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24 Luglio 2020


Osservatorio Corte EDU: giugno 2020

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Francesca Vitarelli (artt. 2, 4, 7 ,10 e 13 Cedu, art. 4 Prot. 7 Cedu) e Michele Pisati (artt. 6 e 8 Cedu, art. 1 Prot. Add. Cedu).

 

In giugno abbiamo selezionato pronunce relative a: suicidio di detenuto e violazione degli obblighi positivi di tutela della vita (art. 2 Cedu); nozioni di schiavitù, servitù e lavoro forzato, a partire da un caso di prostituzione forzata (art. 4 Cedu); ragionevole durata del procedimento penale (art. 6 Cedu); prevedibilità della condanna sulla base del precedente giurisprudenziale (art. 7 Cedu); diritto al rispetto della vita privata e acquisizione e conservazione di dati identificativi (art. 8 Cedu); invito al boicottaggio come manifestazione di pensiero di protesta (art. 10 Cedu); misure preventive di "blocco" di siti web (artt. 10 e 13 Cedu);  natura (non) penale della sanzione della revoca della cittadinanza a seguito di condanna per terrorismo (art. 4 Prot. 7 Cedu).

 

ART. 2 CEDU

C. eur. dir. uomo, I Sezione riunita in Comitato, 4 giugno 2020, Citraro e Molino c. Italia

Diritto alla vita – suicidio di un detenuto vulnerabile – obblighi positivi – mancata assunzione delle misure atte a prevenire il rischio reale e imminente di suicidio – violazione (profilo sostanziale)

Necessità di indagini effettive – obblighi positivi – adeguata attività delle autorità competenti – non violazione (profilo procedurale)

Il caso riguarda il suicidio di A. C., figlio dei ricorrenti affetto da disturbi psichici, avvenuto nel carcere di Messina dove era detenuto. All’epoca dei fatti fu aperta un’indagine e si dispose il rinvio a giudizio del Direttore dell’istituto, di sei agenti della Polizia Penitenziaria e del medico psichiatra, ma gli imputati, in tutti i gradi di giudizio, vennero assolti da ogni accusa. Inutilmente esperite le vie di ricorso interne, i genitori di A. C. si sono rivolti alla Corte EDU lamentando la violazione da parte dello Stato italiano dell’articolo 2 Cedu, (diritto alla vita) sotto il profilo sostanziale e procedurale, per la mancata adozione da parte delle autorità delle misure necessarie per prevenire il suicidio del figlio e per non aver condotto le indagini in maniera efficace (§58). Inoltre, si è addotta la violazione dell’articolo 3 della Cedu (divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti) per la mancanza di assistenza medica adeguata al figlio durante la permanenza in carcere (§107). Quanto all’obbligo sostanziale derivante dall’art. 2, la Corte rammenta che tale disposizione impone allo Stato non soltanto di astenersi dal provocare la morte in maniera “volontaria e illegittima”, ma anche di adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione (§69). In riferimento al caso sottoposto alla sua attenzione, la Corte osserva che le autorità italiane erano a conoscenza della precaria condizione di salute psichica e di vulnerabilità in cui si trovava il detenuto, la quale risultava attestata dalla sua cartella clinica, e ritiene che fosse evidente, dalle circostanze di fatto, il rischio reale e imminente di un atto di suicidio (§72-76). Ciò considerato, sebbene le autorità italiane abbiano messo in atto alcuni provvedimenti diretti a prevenire il fatto verificatosi, la Corte rileva l’esistenza di diversi elementi che indicano una mancanza di diligenza nel loro operato (§83-91), quali il tardivo trasferimento presso altra struttura indicata nel rapporto medico, l’ingiustificato abbassamento del livello di sorveglianza, l’assenza di costante monitoraggio sul rischio di suicidio. Si accerta, dunque, la violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo sostanziale per non aver assunto le misure che era ragionevole adottare per prevenire il gesto compiuto da A. C. e assicurare così la sua integrità (§93-94). Quanto all’obbligo procedurale di un’indagine effettiva, i giudici di Strasburgo ritengono che lo Stato italiano abbia soddisfatto i requisiti di adeguatezza, indipendenza, celerità e accessibilità ai famigliari della vittima, sottoponendo il caso di A. C. a un esame scrupoloso e conducendo un’indagine effettiva sulle circostanze del suo decesso e sull’eventuale responsabilità delle autorità coinvolte per mancata prevenzione. Di conseguenza, non vi è stata violazione dell’obbligo procedurale di cui all’articolo 2 della Convenzione (§106). Infine, in riferimento alla dedotta violazione dell’art. 3 Cedu, la Corte ritiene inutile esaminare la questione date le conclusioni cui è pervenuta in riferimento all’art. 2 Cedu. (Francesca Vitarelli)

