente Convenzione. Non sfuggirà a nessuno l’ambiguità del testo, che non a caso ha dato origine a interpretazioni addirittura divergenti, anche nelle audizioni innanzi codesta Commissione.

Così, nell’audizione del Dott. Sabato si sostiene che “i due protocolli sono inseriti in un unico disegno riformatore, tendente ad accrescere (e non certo a diminuire) il ruolo delle autorità nazionali, in un’ottica di sussidiarietà rispetto al ruolo della Corte”. Analogamente, nell’audizione dell’Avv. Lana si lamenta una “eccessiva insistenza sull’importanza del principio di sussidiarietà e della dottrina del margine di apprezzamento, con il rischio di una restrizione del ruolo della Corte EDU”. Parimenti, in un recente saggio del Pres. Lipari, si afferma che il nuovo Preambolo introdotto dal Protocollo n. 15 intenderebbe “consolidare l’idea di un’Europa di Stati, che vuole rispettare le inalienabili peculiarità nazionali”[6].

Al contrario, nell’audizione del Dott. Farri si afferma che quella formula legittimerebbe una “giurisprudenza maggiormente penetrante”.

A mio avviso, la lettura più corretta è la seconda, per almeno due motivi. Il primo è che il principio di sussidiarietà, come ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, è - diciamo così - a doppio taglio, nel senso che non si limita ad attrarre le competenze decisionali verso il basso e la periferia, ma le attira anche verso l’alto e il centro tutte le volte in cui ciò è richiesto dalle esigenze di miglior funzionamento del sistema. Ebbene: siccome a decidere del concreto “verso” della sussidiarietà è chi sta in alto e al centro, va da sé che nel caso della CEDU a decidere è la stessa Corte di Strasburgo. Il secondo motivo è che l’assoggettamento al “controllo” della Corte EDU sterilizza, ovviamente, qualsivoglia tentativo di riconoscere agli Stati membri un maggiore margine di manovra, perché sempre alla Corte, alla fin fine, ritorna l’apprezzamento finale. Questa conclusione, si badi, vale sia che si prenda a riferimento la traduzione italiana, sua che si consideri uno dei due originali del Protocollo. Quello francese, infatti, recita “sous le contrôle de la Cour européenne des Droits de l’Homme [...]” e quello inglese “subject to the supervisory jurisdiction of the European Court of Human Rights [...]”, con formula che forse va addirittura più chiaramente nel senso ora indicato.

 

2. Preoccupazioni ben maggiori desta, però, il Protocollo 16.

La sua grande novità è l’istituto introdotto dall’art. 1, che consente alle “alte giurisdizioni” degli Stati membri di chiedere “pareri consultivi” alla Corte EDU su “questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli” (comma 1), anche se “solo nell’ambito di una causa pendente dinanzi ad ess[e]” (comma 2). Qui molte cose non vanno. Proviamo a mettere in evidenza, in sintesi estrema, i principali punti critici.

2.1.  Molti hanno osservato che il nuovo procedimento ha diversi punti in comune con il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e, del resto, in quella chiave esso era stato sin dall’inizio concepito[7]. Altri, invece, hanno obiettato che così non sarebbe, sia perché il parere della Corte EDU non avrebbe effetti vincolanti[8], sia perché il giudice che lo chiede “può”, ma non “deve” sospendere il giudizio pendente innanzi a lui. In realtà, al di là di questi profili formali, la natura sostanziale dell’istituto è esattamente quella del rinvio pregiudiziale[9].

In primo luogo, è addirittura ovvio che, almeno nel giudizio “principale”, il parere avrà effetti del tutto vincolanti, essendo inimmaginabile che il giudice italiano si discosti dall’avviso di un’altra istanza giurisdizionale cui egli stesso s’è rivolto per avere chiarimenti interpretativi[10]. La bizzarra formula (frutto di una traduzione pedestre dell’originale francese “avis consultatif”)[11] “parere consultivo” (come se esistessero pareri che consultivi non sono) nasconde, al fondo, un vero e proprio vincolo. Del resto, il Rapporto esplicativo del Protocollo 16 afferma che “laddove un ricorso venga proposto [dalla parte del giudizio nel cui corso il parere è stato richiesto] successivamente all’emissione di un parere consultivo della Corte che sia stato effettivamente osservato, si ritiene che tali elementi del ricorso che riguardano le questioni affrontate nel parere consultivo debbano essere dichiarati irricevibili o debbano essere stralciati”. Non propriamente un effetto tipico di un parere non vincolante, sarebbe da dire.

