Testo dell’audizione svolta presso la Commissione Giustizia del Senato della Repubblica (10 luglio 2024), nell’ambito dell’esame del disegno di legge n. 1183 “Conversione in legge del decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92, recante misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del ministero della giustizia”.
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1. Premessa metodologica. I rilievi che seguono in questo breve testo scritto non abbracciano per intero l’articolato di urgenza, limitando l’analisi agli artt. da 4 a 8; per l’iter conseguente all’adozione del decreto-legge verranno qui evidenziati attuali contrasti con pronunce della Corte costituzionale e della Corte EDU, disarmonie di sistema e, per l’effetto, verranno suggerite proposte di modifica.
Per evidenti ragioni, resteranno fuori da queste riflessioni le altre disposizioni, salvo per le inferenze che queste determinano con riferimento alla scelta adottata in termini di decretazione di urgenza.
2. Sull’adozione dello strumento del decreto-legge. Prima di passare all’analisi delle singole disposizioni, merita soffermarsi sulle ragioni evidenziate nella Relazione a sostegno dell’affermata sussistenza dei presupposti di necessità e urgenza.
In disparte più approfondite valutazioni che potranno essere svolte dai costituzionalisti, appare opportuno evidenziare che la Corte costituzionale (cfr., ex multis, sent.n.32/2014) ha affermato che «l’inclusione di emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto del decreto – legge, o alle finalità di quest’ultimo, determina un vizio della legge di conversione in parte qua», non senza aver rilevato, prima ancora, la necessità del requisito della omogeneità del decreto legge (sent.n.22 del 2012), che pur afferendo a materie diverse può essere indirizzato all’unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare. L’eventuale tratteggiato difetto genetico, al dunque, non può che riflettersi sulla legge di conversione, giacché questa non potrebbe mai sanare l’assenza dei presupposti alla base della scelta governativa, come affermato di recente dal Giudice delle leggi (sent. n.8 del 2022), secondo cui… «per costante giurisprudenza di questa Corte, la preesistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza di provvedere tramite l’utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto legge, costituisce un requisito di validità dell’adozione di tale atto, la cui mancanza configura un vizio di legittimità costituzionale del medesimo, che non è sanato dalla legge di conversione, la quale, ove intervenga, risulta a sua volta inficiata da un vizio in procedendo (ex plurimis, sentenze n.149 del 2020, n.10 del 2015, n.93 del 2011, n.128 del 2008, n.171 del 2007 e n.29 del 1995)».
Con la pronuncia citata, ancora, la Corte «ha chiarito, per altro verso, che l’omogeneità costituisce un requisito del decreto legge sin dalla sua origine, poiché l’inserimento di norme eterogenee all’oggetto o alla finalità del decreto spezza il legame logico – giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell’urgenza del provvedere ed i provvedimenti provvisori con forza di legge (sentenze n.149 del 2020 e n.22 del 2012”)».
Dunque, sebbene sia consentita (secondo il profilo teleologico alla base dell’intervento normativo di urgenza) l’adozione di un decreto-legge in considerazione dell’unico scopo di approntare urgentemente rimedi per fronteggiare situazioni complesse e variegate, anche in tal caso deve accertarsi se la singola disposizione dello stesso sia «totalmente estranea, o addirittura intrusa, analogamente a quanto avviene alle norme aggiunte dalla legge di conversione (sentenza n. 213 del 2021)».
Alla luce di quanto sopra evidenziato dovranno dunque valutarsi partitamente sia i presupposti costituzionali alla base della decretazione di urgenza, sub specie di straordinaria necessità e urgenza, sia l’omogeneità di materia, pur tenendo conto del citato criterio finalistico, poiché «affermare che la legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie» (sent. n.171 del 2007).
Sulla base di questi rilevi, appare davvero difficile conciliare ragioni di straordinaria necessità e urgenza che giustifichino le Disposizioni in materia di personale (Capo I), attese le considerazioni che seguono.
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All’art. 1 (Assunzione di 1.000 unità del Corpo di Polizia penitenziaria) si prevede che detto aumento spieghi i suoi effetti negli anni 2025 e 2026.
Una straordinaria necessità e urgenza differita; si direbbe un ossimoro. Pur evocandosi a sostegno della previsione de qua la finalità di “incidere più adeguatamente sui livelli di sicurezza, di operatività e di efficienza degli istituti penitenziari e di incrementare maggiormente le attività di controllo dell’esecuzione penale esterna”, la Relazione valorizza in particolare ciò che accade intramoenia nella prospettiva della sicurezza e dell’ordine (“l’assolvimento dei molteplici compiti affidati a questo delicato settore istituzionale, del tutto peculiari, richiede pertanto una particolare attenzione anche in considerazione dei sempre presenti stati di tensione della popolazione detenuta, che si assesta in circa 60.000 unità”).
Nessun riferimento all’evocata attività di altro tipo, nessuna previsione di impiego di risorse a favore del trattamento penitenziario, con assunzione di personale a ciò dedicato (funzionari giuridico pedagogici, mediatori culturali, etc.)
In disparte la cifra esatta delle persone detenute (61.480 al 30 giugno 2024), in sede di conversione appare opportuno un intervento che destini i fondi previsti in accantonamento ad altro fine, volto ad intervenire sulla riduzione degli stati di tensione, e non solo sul loro contenimento e/o repressione.
Non a caso, sul punto si ritiene opportuno invitare a che si valuti l’opportunità di verificare la coerenza della formulazione con le finalità indicate nella relazione.
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Quanto all’art.4, in sintesi, la riduzione del periodo di formazione, come già evidenziato in occasione dell’audizione c/o Codesta Commissione, determinerebbe una situazione di palese impreparazione del personale immesso in ruolo rispetto a tutti i diversi aspetti del quotidiano penitenziario, vieppiù in una fase come quella attuale.
Non pare peregrino in proposito ricordare gli ormai numerosissimi procedimenti penali aperti per tortura (ed altro), laddove gli addebiti vengono contestati sempre in relazione a difficoltà a gestire situazioni di conflitto e (ciò che è ancor più significativo) di confronto con la popolazione detenuta.
Si propone per l’effetto l’abolizione dell’art. 4.