Riferimenti bibliografici: C. Mostardini, Responsabilità del medico per il suicidio del paziente psichiatrico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2017, p 354 ss.; R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2017, p. 1192 ss.; S. Santini, Medical (mal)practice: quando lo Stato è responsabile della morte del paziente a causa di complicazioni post-operatorie?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2018, p. 974 ss.

 

 

ART. 4 CEDU

C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 23 giugno 2020, S.M. c. Croazia

Nozioni di schiavitù, servitù e lavoro forzato o obbligatorio – tutela contro la tratta di esseri umani sia nazionale che transnazionale – tutela contro la prostituzione forzata – obblighi positivi – carenze procedurali in riferimento all’accertamento del reato – violazione  

Il caso riguarda una cittadina croata, S.M., costretta con l’inganno a prostituirsi dal presunto sfruttatore, anch’esso di nazionalità croata. Il soggetto in questione l’avrebbe contattata per la prima volta su Facebook presentandosi come amico dei suoi genitori e portandola a credere che l’avrebbe aiutata a trovare un lavoro; tuttavia, una volta incontratisi di persona, l’avrebbe coinvolta contro la sua volontà in un giro di prostituzione. All’esito del procedimento penale, l’imputato è stato assolto per incoerenza ed inaffidabilità della deposizione di S.M., la quale, secondo la sentenza di primo grado, avrebbe prestato servizi sessuali volontariamente. La decisione è stata poi confermata nel giudizio di appello. Dopo avere inutilmente esaurito le vie di ricorso interne, la vittima si è rivolta alla Corte EDU adducendo la mancata attivazione, da parte delle autorità nazionali, dei pertinenti meccanismi di diritto penale relativi all’ipotesi di reato di tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento della prostituzione. Ciò, ad avviso della ricorrente, avrebbe costituito una violazione degli articoli 3, 4 e 8 della Convenzione. Con sentenza emessa dalla I Sezione della Camera il 19 luglio 2019, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riscontrato una violazione dell’articolo 4 Cedu per mancanza di un’istruttoria adeguata da parte dell’autorità giudiziaria ai fini della ricostruzione dei fatti (§249). Il 3 dicembre 2018 è stata accettata la richiesta del Governo croato di deferire il caso alla Grande Camera ai sensi dell’articolo 43 della Convenzione. I giudici di Strasburgo, così riuniti il 26 giugno 2020, hanno confermato la violazione dell’obbligo procedurale di cui all’art. 4 della Convenzione (§345), cogliendo anche l’occasione per fornire un’interpretazione della definizione di schiavitù, servitù e lavoro forzato o obbligatorio volta a chiarire l’ambito di operatività della norma in relazione alla tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento della prostituzione. Dopo aver analizzato la portata dei concetti di schiavitù, servitù e lavoro forzato o obbligatorio basandosi, in assenza di una definizione da parte della Convenzione stessa, sulle nozioni fornite da altre fonti di diritto internazionale (§ 279-285), la Corte ha ribadito che anche la tratta di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 4 della Convenzione, anche se non è da esso esplicitamente citata (v. già sul punto C. eur. dir. uomo, Rantsev c. Cipro e Russia, 7 gennaio 2010; C. eur. dir. uomo, L.E. c. Grecia 21.01.2016; C. eur. dir. uomo, I sezione, 18 luglio 2019, T. I. e altri c. Grecia) (§ 289). La Corte ha inoltre compiuto un’importante precisazione: l’art. 4 può essere applicato alla tratta con fini di sfruttamento della prostituzione verificatisi non solo in ambito transnazionale ma anche internamente al territorio dello Stato (come nel caso di specie) e a prescindere da un eventuale coinvolgimento della criminalità organizzata (§296). Inoltre, in relazione allo sfruttamento della prostituzione, la Corte ha precisato che la nozione di “lavoro forzato o obbligatorio” ai sensi dell’articolo 4 della Convenzione fornisce protezione contro i casi di grave sfruttamento, come la prostituzione coatta, indipendentemente dal fatto che, nelle particolari circostanze del caso, essi siano collegati al contesto specifico della tratta di esseri umani (§300). (Francesca Vitarelli)

Riferimenti bibliografici: A. Galluccio, Tratta di persone e sfruttamento lavorativo: a Strasburgo si fa sul serio, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2017, p. 1196 ss.