In secondo luogo, il giudizio “principale” potrebbe pure non essere formalmente sospeso, ma - anche qui - è inimmaginabile che il giudice italiano lo concluda prima di avere l’avviso della Corte EDU, altrimenti avrebbe compiuto un atto processuale inutile, danneggiando le parti e il loro diritto (riconosciuto dall’art. 111, comma 2, Cost.) alla ragionevole durata del processo (probabilmente con sua conseguente responsabilità ai sensi dell’art. 3 della l. 13 aprile 1988, n. 117, se non dello stesso art. 2, per come modif. dalla l. 27 febbraio 2015, n. 18). La facoltà di sospensione è dunque, in realtà, un obbligo. E a nessuno sfuggiranno gli effetti perversi che in campo penale potrebbe avere un allungamento dei tempi processuali[12] accoppiato alla previsione dell’art. 159, comma 2, cod. pen., improvvidamente sostituto dall’art. 1, comma 1, lett. e), n. 1), della l. 9 gennaio 2019, n. 3[13], a tenor del quale “Il corso della prescrizione rimane [...] sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna”.

In terzo luogo, se il giudice comune chiede l’intervento della Corte EDU è perché nutre un dubbio sulla portata della Convenzione, dubbio che - evidentemente - deve essere rilevante nel giudizio principale. Deve pertanto sussistere proprio quello stesso nesso di pregiudizialità che è tipico della questione di costituzionalità o della questione ex art. 267 TFUE, il che dimostra che di vera questione pregiudiziale si tratta. Non solo. Lo stesso art. 1, comma 2, del Protocollo 16 stabilisce che “La giurisdizione che presenta la domanda può chiedere un parere consultivo solo nell’ambito di una causa pendente dinanzi ad essa” e questo non è nulla di più e nulla di meno che il nesso di rilevanza/pregiudizialità. Del resto, il Rapporto esplicativo al Protocollo 16, confessoriamente, afferma che “la procedura non è pensata [...] per consentire una revisione in astratto della legislazione che non deve essere applicata nella causa pendente dinanzi a essa [cioè all’autorità giudiziaria nazionale]”. E la Corte EDU, nella Opinion of the Court on Draft Protocol No. 16 to the Convention extending its competence to give advisory opinions on the interpretation of the Convention, adottata il 6 maggio 2013, afferma a chiare lettere che nella nuova procedura “there should not be an abstract review of legislation”. Ancora. Il successivo comma 3 dispone che “La giurisdizione che presenta la domanda deve motivare la richiesta di parere e produrre gli elementi pertinenti inerenti al contesto giuridico e fattuale della causa pendente”, ciò che ulteriormente dimostra che la procedura non è ammessa per soddisfare una mera curiosità del giudice nazionale e che il contesto di fatto va esposto anche allo scopo di consentire la verifica del ricordato nesso di rilevanza/pregiudizialità.

2.2. Introdurre questa nuova pregiudiziale ha gravi conseguenze sul piano del diritto interno.

Anzitutto, la Corte costituzionale, con giurisprudenza ormai saldissima, ha chiarito che quelle di violazione della Convenzione da parte della legge italiana sono classiche questioni di costituzionalità, traducendosi la violazione della Convenzione (fonte “interposta”) in violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. Custode della costituzionalità delle leggi, però, è proprio e solo la Corte costituzionale. Rivolgendosi alla Corte EDU prima che alla Corte costituzionale, dunque, il giudice nazionale scavalca quest’ultima. La cosa è particolarmente preoccupante, se solo si pensa che la Corte italiana ha avuto cura di precisare che, quando ci sono dubbi di violazione della Costituzione, addirittura la pregiudiziale eurounitaria deve cedere a quella costituzionale, come chiarito dalla sent. n. 269 del 2017, ma ribadito (sia pure con qualche significativo aggiustamento, dalle sentt. nn. 20 e 63 del 2019 e dall’ord. n. 117 del 2019)[14].