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Venendo al Capo II (Misure in materia penitenziaria, di diritto penale e per l’efficienza del procedimento penale), e segnatamente all’art.5 (Interventi in materia di liberazione anticipata), valgano le considerazioni che seguono.
Al comma 1 si prevede che nell’ordine di esecuzione vengano anticipatamente calcolate le detrazioni previste dall’art. 54 o.p.
Nella Relazione che accompagna la novella si evidenzia come “questa previsione ha il duplice scopo di stabilizzare fin dall’inizio […] i semestri di interesse e il relativo conteggio delle riduzioni premiali, ma anche di promuovere l’adesione al programma rieducativo da parte del detenuto, il quale ha modo di vedere già conteggiate tutte le detrazioni, ma, al contempo, è avvisato del fatto che, perché divengano effettive, dovrà partecipare all’opera di rieducazione”.
La modifica dell’art. 656 c.p.p. presenta sul punto numerosissime aporie, e pur proponendosi quale meccanismo volto “a semplificare il procedimento per il riconoscimento della liberazione anticipata” (così la Relazione) finisce col creare infiniti problemi pratici che, per eterogenesi dei fini, finirebbero con aumentare il contenzioso penitenziario.
Ma andiamo con ordine.
In primo luogo, con considerazione di sistema, vi è da chiedersi quale sia la legittimazione di un “patto” proposto ai detenuti da chi appare, e non da oggi, responsabile non solo di condotte omissive, ma anche di patenti violazioni ordinamentali e regolamentari, che spesso condizionano le risposte delle persone recluse. Ancora una volta, il rapporto è verticale, e lungi dal proporre una relazione di altro tipo, tesa alla responsabilizzazione nutrita da ascolto e possibilità di riflessione reale sul disvalore del proprio agito, si limita a riproporre lo schema infantilizzante di sempre.
Ancora, e più nel dettaglio; il nuovo comma 10 bis dell’art. 656 c.p.p. resta silente di fronte all’ipotesi di posizioni giuridiche complesse che danno luogo all’esecuzione di pene concorrenti, ex art. 663 c.p.p., che com’è noto costituiscono una percentuale rilevantissima (attesi i tassi di recidiva di chi sconta la pena per intero in carcere). A ciò si aggiunga, con anticipazione di quanto si dirà a breve, che il comma 3, punto 4, dell’art. 5 del DL prevede che del provvedimento (di accoglimento o rigetto) della liberazione anticipata non si dia comunicazione al PM che cura l’esecuzione del titolo, con ciò rischiando di determinare una quantificazione anticipata della pena viziata per eccesso o per difetto, a seconda delle decisioni che il Magistrato di sorveglianza finirà con l’adottare.
In secondo luogo (ciò che merita un apposito intervento chiarificatore), occorrerebbe inserire l’obbligo di riaggiornamento della posizione giuridica quod poenam ogni qualvolta la pena originariamente computata venga ad essere rideterminata per le ragioni più varie (provvedimento denominabile, come già oggi accade nella prassi, “Ordine di scarcerazione-Nuova scadenza pena), e ciò sia nel caso in cui sopravvenga un nuovo titolo detentivo da porsi in esecuzione concorrente con quello(i) già in essere, sia nel caso in cui la riduzione calcolata in origine, al momento della prima notifica, non venga poi concessa o venga revocata.
In terzo luogo, il nuovo comma 10 bis resta silente a fronte dell’emissione di ordine di esecuzione contenente la pena dell’ergastolo; per coerenza di chi scrive, non ci si può esimere dal ribadire anche in questa sede la propria contrarietà alla pena perpetua, nella consapevolezza che non è questa in ogni caso l’occasione per contestarne la contrarietà ai principi costituzionali. La dimenticanza (un’involontaria nemesi) non può di certo purtroppo cancellare il duro dato di realtà: 1.887, salvo errori, sono purtroppo gli ergastolani presenti nelle carceri italiane.
Coerentemente ai rilievi sopra indicati, si propone l’abolizione dell’art.5, comma 1 (e, conseguentemente, del comma 2) in sede di conversione; in ogni caso, laddove si decidesse di mantenerlo in vigore, si propone che l’art. 10 bis di nuovo conio venga modificato nei termini che seguono : “Salvo che per i condannati alla pena dell’ergastolo, negli ordini di esecuzione emessi ex art.656, comma 9, o 663 c.p.p., fermo il disposto del comma 4 bis dell’art.656 c.p.p., la pena da espiare è indicata computando le detrazioni previste dall’art.54 della legge 26 luglio 1975, n.354, in modo tale che siano specificatamente indicate le detrazioni e sia evidenziata anche la pena da espiare senza di esse. Nell’ordine di esecuzione, anche se di pene concorrenti, è sempre dato avviso al destinatario che le detrazioni di cui all’articolo 54 della legge 26 luglio 1975, n.354 non saranno riconosciute qualora durante il periodo di esecuzione della pena il condannato non abbia partecipato all’opera di rieducazione”.
Quanto ai condannati alla pena dell’ergastolo, nell’ordine di esecuzione (eventualmente anche di pene concorrenti) potrebbe inserirsi il richiamo alle soglie di accesso ai benefici, restituendo al condannato la possibilità di formulare l’istanza di liberazione anticipata (ché altrimenti la disposizione sarebbe inutile).
Si propone in ogni caso la modifica dell’art. 54, comma 1, sostituendo al comma uno la parola “sessanta” a quella di “quarantacinque”, e quella del comma 2, o.p., eliminando il periodo da “o” a “emesso”, giacché il riferimento al pretore e all’ordine di esecuzione da questi emesso, contenuto nella disposizione citata, appare ovviamente ormai superato.
Il maggior termine di detrazione per ciascun semestre appare oggi, alle condizioni date, l’unica possibilità di incidere realisticamente sulla situazione di gravissima emergenza carceraria in corso.
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Venendo all’esame dell’art. 5, comma 3 del DL, recante modifiche al “procedimento in materia di liberazione anticipata”, non possono che ribadirsi in questa sede i rilievi esposti durante l’audizione.
In primo luogo, immaginare di differire ad un momento unico della carcerazione (quello prossimo alla possibilità di richiedere la concessione di misure alternative o altri benefici analoghi – dizione atecnica che andrebbe sostituita con quella del lavoro all’esterno ed i permessi premio) la valutazione del comportamento detentivo, tanto più ex officio, e non ad istanza di parte, oltre ad ingenerare grande incertezza in capo al detenuto, finisce col determinare una serie numerosa di inconvenienti.