 

 

ART. 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. I, 25 giugno 2020, Tempel c. Repubblica Ceca

Equità processuale – annullamento con rinvio a diverso tribunale basato sulla circostanza che ripetutamente i giudici di primo grado non si erano adeguati alle indicazioni dei giudici superiori – ragionevole durata del procedimento penale – violazione

La Suprema Corte di Praga (Vrchní soud) ha annullato, ripetutamente, le sentenze di proscioglimento del ricorrente dall’accusa di omicidio, rinviando il giudizio allo stesso tribunale di Plzeň per un nuovo esame della medesima testimonianza a carico, ritenuta non attendibile dai giudici di primo grado. A fronte di una ulteriore assoluzione, la Suprema Corte ha infine rinviato, per il nuovo giudizio di merito, al diverso tribunale di Praga, il quale ha, viceversa, emesso una sentenza di condanna (§ 65). Il ricorrente lamenta l’iniquità complessiva del procedimento, giacché, a suo avviso, il rinvio a differente tribunale di primo grado era finalizzato soltanto all’accoglimento dell’opinione della Suprema Corte in merito alla sua colpevolezza (§ 58). In via preliminare, la Corte e.d.u. ha ribadito che, per valutare l’equità processuale, occorre apprezzare le circostanze di ogni caso concreto (§ 61). Così, i giudici di Strasburgo hanno osservato che, nel caso al vaglio, alla luce dei continui annullamenti e conseguenti rinvii basati sulle stesse ragioni, il tribunale di Praga avrebbe potuto ritenere che la corte di grado superiore avrebbe accettato – e non annullato – soltanto una sentenza di condanna del ricorrente (§ 71). Ciò, per la Corte e.d.u., è stato fortemente rappresentativo di una disfunzione del sistema giudiziario, tale da viziare l’equità complessiva del procedimento penale e violare l’art. 6 CEDU (§ 72). Per finire, la Corte e.d.u. ha ravvisato, altresì, la violazione dell’art. 6 CEDU per l’irragionevole durata del procedimento, che, in forza dei continui annullamenti con rinvio, è durato più di dieci anni (§ 89). (Michele Pisati)

 

 

ART. 7 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. V, 11 giugno 2020, Baldassi e altri c. Francia

Nullum crimen sine lege – esistenza di un precedente giurisprudenziale che rende prevedibile la condanna penale – non violazione

I ricorrenti, attivisti per la causa palestinese, si sono rivolti alla Corte EDU in relazione ad una condanna penale al pagamento di una pena pecuniaria pari a 1.000 euro di ammenda a carico di ciascuno (più il risarcimento del danno in solidum) inflittagli per incitamento alla discriminazione economica, a causa della loro partecipazione ad azioni volte al boicottaggio di prodotti importati da Israele nell’ambito della campagna internazionale “BDS: Boycott, Divestment and Sanctions”. In particolare, il ricorso adduce la violazione da parte della Francia dell’articolo 7 della Convenzione (nullum crimen sine lege), in quanto la sezione 24 (8) della legge sulla libertà di stampa, sulla base della quale è stata inflitta la condanna, non menziona la discriminazione economica. Inoltre, i ricorrenti lamentano anche la violazione dell’art. 10, ritenendo la condanna incompatibile con la libertà di espressione (sul punto, v. infra, sub. Art. 10). Quanto alla lamentata violazione del nullum crimen, la Corte afferma che, sebbene la norma applicata nel caso di specie non menzioni esplicitamente l’istigazione alla discriminazione economica, la Corte di Cassazione francese si era già espressa a favore dell’applicazione estensiva anche ai casi di istigazione al boicottaggio di prodotti importati da Israele (§39). Proprio alla luce degli orientamenti giurisprudenziali nazionali, la Corte ritiene che la condanna fosse ex ante prevedibile e pertanto esclude la violazione dell’art. 7 della Convenzione. (Francesca Vitarelli)

Riferimenti bibliografici: A. Faina, L’impatto dei mutamenti giurisprudenziali sul principio di legalità in materia di esecuzione penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2019, p. 663 ss.; M. Crippa, La prevedibilità delle condanne per genocidio “politico” degli oppositori al regime sovietico: la Lituania supera il vaglio della Corte Edu, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2019, p. 1753 ss.