Conseguenze analoghe si possono verificare anche nei rapporti con la Corte di giustizia, almeno tutte le volte in cui il giudice italiano è chiamato a decidere questioni nelle quali sono in giuoco diritti protetti (sia pure con formulazioni non del tutto coincidenti) dalla Convenzione e dalla Carta di Nizza, oggi a pieno titolo diritto primario dell’Unione[15]. Anche qui, è evidente che l’adempimento dell’obbligazione (che grava proprio sulle giurisdizioni superiori!) di adire in via pregiudiziale la Corte di giustizia sarebbe ostacolato dalla decisione di richiedere il parere della Corte EDU.

Non basta. L’intervento della Corte EDU incide sul libero convincimento del giudice, garantito da una nostra risalente tradizione e formalizzato all’art. 101, comma 2, Cost. Né si può obiettare che lo stesso avverrebbe quando viene sollecitato l’intervento della Corte di giustizia in sede di procedimento ex art. 267 TFUE, perché in quel caso la cosa si spiega in ragione del principio di separazione degli ordinamenti (italiano da un lato, eurounitario dall’altro), che giustifica la pronuncia pregiudiziale di un giudice “esterno”, laddove qui non v’è alcuna separazione. La Convenzione EDU è stata immessa nel nostro ordinamento, infatti, da una legge italiana (l. 4 agosto 1955, n. 848), sicché deve essere interpretata in primis dallo stesso giudice nazionale.

Ancora. Non si potrebbe obiettare che la CEDU deve interpretarsi nel senso fatto proprio dalla Corte di Strasburgo, perché la Corte costituzionale, proprio movendo dalla premessa dell’inesistenza di due ordinamenti separati, ha affermato che l’interpretazione della Corte EDU va seguita solo quando si è cristallizzata in indirizzi “consolidati” (sent. n. 49 del 2015), che qui, per definizione, mancherebbero. Non intendo, invero, l’osservazione formulata nell’audizione del Dott. Sabato, laddove si afferma che “il Parere dovrà essere espressione di una giurisprudenza consolidata”. Se così fosse, infatti, non si capisce cosa mai dovrebbe spingere il giudice nazionale a chiedere il parere, rallentando il giudizio innanzi a lui pendente, se non la sua colpevole ignoranza di tale “giurisprudenza consolidata”[16]. In realtà, è proprio in assenza di “giurisprudenza consolidata” che avrebbe senso richiedere i pareri.

Infine, non è chi non veda come i tempi del giudizio “principale” si allunghino a causa della richiesta di parere. Se, poi, il parere stesso fosse nel senso di ingenerare un dubbio di conformità della legge italiana alla Convenzione, il giudice dovrebbe sospendere nuovamente il giudizio, ma stavolta per adire (nei termini già indicati) la Corte costituzionale. E certo non può convincere l’osservazione che, nella prima occasione in cui è stata sollecitata a rendere un parere (dalla Corte di cassazione francese), la Corte di Strasburgo abbia risposto in meno di sei mesi[17]. Troppo facile replicare che, se il meccanismo dovesse prendere piede, fatalmente si allungherebbero a dismisura i tempi o a dismisura si estenderebbe la discrezionalità nella case selection (come già accaduto pel resto delle incombenze della Corte, che ha fatto fronte all’enorme contenzioso solo al prezzo di una scelta a dir poco sommaria dei casi da giudicare).

2.3. Il Protocollo 16 lascia le Parti contraenti libere di indicare le alte giurisdizioni legittimate a chiedere il parere della Corte EDU. La legge di conversione qui in discussione lo fa all’art. 3, comma 1, indicando la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato, la Corte dei conti e il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana. Non menziona la Corte costituzionale, contemplata, invece, dal successivo comma 3, a tenor del quale La Corte costituzionale può provvedere con proprie disposizioni all’applicazione del Protocollo di cui al comma 1.