Il primo; la novella individua, comunque, una competenza in capo al magistrato monocratico, e dunque la concedibilità del beneficio comporterà sempre l’apertura di autonomo fascicolo, con tutto quanto ne consegue in ordine a inevitabili stasi del procedimento afferente alla richiesta di misura alternativa o di altro beneficio penitenziario.
Il secondo; con la previsione di una valutazione strumentale del comportamento inframurario e della connessa eventuale concessione della liberazione anticipata si fa strame delle indicazioni offerte in proposito dal Giudice delle leggi (sent .n.276/1990), che ha affermato che (§ 4 Considerato in diritto) «la riduzione di pena riguarda, comunque, pur sempre e soltanto il riconoscimento della partecipazione, che non è subordinato al conseguimento della finalità; è la detrazione, semmai, a facilitare – secondo la mens della norma – un più efficace reinserimento nella Società».
Di più; con quell’autorevole arresto già allora la Corte evidenziava come in realtà le misure alternative e i benefici penitenziari non siano affatto collegati alla partecipazione all’opera di rieducazione, ma a presupposti di volta in volta diversi (il sicuro ravvedimento, per la liberazione condizionale, l’aver tenuto regolare condotta, per il permesso premio, i progressi compiuti nel corso del trattamento, per la semilibertà, il bilanciamento tra rieducazione del reo e prevenzione della recidiva, per l’affidamento), “situazioni, dunque, del tutto diverse da quelle che si esigono per la liberazione anticipata” (§ 5 Considerato in diritto).
Il terzo; il periodo previsto per lo scrutinio del presofferto (novanta giorni) ai fini della concessione della liberazione anticipata strumentale alle misure alternative e/o ai benefici penitenziari, (art.69 bis, comma 1, o.p.), o di quella liberatoria (comma 2), è evidentemente irrisorio e impossibile da rispettare. Si pensi, a solo titolo di esempio, ad eventuali carcerazioni di lungo corso, magari intramezzate da periodi di libertà, patite in istituti diversi, o eventualmente in arresti domiciliari. Si pensi, ancora, al fatto che anche ai fini dell’accesso ai benefici il periodo da computarsi potrebbe essere insufficiente se posto in relazione a quello dei novanta giorni prima antecedente al maturare dei presupposti. Potrebbe cioè accadere che un soggetto avanzi istanza di accesso ad un beneficio 90 giorni prima, confidando che proprio in quell’arco temporale concesso al Giudice si completi il quantum di presofferto idoneo per l’ammissibilità dell’istanza, ma che il Giudice ritenga inammissibile la domanda, non essendo in quel momento ancora raggiunto il termine di legge.
Quanto sopra espone il nostro Paese ad una nuova ipotesi di censura convenzionale (cfr. Corte EDU, Quarta Sezione, 24 marzo 2015, Messina c. Italia, Application n. 39824/07), per violazione dell’art.5, § 1, della Convenzione, avendo in quel caso il ricorrente ottenuto la condanna dell’Italia per la tardività della concessione della liberazione anticipata, con effetto di allungare la durata dell’esecuzione.
Lo scenario qui rappresentato, com’è evidente, si pone ancor più concretamente (a mente di quanto previsto dall’art. 4 bis, comma 2, o.p.) per i detenuti sottoposti al regime differenziato, attesa l’impossibilità per costoro di accedere ai benefici, salvo che il 41 bis o.p. venga revocato. In questi casi appare davvero impossibile prevedere la concessione della liberazione anticipata che comporti il maturare del termine di conclusione della pena da espiare, dovendosi a tal fine scrutinare in novanta giorni periodi detentivi a volte trentennali in carceri diverse. Questa volta la condanna convenzionale sarebbe certa, ed altrettanto la possibilità di censura costituzionale, per violazione dell’art.3 Cost., 117, comma 1, in relazione agli artt. 3 e 5, §1
Il quarto; l’ipotesi prevista dal nuovo comma 3 dell’art. 69 bis o.p., che ammette l’istanza ad hoc presentata dall’interessato quando venga indicato, a pena di inammissibilità (si pensi, a mero titolo di esempio, per ottenere lo scioglimento del cumulo, la declassificazione per l’accesso a maggiori colloqui telefonici o al lavoro all’esterno) lo “specifico interesse”, dovrebbe essere recuperata quale regola, e non come caso residuo. Ed infatti, non solo è certo che la Difesa possa fornire notizie utili alla bisogna, soprattutto nel caso in cui abbia mantenuto costante il proprio rapporto con l’assistito, ma anche che l’eventuale declaratoria di inammissibilità di tale ipotesi rischia di determinare un nuovo contenzioso.
Il quinto; in attesa dell’emanando regolamento nei sei mesi dall’entrata in vigore del DL, a mente di quanto previsto dal novellato art.69 bis, comma 4, o.p., le informazioni utili per decidere dovrebbero pervenire con tempi e modi che non garantiscono l’adozione del provvedimento.
Il sesto; non è stata prevista alcuna disposizione transitoria, che appare indispensabile in caso di conversione della disposizione in oggetto, al fine di evitare un nuovo contenzioso.
In conclusione, nel caso in cui venga mantenuta la riforma dell’art. 69 bis o.p. si propongono in sede di conversione le presenti modifiche: al comma 1 dell’art. 69 bis o.p. sostituire alla parola “novanta giorni” la parola “centottanta, laddove la pena in esecuzione non sia superiore a cinque anni, o un anno in caso di pena superiore a cinque anni”. Al comma 2, sostituire la parola novanta come sopra.
Al comma 3, aggiungere “sempre” dopo “può”. Al comma 4, aggiungere “nonché al PM competente ex art.655, comma 1, c.p.”, dopo “127 del codice di procedura penale”.
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L’art. 6 (Interventi in materia di corrispondenza telefonica dei soggetti sottoposti al trattamento penitenziario), di nuovo con rinvio ad apposito regolamento da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del DL (fatta salva medio tempore apposita autorizzazione delle direzioni degli Istituti), allinea i colloqui telefonici a quelli in presenza, restando silente sulla durata degli stessi.