 

 

ART. 8 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. V, 11 giugno 2020, P.N. c. Germania

Diritto al rispetto della vita privata – acquisizione e conservazione di dati identificativi dell’indagato – non violazione

Il ricorrente si duole del comportamento della polizia che, nelle indagini preliminari, ha acquisito fotografie del suo volto e del suo corpo, impronte digitali e dei palmi, nonché una descrizione complessiva del suo aspetto fisico, e le ha conservate, nonostante la successiva archiviazione del procedimento, per agevolare, in futuro, le operazioni di identificazione. La Corte e.d.u. ha ribadito, anzitutto, che l’acquisizione e la conservazione di dati personali da parte delle autorità rappresenta un’interferenza nel diritto al rispetto della vita privata, garantito dall’art. 8 CEDU (§ 59). Dopo aver agevolmente riconosciuto che le interferenze nella privatezza del ricorrente, sospettato di reato, avevano sufficiente base legale nel codice di procedura penale tedesco, e perseguivano scopi legittimi, ossia la sicurezza pubblica, i giudici di Strasburgo hanno approfondito un ulteriore quesito: se le misure fossero necessarie in una società democratica e, dunque, proporzionate (§§ 61-68). Nel dare risposta positiva, la Corte ha valorizzato, da un lato, il fatto che il ricorrente fosse già plurirecidivo, al momento del procedimento in questione (§ 83), e, dall’altro lato, che le misure adottate, a fini di identificazione, erano meno intrusive rispetto al prelievo di campioni biologici e che i dati erano stati conservati per un tempo limitato (§§ 84 e 87). Da ultimo, in stretta connessione, la Corte ha ritenuto che la normativa tedesca in materia di data protection mettesse sufficientemente al riparo da abusi, giacché consentiva, anche su istanza dell’interessato, una periodica revisione in ordine alla necessità di conservare o cancellare i dati personali acquisiti nel corso di un procedimento penale (§ 88). (Michele Pisati)

Riferimenti bibliografici: S. Basilico, Il diritto alla privatezza non è recessivo rispetto alla sicurezza nazionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1069.

 

 

Art. 10 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, Sez. V, 11 giugno 2020, Baldassi e altri c. France

Libertà di espressione del pensiero politico – incitamento al “boicottaggio economico” – assenza di osservazioni razziste o antisemite e richiamo all'odio, alla violenza e all’intolleranza – assenza di violenza o danni materiali – non violazione

Per la sintesi della vicenda v. suprasub art. 7. In merito all’asserita violazione dell’art. 10 della Convenzione, la Corte ricorda innanzitutto che vi sono una serie di principi generali, fissati nella sua giurisprudenza (v. in particolare C. eur. dir. uomo, 15 ottobre 2015, Perinçek c. Svizzera) che indicano in quali circostanze si possa ritenere necessario limitare il diritto alla libertà di espressione in una società democratica. Secondo la Corte l’invito al boicottaggio è da considerarsi una modalità di esercizio del diritto alla libertà di espressione, sotto forma di opinione di protesta; pertanto, tale condotta è tutelata dall’articolo 10 della Convenzione, a meno che non implichi incitamento all’odio e alla discriminazione, limiti che non devono essere mai valicati nell’ambito dell’esercizio della libertà di espressione (§ 64). Sotto questo profilo, si è osservato che i ricorrenti non erano stati condannati per aver reso osservazioni razziste o antisemite o di incitamento all’odio o alla violenza, né per condotte violente o per aver causato danni, ma solo in ragione dell’istigazione alla discriminazione economica (§70-71). Secondo i giudici di Strasburgo, tuttavia, la condotta dei ricorrenti non era connotata da un intento discriminatorio, ma era piuttosto ascrivibile ad una forma di espressione del pensiero politico o “militante” riguardo ad un tema di interesse generale: tali manifestazioni, in base all’articolo 10 § 2 della Convenzione, difficilmente possono essere soggette a restrizioni. Infatti, specifica la Corte, la natura del discorso politico è intrinsecamente controversa e spesso virulenta, ma ciò non ne diminuisce la rilevanza in termini di interesse generale, a condizione che non si oltrepassi il limite, degenerando in forme di incitazione alla violenza, all’odio o all’intolleranza (§79). Viene dunque accertata la violazione dell’art. 10 della Convenzione, in quanto la condanna dei ricorrenti risulta priva di qualsiasi motivo pertinente o sufficiente che giustifichi una limitazione della libertà di espressione. (Francesca Vitarelli)