Orbene, è assai dubbio che, in questo modo, sia rispettato l’art. 10 del Protocollo, a tenor del quale “Ciascuna Alta Parte contraente della Convenzione indica, al momento della firma o del deposito del proprio strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione, per mezzo di una dichiarazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, quali autorità giudiziarie nomina ai fini dell’articolo 1, paragrafo 1, del presente Protocollo. Tale dichiarazione può essere modificata in qualsiasi momento nello stesso modo”. Se la Corte costituzionale[18] non è indicata direttamente e con le formalità così stabilite quale autorità legittimata a richiedere il parere, è a mio avviso evidente che le sue successive “disposizioni” non sono affatto idonee a legittimarla ex post[19].

Si aggiunga, poi, che la Corte dei conti è menzionata in modo indistinto, con la conseguenza che qualunque sua articolazione, anche regionale, dovrebbe ritenersi legittimata, con evidente disequilibrio rispetto al trattamento della giurisdizione amministrativa[20].

2.4. La stessa ragionevolezza “interna” del Protocollo 16 deve essere messa in dubbio. Non convince, infatti, l’idea che il nuovo istituto ivi previsto abbia anche una funzione deflattiva dell’enorme contenzioso pendente sulle spalle della Corte EDU. Trattandosi di una nuova via di accesso, infatti, si verificherà esattamente l’opposto, cioè che, oltre ai singoli (che lamentano la violazione di un loro diritto), anche i giudici potranno rivolgersi direttamente a Strasburgo. E allora delle due l’una: o la Corte metterà molto tempo a pronunciarsi, con ulteriore pregiudizio del principio della ragionevole durata del processo, o farà rapidamente e male, magari estendendo alle richieste di parere la medesima selezione sommaria dei casi che già conosciamo in materia di ricorsi (d’altro canto, lo stesso Rapporto esplicativo al Protocollo 16 afferma che “la Corte ha un margine di discrezionalità nell’accettare o meno una richiesta”, sebbene debba motivare il diniego)[21].

Non solo. Poiché sempre il Rapporto esplicativo afferma che le richieste di parere dovrebbero avere “alta priorità”, questo si risolverà in un ulteriore pregiudizio per i procedimenti che quella priorità alta non l’hanno, cioè per i ricorsi individuali.

2.5. Ancora. L’art. 3 dispone che “Il Presidente della Corte può, nell’interesse di una buona amministrazione della giustizia, invitare anche altre Alte Parti contraenti o persone a presentare osservazioni per iscritto o a prendere parte alle udienze”. Anche qui si possono nutrire perplessità.

Se è vero - come a me sembra evidente - che siamo di fronte a un rinvio pregiudiziale mascherato, almeno le parti del giudizio “principale” dovrebbero essere presenti innanzi la Corte EDU, visto che l’effetto sostanzialmente vincolante del suo parere potrebbe seriamente pregiudicarle, se contrario alle loro aspettative. Lasciare la compiutezza del contraddittorio all’apprezzamento discrezionale del Presidente della Corte non sembra affatto una previsione garantista.

2.6. Un ultimo punto. V’è da chiedersi quanto sia compatibile con il principio della precostituzione del giudice (quello che da noi si chiama principio del giudice naturale) la previsione dell’art. 2, comma 3, a tenor del quale, nel caso di richiesta di parere, “Il collegio e la Grande Camera, indicati ai paragrafi precedenti, comprendono di pieno diritto il giudice eletto per l’Alta Parte contraente cui appartiene l’autorità giudiziaria che ha richiesto il parere. Se tale giudice è assente o non è in grado di partecipare alla riunione, una persona scelta dal Presidente della Corte da una lista previamente sottoposta a tal Parte sarà presente in qualità di giudice”. Non è forse, questo, un caso in cui l’identità del giudice è rimessa, in concreto, al... giudice stesso (cioè al Presidente del collegio)? Né si potrebbe obiettare che si tratta di un meccanismo pressoché identico a quello dell’art. 26, par. 4, della stessa Convenzione EDU, perché - non paia lesa maestà - già quel meccanismo lasciava e lascia assai perplessi.