Pur avendo inserito la corrispondenza telefonica quale elemento del trattamento, mercè il richiamo dell’art. 39 nell’art. 61 del DPR n. 230/2000, la novella non recepisce le indicazioni provenienti dalla Commissione Ruotolo, che andrebbero recuperate. Ed ancora, pur prendendo atto dell’importanza del contatto con terzi (in specie se familiari), soprattutto per chi è detenuto lontano dai propri affetti, l’art.6 del DL non elimina la distinzione vigente tra condannati di media e alta sicurezza, i quali ultimi continuano a fruire, del tutto irragionevolmente, di minori occasioni di contatto con l’esterno, non ponendosi per costoro le ragioni sottese all’applicazione del regime di cui all’art. 41 bis o.p.
Per ragioni di sintesi, si fa integrale rinvio al testo elaborato dalla Commissione sopra citata, proponendo in ogni caso l’eliminazione del distinguo in proposito tra detenuti e internati per reati comuni e o per delitti di cui al primo periodo del primo comma dell’art.4 bis o.p.
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L’art.7 (Modifiche all’articolo 41 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante disciplina del regime detentivo differenziato) è totalmente privo dei requisiti di necessità e urgenza.
Com’è noto, con D.l.vo n.150/2022 è stata introdotta nel nostro Ordinamento la disciplina organica della giustizia riparativa, delle cui caratteristiche di accesso e fruibilità si dirà di qui a un attimo.
Al fine di vietare ai detenuti sottoposti al regime differenziato la fruibilità di tale istituto, si è perfino intervenuti a sostituire, dopo la lettera f dell’art. 41-bis, comma 2 quater, o.p., il punto di interpunzione «.» con «;».
A tal proposito, tuttavia, il legislatore di urgenza non ha tenuto conto di due sentenze (n. 186/2018 e 97/2020) che hanno rimosso il divieto di cuocere cibi e di scambiare oggetti tra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità.
Non essendo ammessa impugnazione alcuna avverso le decisioni della Corte costituzionale, ex art. 137, comma 3, Cost., il mantenimento dei due divieti rimossi dal giudice delle leggi appare uno sgarbo istituzionale, evidentemente teso a rinnovare il significato simbolico delle previsioni del regime differenziato; la norma andrà dunque modificata, con l’espunzione delle parti già oggetto di intervento costituzionale ablativo.
Quanto ai programmi di giustizia riparativa, vietati per i soggetti sottoposti a regime differenziato dalla lettera f bis, si consegnano le seguenti considerazioni.
In primo luogo, come già ricordato, la disciplina organica della giustizia riparativa è stata introdotta con lo strumento normativo citato a seguito di legge delega n.134/2021, che prevedeva altresì la possibilità di adozione di disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi, con la stessa procedura, entro due anni dall’entrata in vigore dell’ultimo decreto legislativo adottato. Non essendo ancora scaduto il termine per intervenire, vi è da dire che nessuno degli interventi correttivi disposti sinora è intervenuto sul punto. Vero è che la Corte (sent.n.364/1993) ha già avuto modo di rilevare come (§ 3 Considerato in diritto) «la legge delega […] non occupa, nella gerarchia delle fonti, una posizione diversa da quella di ogni altra legge, con la conseguenza che essa, ricorrendone i presupposti di cui all’art.77 della Costituzione, può essere modificata anche con decreto legge, salva ovviamente la successiva conversione (ord. n.225 del 1992)», ma ciò che qui appunto difetta è proprio il requisito di cui all’art. 77 Cost.
Ed infatti, l’art.43, comma 3, del D.L.vo n. 150/2022 prevede che l’accesso ai programmi di giustizia riparativa è assicurato ai soggetti che vi hanno interesse, mentre il comma successivo dispone che può essere limitato soltanto in caso di pericolo concreto per i partecipanti derivante dallo svolgimento del programma (valutazione da compiersi da parte del magistrato), ed è sempre favorito, senza discriminazioni e nel rispetto della dignità di ogni persona (in ogni stato e grado del procedimento, e senza alcuna preclusione in relazione alla fattispecie di reato e alla sua gravità – art. 44).
Insomma, com’è evidente, la giustizia riparativa si pone in aperta antitesi alle ostatività, valorizzando aspetti e intenti di altra natura.
Non persuade dunque la ragione sottesa in proposito all’intervento di urgenza, che valorizza l’incompatibilità tra regime differenziato con l’accesso ai programmi di giustizia riparativa, “sol che si consideri che la valutazione del Ministro della giustizia circa la particolare pericolosità del detenuto, che sola consente l’adozione del provvedimento emesso ai sensi del comma 2 della stessa disposizione, appare difficilmente conciliabile con il giudizio di segno opposto dell’autorità giudiziaria, circa l’assenza di pericolo concreto per i partecipanti al programma, alla stregua dell’articolo 129 bis c.p.p., in ossequio al canone dell’utilità del programma in relazione ai criteri di accesso di cui all’articolo 1, comma 18, lettera c), della legge 27 settembre 2021, n.134” (così si legge nella Relazione).
Non occorre fare davvero troppi sforzi per cogliere il privilegio accordato dal Governo al Ministro, a discapito delle prerogative concesse al Magistrato, sebbene le valutazioni che quest’ultimo è chiamato a compiere siano totalmente diverse da quella alla base della sospensione delle regole del regime penitenziario ordinario, che per monolitica giurisprudenza costituzionale sul punto è quella di rescindere i collegamenti ancora attuali sia tra i detenuti che appartengano a determinate organizzazioni criminali, sia tra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà. Non altro.
Insomma, il divieto apposto in proposito dal legislatore di urgenza antepone una valutazione ex ante, fondata sull’esigenza appena richiamata, con altra, diversa, da compiersi in concreto da parte del Giudice.
Non può dunque convenirsi con le ragioni indicate nella Relazione per l’intervento di urgenza, “per poter evitare l’insorgere di contrasti applicativi rispetto alla portata decisamente innovativa delle disposizioni in materia di giustizia riparativa”.; in termini costituzionali, si direbbe un intervento incostituzionale perché intempestivo, in quanto prematuro. Per assurdo, ciò giustificherebbe qualunque intervento di urgenza, per timore che qualcuno sostenga un’opinione diversa da quella del Governo.