 

Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 23 giugno 2020, Kharitonov c. Russia; Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 23 giugno 2020, Ooo Flavus e altri c. Russia; Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 23 giugno 2020 Bulgakov c. Russia; Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 23 giugno 2020 Engels c. Russia

Libertà di trasmettere e ricevere informazioni tramite internet – misure preventive di “blocco” di siti web – difetto di prevedibilità delle misure preventive – difetto di garanzie procedurali contro gli effetti eccessivi e arbitrari delle misure preventive – violazione

Le quattro pronunce hanno ad oggetto i ricorsi presentati alla Corte Edu con riferimento all’applicazione di diversi tipi di misure preventive consistenti nel “blocco” di siti Web applicate in Russia. In particolare, nel caso Kharitonov c. Russia  si tratta di un blocco “collaterale”, in cui l’autorità russa di regolazione delle comunicazioni, su richiesta del Procuratore generale, ha bloccato un indirizzo IP condiviso da diversi siti per la presenza in alcuni di essi di contenuti Web illegali ai sensi della sezione 15.1 dell’Information act, con l’effetto di oscurare anche il sito del ricorrente, nonostante non riportasse alcun materiale illegale (§ 35). Nel caso OOO Flavus e altri c. Russia si tratta di “blocco all’ingrosso”, in cui tre media online sono stati bloccati dal Procuratore generale ai sensi della sezione 15.3 dell’Information act, perché consentivano di accedere a contenuti che incitavano a prendere parte a disordini di massa o caratterizzati da linguaggio estremista (§ 29). Nei casi Bulgakov c. Russia (§ 29-30) e Engels c. Russia (§ 25) si tratta di un “blocco eccessivo”, in cui un intero sito Web è stato bloccato dal tribunale a causa di una singola pagina o un singolo file ritenuti inappropriati.  Nelle sentenze della Camera, emesse tutte dalla III sezione il 23 giugno 2020, si è accertata la violazione dell’articolo 10 Cedu (diritto alla libertà di espressione), nonché dell’articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo) in relazione allo stesso art. 10. Sotto il primo profilo, innanzitutto, giudici di Strasburgo sottolineano l’importanza di internet, che è diventato uno dei mezzi principali con cui le persone esercitano il loro diritto alla libertà di espressione e di informazione, in quanto rende più agevole la diffusione delle informazioni al pubblico. In considerazione di ciò, si ribadisce che l’articolo 10 della Convenzione, garantendo a tutti la libertà di ricevere e trasmettere informazioni e idee, si applica non solo al contenuto delle informazioni, ma anche ai mezzi di diffusione, poiché qualsiasi restrizione imposta a queste ultime interferisce necessariamente con tale libertà (Kharitonov c. Russia § 33; OOO Flavus e altri c. Russia § 28; Bulgakov c. Russia § 28; Engels c. Russia § 24; ma v. già sul punto Corte eur. dir. uomo, 18 marzo 2013, Ahmet Yıldırım c. Turchia § 48-54). In riferimento ai casi sottoposti alla sua attenzione, la Corte sottolinea, in primo luogo, che, sebbene l’art. 10 della Convenzione ammetta deroghe “prescritte dalla legge”, non è sufficiente la formale esistenza di una base legale, ma si richiede anche che la legge stessa sia adeguatamente accessibile e prevedibile e che indichi con sufficiente chiarezza quali siano i poteri conferiti alla pubblica autorità e le modalità del loro esercizio. Tali caratteristiche non si riscontrano nella legislazione russa, i cui contenuti sono vaghi ed eccessivamente ampi e quindi non consentono ai proprietari di siti Web di sapere in anticipo quali contenuti siano suscettibili di essere vietati e quando sia applicabile la misura del blocco dell’intero sito Web (Kharitonov c. Russia, § 37-42; OOO Flavus e altri c. Russia § 30-35; Bulgakov c. Russia, § 31-34; Engels c. Russia § 26-27). In secondo luogo, si riscontra la totale assenza di garanzie contro possibili interferenze arbitrarie da parte della pubblica autorità. Infatti, le misure sono state applicate nei confronti dei siti Web senza coinvolgere in alcun modo i rispettivi proprietari, i quali non sono potuti risalire neanche ai motivi per i quali è avvenuto il blocco né hanno potuto avere informazioni su come presentare ricorso (Kharitonov c. Russia § 36; OOO Flavus e altri c. Russia § 40; Bulgakov c. Russia § 35; Engels c. Russia §31). Inoltre, la Corte sottolinea come gli effetti prodotti dalle misure concretamente assunte nei confronti dei ricorrenti siano stati eccessivi e sproporzionati, in quanto le autorità hanno applicato la misura nei confronti dei siti Web nella loro interezza, nonostante i contenuti illegali fossero circoscritti (OOO Flavus e altri c. Russia § 29 e § 37-38; Bulgakov c. Russia § 33-34; Engels c. Russia § 28) o addirittura assenti (Kharitonov c. Russia § 39 e § 43). A tal proposito, i giudici di Strasburgo censurano l’assenza, nella fase di revisione giudiziale, di una doverosa valutazione in merito alla conformità delle misure assunte con i principi della Convenzione EDU riguardanti la libertà di espressione. In particolare, si censura l’assenza di una verifica circa la necessità di una misura tanto invasiva da bloccare l’accesso a interi siti Web, il cui effetto collaterale è stato rendere inaccessibile una grande quantità di informazioni al pubblico (Kharitonov c. Russia § 45; OOO Flavus e altri c. Russia § 43; Bulgakov c. Russia § 37; Engels c. Russia § 33). (Francesca Vitarelli)