 

3. Una breve notazione conclusiva.

Ho osservato, in premessa, che quelli di oggi non sono giorni felicissimi per i diritti delle persone. Non lo sono per ragioni politiche e sociali a tutti note, ma anche per ragioni culturali, anche per ragioni di cultura giuridica. Moltiplicare gli strumenti di tutela dei diritti non è sempre un bene, perché ogni istituto di tutela ha sempre un costo, non solo e non tanto economico, ma anche e proprio in termini di efficace e certa garanzia dei diritti. Da sempre sono convinto che in materia di protezione dei diritti l’ultima parola debba spettare alle Corti costituzionali nazionali, che applicano come paradigma testi costituzionali frutto di lotte politiche e di decisioni democratiche, non trattati internazionali frutto delle negoziazioni tra i governi. Sarei davvero molto cauto nell’ampliare il raggio di azione di pur utilissime Corti non nazionali, che si autointerpretano come “costituzionali” senza - però - esserlo (e invece, si badi, come ricorda il Rapporto esplicativo al Protocollo 16, il fine del nuovo istituto è, dall’inizio, quello “di promuovere il dialogo tra le autorità giudiziarie e di potenziare il ruolo «costituzionale» della Corte”).

Semmai, se si hanno a cuore i diritti e la Corte di Strasburgo (che, non si equivochi, è istituzione preziosa, da tutelare con fermezza), la via da percorrere sembra essere un’altra. In particolare, si dovrebbe agire per rendere più garantista il giudizio innanzi la Corte EDU, migliorando i tempi di decisione e la trasparenza dei processi di case selection. L’Italia, allora, potrebbe impegnarsi anzitutto per far sì che siano incrementate le ricorse (finanziarie e umane) da assicurare alla Corte, importanti per il buon funzionamento di qualunque organo giurisdizionale, ma addirittura essenziali quando la platea dei possibili “utenti” è così vasta.

Quando si afferma che “dietro la richiesta di parere consultivo potrebbero [...] innescarsi forme virtuose di cooperazione fra giudici che, tutte avvinte da un sistema di pesi e contrappesi, in definitiva, rendono tutti sovrani e tutti serventi verso la persona, le sue aspettative, i suoi bisogni”[22] si disegna un quadro idilliaco, che trascura il problema fondamentale di chi (e con quale legittimazione) si arroga il diritto di dire l’ultima parola. E quando si dice che “lo strumento delineato dal Protocollo n. 16 sembra diretto ad interpretare quelle esigenze, che oramai fanno parte della realtà giudiziaria quotidiana, relative all’equilibrio e al dialogo virtuoso tra Corti, nonché a realizzare un bilanciamento equo tra la necessità di ridurre il contenzioso Cedu e assicurare l’effettività della tutela dei diritti umani”[23], a me pare, si vede la doratura del nuovo istituto, ma non si scorge il peltro che c’è sotto.

Per questo, al di là d’ogni apprezzamento latamente politico della questione, che non mi compete, la mia personale opinione è nettamente contraria all’autorizzazione alla ratifica dei due Protocolli in discussione innanzi la Commissione, con riferimento particolare al Protocollo n. 16.

 

[1] Sulla questione, in particolare, A. Baldassarre, La costruzione del paradigma antifascista e la Costituzione repubblicana, in Problemi del socialismo, 1986, 10 sgg., nonché, se si consente, M. Luciani, Antifascismo e nascita della Costituzione, in Pol. dir., 1991, 183 sgg.

[2] L’ultimo caso, eclatante, è quello del suicidio assistito. La Corte costituzionale, dopo aver “messo in mora” il legislatore con l’ord. n. 207 del 2018, è dovuta intervenire con la sent. n. 242 del 2019, con la quale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

[3] Che, con la sent. n. 238 del 2014, ha imboccato una strada opposta a quella seguita dalla CIG.

[4] La lunga vicenda si è conclusa con la sent. Corte cost. n. 115 del 2018.

[5] V. una rapida ricostruzione in G. Centamore - B. Agostini, Protocollo XVI alla Convenzione europea dei diritti umani: osservazioni generali, in DPC, 2.

[6] M. Lipari, Il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n. 16 annesso alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU): il dialogo concreto tra le Corti e la nuova tutela dei diritti fondamentali davanti al giudice amministrativo, in Federalismi, n. 3/2019, 5.