Si tratta dunque di una valutazione politica che non ha nulla a che vedere con la straordinaria necessità e urgenza, e che a quanto consti risulta confutata dall’ordinanza N.2023/1797 del 17.11.2023, citata e prodotta in sede di audizione.
Per le ragioni esposte, che ci si augura condivise, si propone la soppressione dell’art. 7 in sede di conversione.
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L’articolo 8 reca Disposizioni in materia di strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti; ancora una volta, la disciplina è rimessa ad un decreto del Ministro della giustizia, da adottare ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.
Pur potendosi apprezzare le ragioni a sostegno dell’iniziativa, volta a “rendere più efficienti ed efficaci i processi di reinserimento sociale che hanno un impatto sulla sicurezza e la coesione sociale, valorizzando il modello di integrazione con le risorse del territorio e con gli enti del terzo settore” (così nella Relazione), le ombre prevalgono nettamente sugli aspetti appena prospettati nella riforma.
In primo luogo, soccorrono le aporie e i contrasti con l’intervento di urgenza di una riforma differita nel tempo, nei termini già indicati in precedenza.
In secondo luogo non è dato sapere quali saranno le regole di invio nelle strutture, né quelle che le governeranno, destinate “a rinnovare il sistema dell’esecuzione penale” (ancora la Relazione).
Evidente il rischio di involuzione del sistema verso forme di natura privatistica dell’esecuzione penale, soprattutto in considerazione delle definende modalità di recupero delle spese per la permanenza delle strutture (ad oggi le spese poste a carico del detenuto sono quelle per alimenti ed il corredo, ex art.2, comma 4, o.p.).
Per quanto necessitante di alcuni correttivi, appare più lineare e utile la p.d.l. n. 1064, d’iniziativa dei Deputati Magi, Dori, Gianassi, Serracchiani e Zanella, avente ad oggetto l’istituzione delle case territoriali di reinserimento sociale nonché modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di esecuzione della pena presso le medesime.
Del resto, quale impietosa fotografia dell’inutilità del provvedimento adottato, è sufficiente richiamare due dati: al 31 dicembre 2022, 7.259 persone stavano espiando una pena (anche se residua) non superiore a dodici mesi (1.471 quelle condannate ad una pena inferiore a dodici mesi). Di contro, nella Relazione tecnica al presente DL si legge come, tenuto conto dell’intervento annuo di 7 milioni di euro da parte di Cassa Ammende in favore dei detenuti che non sono in possesso di un domicilio idoneo e sono in condizioni socio-economiche non sufficienti per provvedere al proprio sostentamento (art.8, comma 6), si valuta che (stimata in 93 euro la quota media giornaliera per l’accoglienza, la presa in carico e il programma di reinserimento sociale) “il numero dei destinatari della misura sia pari a 206 detenuti all’anno”.
Ogni commento ulteriore appare superfluo.
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L’articolo 10 reca “Modifiche al codice di procedura penale per l’efficienza del procedimento penale e la semplificazione in tema di misure alternative”.
In questa sede ci si limita a commentare positivamente la previsione di cui al comma 2 (che non incide in alcun modo sul sovraffollamento, riguardando istanze avanzate dalla libertà). Tuttavia, è opportuno che la lettera c) venga modificata, consentendo al Tribunale in sede di opposizione non solo la “conferma o la revoca dell’ordinanza”, ma anche la sostituzione della misura adottata dal Magistrato, seguendo lo schema previsto dall’art. 51 ter, comma 1, o.p.
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Infine, quello che manca, e che si propone di introdurre in sede di conversione.
Com’è noto, le SSUU (sent.n.6551/2021) hanno affermato un principio di diritto, stabilendo che «i fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art.3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35 ter o.p.»
Sul punto, ancora, è significativo il richiamo che il massimo organo della nomofilachia ha fatto a precedenti di legittimità (“Sez. I, n. 35537 del 30/5/2019, Fragalà”), ricordando come (in caso di detenzione in celle di superficie calpestabile netta tra i 3 e i 4 mq) «la valutazione dei concorrenti aspetti dell’offerta trattamentale idonei ad essere posti in bilanciamento con le dimensioni nella cella collettiva deve formare oggetto di specifica motivazione in relazione alle concrete opportunità di cui abbia realmente usufruito ciascun detenuto, non potendo essere fondata su parametri potenziali correlati all’astratta offerta trattamentale presunte nell’istituto penitenziario».
Del resto, com’è noto, la Corte Edu ha già osservato che il malfunzionamento dei rimedi preventivi, in situazioni di sovraffollamento carcerario, dipende ampiamente dalla natura strutturale del fenomeno (Ananyev a altri c. Russia, 10.1.2012), e che la situazione carceraria italiana attuale sia ormai strutturalmente tale da “meritare” non solo un’altra impietosa fotografia internazionale, ma un immediato intervento domestico, appare perfino superfluo rimarcarlo.
La situazione detentiva italiana, nel suo complesso, integra infatti una costante violazione certa dell’art.1, comma 1, cpv. o.p., trattandosi di detenzione non conforme ad umanità e lesiva della dignità dei detenuti.
Violati risultano altresì l’art. 5 (Caratteristiche degli edifici penitenziari), attese le condizioni di overcrowding (si tenga in proposito conto degli spazi – celle/reparto – chiusi), l’art.8 (Igiene personale), per inadeguatezza di lavabi, bagni e docce, e per l’effetto degli artt. 6 (Condizioni igieniche e illuminazione dei locali) e 7 (Servizi igienici) del D.P.R. n. 230/2000. Violati l’art. 13, comma 3 (Locali per la confezione e la somministrazione del vitto. Uso di fornelli), 17, comma 9 (Assistenza sanitaria).
Violato, naturalmente, risulta l’art. 3 Cedu; per inciso, uno dei quattro core rights convenzionalmente inderogabili, ex art.15, comma 2, della Convenzione. Di conseguenza, violato risulta l’art.117, comma 1, Cost.
Violati, per l’effetto, gli artt. 2 e 3 Cost. (“nella misura in cui la dignità umana, la cui primazia tra i valori costituzionali pare indiscutibile […] tanto da essere anteposta nella stessa norma addirittura all’eguaglianza ed alla libertà, è da intendersi diritto inviolabile, presupposto dello stesso art. 27 Cost” (cfr. ord. Trib Sorv. Milano) r.o. n. 82/2013 – sent. n. 279/2013 Corte cost.), l’art. 27, comma 3, Cost., il cui raggio di applicazione non risulta del tutto sovrapponile al primo ma necessita di maggiori elementi a corredo e garanzie a tutela; ed ancora, ovviamente, l’art. 32 Cost.