Riferimenti bibliografici: P. Zoerle, Diritto di informazione dei detenuti e accesso a internet, in Riv. it. dir. proc. Pen., 2/2017, 878 ss.; G. Spinelli, Secondo la Corte europea, il reato di vilipendio alla Corona non merita la pena detentiva: il caso Stern Taulats e Roura Capellera c. Spagna, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2018, p. 1841 ss.

 

 

ART. 13 CEDU

Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 23 giugno 2020, Kharitonov c. Russia; Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 23 giugno 2020, Ooo Flavus e altri c. Russia; Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 23 giugno 2020 Bulgakov c. Russia; Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 23 giugno 2020 Engels c. Russia

Diritto a un ricorso effettivo in combinato disposto con l’articolo 10 – mancato esame da parte dei tribunali della liceità, necessità e proporzionalità della misura del “blocco” dei siti Web – violazione

Per la sintesi della vicenda v. suprasub art. 10. Per quanto concerne la violazione dell’art. 13 in combinato disposto con l’art. 10 della Convenzione, la Corte ha rilevato che nessuno dei tribunali nazionali aditi dai ricorrenti aveva esaminato nel merito le denunce, omettendo di verificare la liceità e la proporzionalità (Kharitonov c. Russia § 56) o la necessità e la proporzionalità della misura del blocco dei siti Web (nei casi OOO Flavus e altri c. Russia § 54; Bulgakov c. Russia § 43; Engels § 48). Nessuno dei rimedi offerti ai ricorrenti dalla legislazione nazionale è quindi stato efficace in relazione alle circostanze del caso (v. sul punto anche Corte eur. dir. uomo, 9 settembre 2019, Elvira Dmitriyeva v. Russia). (Francesca Vitarelli)

 

 

ART. 1 Prot. add. CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. V, 4 giugno 2020, Avendi OOD c. Bulgaria