[7] Così R. Conti, La richiesta di “parere consultivo” alla Corte europea delle Alte Corti introdotto dal Protocollo n. 16 annesso alla CEDU e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Prove d’orchestra per una nomofilachia europea, in ConsultaOnline, 3

[8] Così, ad es., G. Centamore - B. Agostini, Protocollo XVI, cit., 6, quali, però, non possono fare a meno di riconoscere che, almeno “di fatto” il parere avrà proprio gli effetti vincolanti formalmente negatigli (ivi, 12).

[9] I più accorti operatori del diritto lo riconoscono senza infingimenti. V., in particolare, M. Lipari, Il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n. 16, cit., 11, 24, etc.

[10] Analogamente l’audizione del Prof. Vari e quella della Prof.ssa Cerrina Feroni (v., ora, G. Cerrina Feroni, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 recanti emendamenti alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Federalismi, n. 5/2019, 7).

[11] La versione inglese parla di “advisory opinions”.

[12] Già lamentato da molti. V. ad es., G. Cerrina Feroni, Il disegno di legge, cit., 4.

[13] Peraltro con applicazione differita, come è noto, al 1° gennaio 2020.

[14] M. Lipari, Il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n. 16, cit., 42, in prima battuta, cerca di risolvere il problema sostenendo che il giudice comune dovrebbe rivolgersi alla Corte EDU “soltanto nei casi in cui l’incertezza riguardi la portata e il significato della normativa e della giurisprudenza della CEDU”, ma questa soluzione costituisce, in realtà, il problema, perché così facendo il giudice comune interferisce nella libertà interpretativa della Corte costituzionale, che - come si dice nel testo - s’è riservata l’interpretazione della fonte interposta (quella convenzionale, per come recepita nel nostro ordinamento) almeno in difetto di una “giurisprudenza consolidata” di Strasburgo.

Più convincente, a mio parere, la precisazione successiva, secondo la quale il deferimento alla CEDU dovrebbe avvenire unicamente su “questioni che riguardino la sola portata interpretativa delle norme convenzionali, senza coinvolgere questioni di contrasto con disposizioni legislative interne” (ivi, 43). Inutile dire, però, che una netta linea di demarcazione fra le due ipotesi sarà assai difficile, in pratica, da tracciare.

[15] Analoga osservazione in R. Conti, La richiesta di “parere consultivo”, cit., 7; M. Lipari, Il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n. 16, cit., 44.

[16] Altra questione è cosa, poi, per “giurisprudenza consolidata” possa intendersi. Sul punto, mi permetto di rinviare agli interrogativi posti in M. Luciani, Interpretazione conforme a costituzione, in Enc. dir. - Annali, Vol. IX, Milano, Giuffrè, 2016, 407.

[17] Così l’audizione del Dott. Sabato.

[18] Si noti che nell’audizione delle Camere penali è stato sostenuto che, a tutto concedere, proprio e solo alla Corte costituzionale si sarebbe dovuta riconoscere la qualificazione di autorità italiana legittimata a richiedere il parere.

[19] Analogo rilievo, se rettamente interpreto, nell’audizione del Prof. Cannone. V. anche M. Lipari, Il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n. 16, cit., 24.

[20] Il problema è stato puntualmente rilevato da M. Lipari, Il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n. 16, cit., 19.

[21] Nella già citata Opinion sul Protocollo 16, la Corte EDU ha già manifestato un evidente fastidio nei confronti di tale previsione, affermando che “This goes against the opinion expressed by the Court in its reflection paper. The Court expressed a preference for issuing general guidelines on the scope and functioning of its advisory jurisdiction, rather than being obliged to give reasons for every refusal. The Court however accepts that it may be useful to give reasons. Such an approach would enhance the aim of creating a constructive dialogue with the national courts. The Court envisages that such reasons will normally not be extensive”. Insomma: obtorto collo qualche motivazione va data, ma che non sia troppo estesa, altrimenti ne va della discrezionalità della Corte...

[22] R. Conti, La richiesta di “parere consultivo”, cit., 26.

[23] D. Martire, Il Protocollo n. 16 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali entra finalmente in vigore, in Diritti comparati, 16 aprile 2018.