Com’è noto, con una delle sentenze storiche del Giudice delle leggi (sent.n.26/1999) è stato affermato come «la restrizione della libertà personale secondo la Costituzione vigente non comporta affatto una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell’autorità preposta alla sua esecuzione»; del resto, con la successiva sentenza n.266 del 2009, la Corte ribadì l’invito a “prendere sul serio i diritti dei detenuti.
Con la nota sentenza Torreggiani e altri c. Italia la Corte EDU ha affermato che «spetta ai Giudici nazionali interpretare le condizioni procedurali interne in modo da garantire una tutela giurisdizionale effettiva» (secondo i parametri europei dell’accessibilità, tempestività ed idoneità al fine – e l’art.35 bis o.p. è, per l’appunto, un mezzo per un fine) «dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario». Com’è evidente, si tratta di indicazione cogente, che va ben oltre l’esplicitazione del nesso funzionale tra l’art.13 e l’art.35, comma 1, della Convenzione. Sul punto, anche la Suprema Corte (cfr. Cass. Sez. I, 16.7.2015, n.873) ha preso posizione, affermando che dalla Corte europea è provenuto «un invito molto simile ad un comando di legislazione, deputato ad operare, quale obiettivo indicatore di scopo, voluntas e ratio legis, anche alla stregua di indefettibile criterio ermeneutico, ai fini della corretta applicazione della disciplina per esso introdotta».
Al dunque, poiché il diritto all’effettività della tutela giurisdizionale è un diritto fondamentale, come ricordato di recente nella sent. n.10/2024 (“l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti è essa stessa il contenuto di un diritto”, cfr. sent.n.26/1999) occorrerebbe verificare se vi sia spazio di intervento per il Magistrato.
Più nel concreto, partendo da un approccio che, come già anticipato, non costituisce (non può costituire) la chiave di volta per l’intervento richiesto (“i fatti umani non sono riducibili a una questione di spazi”, come affermato dal compianto A. Langer), occorre ribadire come in questa sede non si intenda valutare la correttezza del criterio adottato dalle SSUU rispetto allo spazio minimo disponibile per ciascun detenuto ed ai correlati fattori compensativi (quaestio afferente il diverso istituto dell’art. 35 ter o.p.), quanto proporre una soluzione che (im)ponga fine ad un abuso convenzionale e costituzionale.
Giova ripeterlo; l’art.4 Racc. R. (2006) prevede che «le condizioni detentive che violano i diritti umani del detenuto non possono essere giustificate dalla mancanza di risorse».
Nonostante la natura non vincolante dello strumento della Raccomandazione, è utile ricordare la Racc. C(2022) sui diritti procedurali di indagati e imputati sottoposti a custodia cautelare e (per quanto qui rileva) sulle condizioni materiali di detenzione, adottata l’8 dicembre 2022 dalla Commissione europea.
Esaurita l’analisi, dovrà dunque valutarsi la possibilità di interpretazione conforme dello strumento esatto dalla Corte EDU con la sentenza Torreggiani e altri c. Italia, che del resto in quel caso (trattandosi di sentenza c.d. pilota) pretendeva, appunto, idonei strumenti (“un sistema di rimedi”) in favore delle persone detenute che subissero violazioni dei propri diritti fondamentali in connessione (e non solo a ragione) con (del)la propria concreta condizione detentiva.
Ciò nonostante, il reclamo giurisdizionale si è rivelato nella prassi giurisprudenziale totalmente inefficace, dal che ne consegue la necessità di un intervento normativo.
Davvero risolutiva in proposito si rivela la recentissima sentenza n. 10/2024.
Muovendo dalla premessa che la sessualità (si badi, non riferendosi quanto affermato nella sent.n.561/1987, ivi richiamata, alla condizione di un detenuto) costituisce “uno degli esponenziali modi di espressione della persona umana”. (§ 3.4 Considerato in diritto), a ciò aggiungendo ivi la Corte che «tra i principi direttivi dell’ordinamento penitenziario declinati dall’art.1 delle legge n.354 del 1975 vi è quello per cui il trattamento deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità umana (comma 1, primo periodo)», si sono richiamati in quell’arresto i più volte affermati (cfr. sentt. 179/2017, 28/2022 e 40/2019) principi concernenti il «volto costituzionale della pena, che è una sofferenza in tanto legittima in quanto afflitta nella misura minima necessaria».
Queste le conseguenze tratte, e quelle che si chiede di trarre per quanto qui rileva: la Corte si è detta «consapevole dell’impatto che l’odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari», ma ha al contempo rilevato che nel caso concreto (come in quello che ci occupa) «il lungo tempo trascorso dalla sentenza n.301 del 2012» (per noi, dalla sent. n. 279/2013, di cui a breve si dirà) «e dalla segnalazione che essa rivolgeva all’attenzione del legislatore, impone tuttavia di ricondurre a legittimità costituzionale una norma irragionevole nella sua assolutezza e lesiva della dignità delle persone».
Si legge ancora nella pronuncia citata come «la complessità dei problemi operativi che ne scaturiscono sollecita ancora una volta la responsabilità del legislatore, ove esso intenda approntare in materia un quadro normativo di livello primario».
Così la Consulta ha richiamato «la già menzionata sentenza n.26 del 1999, con la quale questa Corte, dichiarando l’illegittimità costituzionale degli artt. 35 e 69 o.p., nella parte in cui non prevedevano una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti dei detenuti, chiama(va) il legislatore all’esercizio della funzione normativa che a esso compete, in attuazione dei principi della Costituzione».
Parole chiare, in relazione alle quali è appena il caso di aggiungere una considerazione.
Nel caso scrutinato la Corte ha preso atto dell’inerzia legislativa, dei vulnera conseguenti e dell’impossibilità di risolverli de iure condito, perciò risolvendosi ad adottare una sentenza additiva di principio.