Tutela della proprietà – tardiva restituzione dei beni sequestrati – violazione

Migliaia di bottiglie di bevande alcoliche appartenenti al ricorrente, società a responsabilità limitata di diritto bulgaro, sono state sequestrate a fini di prova nel corso di un procedimento penale a carico di terzi. Tuttavia, in seguito alla conclusione del procedimento e all’emissione di specifico ordine di restituzione da parte del giudice penale, i beni sono stati trattenuti dalle autorità, ai fini di ulteriori procedimenti penali e amministrativi, ma senza adottare ulteriori provvedimenti di sequestro (§ 60). Il ricorrente lamenta una lesione del diritto di proprietà. Nel valutare la legittimità dell’interferenza nel pacifico godimento dei beni, la Corte e.d.u., in primis, si è soffermata sull’assenza di un formale provvedimento di nuova sottoposizione a sequestro dei beni, dissequestrati al termine del primo procedimento penale (§§ 78 e 81). Peraltro, al momento dell’effettiva restituzione al ricorrente, avvenuta con grave ritardo, più della metà degli alcolici erano ormai scaduti (§ 21). Da qui la Corte ha concluso per l’illegittimità del mantenimento dei beni presso le autorità dopo l’ordine di restituzione (§ 82). Dunque, ad avviso dei giudici di Strasburgo, la tardiva restituzione dei beni sequestrati ha costituito una violazione dell’art. 1 Prot. add. CEDU. (Michele Pisati)

 

 

ART. 4 Prot. n. 7 CEDU

Ne bis in idem – condanna per terrorismo – revoca della cittadinanza – sanzione non penale (criteri Engel) – irricevibilità del ricorso

Corte eur. dir. uomo, Sez. V, 25 giugno 2020, Ghoumid e a. contro Francia

Il caso riguarda cinque persone, di doppia nazionalità, condannate nel 2007 in Francia per partecipazione ad un’associazione criminale con finalità di terrorismo, rilasciate tra il 2009 e il 2020   e private della cittadinanza francese nel 2015 con decreto del Primo Ministro, in applicazione all’art. 25 del Codice civile francese. In riferimento a tale provvedimento, i ricorrenti si sono rivolti alla Corte Edu adducendo la violazione dell’art. 8 Cedu (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e dell’art. 4 prot. 7 Cedu (ne bis in idem). Sotto il primo profilo, la Corte non ha ritenuto sussistente alcuna violazione in quanto la misura assunta nei confronti dei ricorrenti non ha avuto conseguenze sproporzionate per la loro vita privata, considerato che godevano già di un’altra nazionalità e che la misura non comportava l’espulsione dal territorio francese (§41-52). Quanto alla presunta violazione del ne bis in idem, i ricorrenti sostenevano che la revoca della cittadinanza fosse una “pena mascherata” volta a punire lo stesso comportamento per il quale erano stati condannati nel 2007 dal Tribunale penale di Parigi (§53). I giudici di Strasburgo hanno dunque analizzato le caratteristiche di tale misura secondo i tre criteri Engel (v. sul punto Corte eur. dir. uomo, Grande Camera, 15 novembre 2016, A et B c. Norvegia, § 107) al fine di rilevarne l’eventuale natura “sostanzialmente” penale (§68). In primo luogo, con riferimento alla qualificazione giuridica, si rileva che tale misura è una sanzione amministrativa non rientrante nella giurisdizione del giudice penale (§70); in secondo luogo, quanto alla natura della misura, essa non pare riconducibile ad una sanzione penale, bensì avente semplicemente l’obiettivo particolare di recidere il legame con la Francia a fronte di atti particolarmente gravi compiuti dai suoi cittadini, che, nel caso di atti terroristici, sono diretti a minare il fondamento stesso della democrazia (§ 71); in terzo luogo, per quanto attiene alla natura e al grado di severità della sanzione, nonostante le conseguenze della sua applicazione siano indubbiamente gravi si ritengono comunque proporzionate rispetto al particolare disvalore che caratterizza l’atto terroristico (§72). Pertanto, secondo i giudici di Strasburgo, la misura della revoca della nazionalità non si può considerare una sanzione penale ai sensi dell’art. 4 Prot. 7: la domanda è quindi dichiarata irricevibile in quanto incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione (§74-75). (Francesca Vitarelli)

Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Ne bis in idem e procedimenti paralleli, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2017, p. 351 ss.