Sarebbe dunque paradossale che un intervento (sacrosanto) apprestato a tutela di un diritto espressione della persona umana (posto che, come autorevolmente affermato – Pugiotto – “la logica dei diritti non è di reciproca esclusione, ma di coesistenza”, e “proprio perché interconnessi, l’attuazione della sent.n.10/2024 costringerà a sciogliere anche altri nodi irrisolti: su tutti, quello di strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento”) non vedesse un suo seguito anche per il ripristino della legalità delle condizioni detentive, ove contra legem.
E’ ancora il caso di rilevare l’impossibilità di estendere – allo stato - la diretta applicazione della sent.n.99/2019 emessa dalla Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.47 ter, comma 1 ter, o.p., «nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il Tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47 ter», attesa la diversità dei vulnera.
Per questa ragione, attesa la lacuna dell’art. 147 c.p., l’unica via percorribile (in disparte la possibilità di nuova questione di legittimità costituzionale) appare quella della norma di chiusura e salvaguardia dei diritti dei detenuti rispetto all’esposizione a condizioni inumane e degradanti.
Inevitabile, nella prospettazione che qui si propone, il riferimento al precedente costituzionale (sent.n.279/2013), partendo dalla maturata consapevolezza che, come autorevolmente affermato (Cartabia) “le leggi cambiano, la loro interpretazione evolve […] le loro potenzialità applicative sono aperte a implicazioni sempre nuove. La legge è un corpo vivente: esso preserva la sua identità anche se la singola cellula che lo compone è soggetta a un incessante processo di cambiamento, di decadenza e di rinnovamento”.
Prima di esaminare nel dettaglio la sentenza citata, occorre rilevare come quella pronuncia sia arrivata a poca distanza dall’umiliante condanna convenzionale emessa nei confronti del nostro Paese, ciò che forse, come osservato in dottrina (Dolso) avrebbe suggerito “ancor più consigliabile l’intervento legislativo” (poi arrivato, ma insoddisfacente per le ragioni già indicate).
Diversamente da allora, non sfugge a nessuno come siano ormai passati undici anni da quella pronuncia, con la quale la Corte affermò (§ 8 Considerato in diritto) che «nel dichiarare l’inammissibilità […] deve tuttavia affermare come non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia (sentenza n. 23 del 2013)».
Del resto, nel § 5 del Considerato in diritto della sent. n. 279/2013 la Corte osservò come «l’obiettivo dei rimettenti del resto non è quello di introdurre nel sistema uno strumento capace di porre termine al sovraffollamento carcerario, ma quello di apprestare una tutela per la persona che si trovi a subire un trattamento penale non conforme ai principi fissati dall’art. 27, terzo comma Cost».
Si tratta di una considerazione da prendere sul serio (sent. n. 266/2009), perché impegna a misurarsi con il tempo trascorso dal precedente citato, con l’inerzia del legislatore, e così a realizzare uno strumento di tutela per il singolo detenuto che versi in condizioni detentive disumane (cfr. Corte Edu, Prima Sezione, decisione 28.5.2020, Berlioz c. Italia; Corte Edu, Prima Sezione, decisione Spina c. Italia, 22.10.2020
E’ davvero impossibile del resto continuare a ignorare lo spaventoso incremento dei suicidi in carcere, così come il galoppante aumento dei detenuti negli ultimi tre anni, in tutti gli istituti italiani, con progressione che non accenna a fermarsi e che ha raggiunto un punto ormai intollerabile.
La Corte lo ha già fatto, e l’ha già scritto (sent. n. 149/2018): «anche se qualunque decisione di accoglimento produce effetti sistemici, questa Corte non può tuttavia negare il suo intervento a tutela dei diritti fondamentali per considerazioni di astratta coerenza formale nell’ambito del sistema (sentenza n.317 del 2009). Spetterà al legislatore individuare gli opportuni rimedi alle eventuali disparità di trattamento che si dovessero produrre in conseguenza della presente pronuncia» (cfr. anche sent. n. 32/2014).
Ora è il momento della legge.
Ed ancora, con le parole della Corte si è detto (sent. n. 279/2013, § 7.2 Considerato in diritto): «deve riconoscersi che il sovraffollamento carcerario può nella realtà assumere dimensioni e caratteristiche tali da tradursi in trattamenti contrari al senso di umanità e da rendere al tempo stesso impraticabili i rimedi interni di cui si è parlato” (quelli dell’epoca – corsivo nostro – ma il discorso non cambia, purtroppo, anche per la situazione odierna). “In questi casi occorre un rimedio estremo, il quale, quando non sia altrimenti possibile mediante le ordinarie misure dell’ordinamento penitenziario, permetta una fuoriuscita del detenuto dal circuito carcerario, eventualmente correlata all’applicazione nei suoi confronti di misure sanzionatorie e di controllo non carcerarie».
Così avviandosi alla conclusione, appare utile ricordare soluzioni già sperimentate in altri plessi ordinamentali (californiano e tedesco), sollecitando uno sguardo che in altre occasioni la Corte non si è astenuta dal rivolgere, alla ricerca di soluzioni adatte (cfr. sent. n. 32/2020), a dimostrazione del condiviso problema e delle possibili soluzioni adottate, anche fuori dai confini nazionali.
Ma il tempo è scaduto; ove il legislatore si risolvesse nei termini qui proposti la decisione del Giudice non costituirebbe affatto una disordinata soluzione, che «in modo casuale determinerebbe disparità di trattamento tra i detenuti, i quali si vedrebbero o no differire l’esecuzione della pena in mancanza di un criterio idoneo a selezionare chi debba ottenere il rinvio dell’esecuzione fino al raggiungimento del numero dei reclusi compatibile con lo stato delle strutture carcerarie».
Al contrario; diversamente da quanto (meritoriamente) stabilito con la sent. n. 10/2024 la soluzione non necessiterebbe di alcun adempimento consistente in obblighi di fare, ma esclusivamente di una verifica, caso per caso, del rispetto delle regole date, ed in definitiva della Costituzione, delle condizioni degli istanti anche in ordine alla capienza regolamentare degli istituti.
Al più, in linea con i distinguo operati nella sent. n. 10/2024 (che ha negato la possibilità di applicazione per i detenuti sottoposti a regime differenziato e/o alla sorveglianza particolare), potrebbe tenersi conto di quanto stabilito dalla Corte costituzionale nella sent.n.99/2019 (§ 5.2 Considerato in diritto), che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 47 ter, comma 1 ter o.p., nella parte in cui non prevede(va) che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il Tribunale di sorveglianza potesse disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47 ter, “permettendo di tener conto della eventuale pericolosità sociale residua del condannato e della connessa necessità di contemperamento delle istanze di tutela del condannato medesimo con quelle di salvaguardia della sicurezza pubblica (ordinanza n. 255 del 2005)”
Com’è noto, l’art.13 della Convenzione (diritto a un ricorso effettivo) prevede che “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”; l’art. 53 (salvaguardia dei diritti dell’uomo riconosciuti) prevede invece che “nessuna delle disposizioni della presente Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Parte contraente o in base a ogni altro accordo al quale essa partecipi”. Tale ultima previsione, lungi dal rivelarsi una formula rituale, funziona come livello minimo e indisponibile di garanzia, derogabile da parte degli Stati solo verso l’alto. Si tratta di una clausola di coordinamento passivo tesa ad evitare l’adozione di interpretazioni che pregiudichino livelli di tutela più elevati a livello interno o internazionale, con l’obiettivo di salvaguardare tutte le risorse a tutela dei diritti dell’uomo di cui l’individuo dispone.
Ciò premesso, non può ricavarsi dalla lettura del precedente costituzionale n. 279/2013 l’obbligo di esaurimento delle vie di ricorso interne, previsto dall’art. 35 CEDU quale presupposto per adire la Corte europea.
Del resto, a tal proposito, la Corte EDU con la sentenza Torreggiani e altri c. Italia ha affermato che «spetta ai Giudici nazionali interpretare le condizioni procedurali interne in modo da garantire una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario» (secondo i parametri convenzionali dell’accessibilità, tempestività e idoneità al fine).
Com’è evidente, si tratta di indicazione cogente, che va ben oltre l’esplicitazione del nesso funzionale tra l’art.13 e l’art.35, §1, della Convenzione
Breve; l’inefficacia del reclamo giurisdizionale in ordine al problema dell’overcrowding costituisce un dato notorio (in Dottrina – Dolso – si è del resto sostenuto che «in relazione al problema del sovraffollamento carcerario, ai vari rimedi suscettibili di porvi rimedio, e in relazione al problema di individuare concreti rimedi rispetto all’oggettiva impossibilità di porre termine, da parte dell’amministrazione, a situazioni di detenzione illegittima, attraverso la rapida fuoriuscita del detenuto dal circuito carcerario, il provvedimento in parola [35 bis o.p.] rimane muto»).
Quanto alla stessa Corte EDU, per adire la quale è necessario l’esaurimento delle vie interne, si è già rilevato come anche in quel campo per ciò che attiene la tutela dei diritti fondamentali la norma subisce un’attenuazione in favore del ricorrente nell’interpretazione giurisprudenziale ex art. 32 della Convenzione (cfr., ex multis, Ananyev and others v. Russia, 10.1.2012, § 95 “The Court would emphasise that the application of the rule must make due allowance for the fact that it is being applied in the context of machinery for the protection of human rights that the contracting Parties have agreed to set up. Accordingly, it has recognised that the rule of domestic remedies must be applied with some degree of flexibility and without excessive formalism (see Cardot v. France, 19 March 1991, § 34, Series A, no. 200). It has further recognized that the rule of exhaustion is neither absolute nor capable of being applied automatically: in reviewing whether it has been observed it is essential to have regard to the particular circumstances of each individual case (see Van Osterwijck c. Belgium, 6 november 1980, § 35, Series A, no.40). This means amongst other things that it must take realistic account not only of the existence of formal remedies in the legal system of the contracting Party concerned, but also of the general legal and political context in which they operate as well as the personal circumstances of the application). Insomma, “there is no obligation to have recourse to remedies which are inadequate or ineffective”, C.edu, Aksoy v. Turchia, 18.12.1996, § 52).
Più di recente, con sentenza del 23.5.2024 (Requete no. 2507/19, Affaire Contrada v. Italie, N.4), la Prima Sezione (§ 50) ha affermato (ritenendo la violazione dell’art.8 della Convenzione) che “l’article 35§1 de la Convenction ne prescrit toutefois l’épuisement que des recours à la fois relatifs aux violations incriminées, disponibles et adéquats. Un recours est effectif lorsqu’il est disponible tant en théorie qu’en pratique a l’époque des faits, c’est à dire lorsqu’il est accessible, est suscetible d’offrir au requerante le raddressement de ses griefs et présente des perspectives raisonnables de succès (Sejdovic c. Italie [GC], no.56581/00, § 46; Paksas c. Lituanie [GC], no 34932/04, § 75). En ce qui concerne la charge de la preuve, il encombe au Govuvernement excipant du non épuisement de coinvencre la Cour que le recours était effectif et disponible tant en theorie qu’en pratique à l’époque des faits”.
Infine, con decisione del 4.7.2024, (Application n.29926/20, Case of A.Z v. Italy), il Comitato (a cagione del fatto che il caso scrutinato è oggetto della giurisprudenza consolidata della Corte) ha emesso decisione con la quale ha ritenuto all’unanimità la violazione dell’art. 3 della Convenzione da parte dell’Italia, per non aver fornito adeguata tutela ad un soggetto detenuto che per ben cinque volte, in tre carceri diverse, aveva tentato il suicidio; ai fini che qui rilevano si evidenzia che il Comitato ha respinto l’eccezione formulata dal Governo di mancato esaurimento delle vie interne, ribadendo che (§ 26) “the Court has already found that, for a preventive remedy concerning allegedly inhumane conditions of detention to be effective, it must be capable of providing relief in reasonably short time-limits (see Neshkov and Others v. Bulgaria, no. 36925/10 adn 5 others, § 183, 27 January 2015, and Longin v. Croatia, no. 49268/10, § 41, 6 November 2012). It has, for example, considered excessive a duration of between four and half months to two years (Fenech v. Malta, no.19090/20, § 41, 1 March 2022) or of five months (Yengo v. France, no. 50494/12, § 61, 21 May 2015.
In considerazione di tutto quanto sin qui rilevato, al fine di soddisfare le esigenze di umanizzazione della pena si propone di intervenire sull’art.147 c.p. nei seguenti termini: all’art. 147 c.p., comma 1, aggiungere il numero 4) «se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita in condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretata dal Giudice e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».