A proposito del Progetto di legge n. A.C. 2059 (Costa e altri)
Nel testo sono presentate le osservazioni sulla proposta di legge n. 2059 (Costa e altri) svolte nell’audizione alla Commissione giustizia della Camera dei deputati il 4 dicembre 2019. È stato rielaborato tenendo conto delle domande formulate in quella sede.
1. Contenuto essenziale della proposta di legge n. 2059 (Costa e altri) è l’abrogazione delle disposizioni della legge n. 9 gennaio 2019 n. 3 che hanno statuito il blocco della prescrizione dalla data della sentenza di primo grado (il lessico della sospensione lascia in ombra che la sospensione è per sempre), abrogando e sostituendo disposizioni che erano state introdotte dalla legge n. 103/2017 (sospensione della prescrizione per tempi definiti – un anno e sei mesi – in pendenza dei giudizi d’appello e di cassazione, a partire dal termine di deposito della sentenza precedente).
Il modello costruito dalla legge n. 103/2017 già comportava un sensibile aumento dei tempi reali di prescrizione (con conseguente prevedibile riduzione del numero delle declaratorie di prescrizione) peraltro evitando la possibilità di derive indefinite. La legge n. 3/2019 lo ha modificato prima che ne venissero sperimentati gli effetti concreti; apre alla possibilità di condanne pronunciate dopo che siano decorsi i termini di prescrizione tuttora astrattamente previsti nell’art. 157 c.p., anche in un tempo indefinitamente lontano dal commesso reato.
Il rinvio dell’entrata in vigore al 1° gennaio 2020 è stato politicamente collegato all’esigenza di riforme processuali, il cui obiettivo è evitare che diventi realtà proprio lo scenario teoricamente reso possibile dal blocco della prescrizione, cioè processi di durata indefinita e condanne pronunciate dopo che siano decorsi i termini di prescrizione astrattamente previsti. È un obiettivo che sottende una chiara consapevolezza dei costi e rischi della riforma del 2019.
Poiché la prescrizione del reato è un istituto di diritto sostanziale, governato dal principio di legalità ex art. 25 Cost. (come ha sempre affermato la Corte costituzionale, per es. nelle pronunce sul caso Taricco: ordinanza n. 24/2017, e sentenza n. 115/2018), la modifica in malam partem (il blocco definitivo della prescrizione, in via definitiva per tutti i reati a partire dalla sentenza di primo grado) si applicherebbe ai reati commessi a partire dal 2020. Una bomba a scoppio ritardato, destinata ad esplodere non subito, ma in un tempo futuro, gradualmente, in ragione dei tempi di prescrizione previsti dall’art. 157 c.p., cioè a partire dai reati meno gravi.
Sul piano della coerenza razionale, appare contraddittoria la costruzione di un modello normativo astratto (possibilità di processi di durata indefinita e di condanne in un tempo indefinito) che si vuole evitare diventi realtà. L’ambigua valenza del blocco della prescrizione appare evidente, anche nell’ottica di chi lo ha proposto auspicando (ragionevolmente) che i suoi effetti concreti (condanne molto tardive) siano ridotti al minimo, possibilmente azzerati.
Sostenitori del blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado hanno speso la previsione che possa disincentivare impugnazioni: francamente è un’ipotesi poco plausibile, impugnazioni vengono presentate in tutti i casi vi sia l’interesse ad allontanare comunque l’amaro calice di una condanna prevedibile.
2. La prescrizione del reato per decorso del tempo è un istituto ben radicato negli ordinamenti penali moderni. Pur in assenza di una esplicita indicazione nella Costituzione, ha un sicuro fondamento costituzionale, come richiesto dalla Corte costituzionale (sentenza n. 148 del 1983) per le cause di non punibilità in genere: “abbisognano di un puntuale fondamento, concretato dalla Costituzione o da altre leggi costituzionali”, “non necessariamente con disposizione espressa, purché l’esenzione da pena sia il frutto di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco”. Posto che lo scorrere del tempo ha rilievo per la convivenza sociale, il problema se e quale rilevanza riconoscere al fattore tempo, in relazione alle risposte al reato, può essere, anzi deve essere ragionevolmente considerato dal legislatore, nell’esercizio della discrezionalità politica a lui affidata dal principio di legalità ed alla luce dell’insieme dei principi costituzionali, in primis i principi sulla pena (art. 27) e il principio d’eguaglianza/ragionevolezza (art. 3).
Declaratorie di prescrizione del reato prendono atto di un’obiettiva defaillance del sistema; non necessariamente significano impunità di colpevoli. Di fatto sono spesso pronunciate, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., in assenza di un accertamento di responsabilità, sul presupposto che non risulti evidente l’infondatezza dell’ipotesi d’accusa. La declaratoria di prescrizione è una via d’uscita un po’ ambigua in situazioni d’incertezza, o d’incapacità della macchina inquisitoria a smaltire il carico delle ‘notizie di reato’, anche in situazioni in cui un esame più attento avrebbe potuto portare a una declaratoria d’infondatezza della notizia di reato. La prescrizione può coprire una defaillance non già nella repressione di reati, ma nel riconoscimento dell’infondatezza di accuse.
In ogni caso, la prescrizione è un istituto che si giustifica in positivo, come modo di riconoscere la priorità di interessi diversi rispetto all’accertamento e/o alla punizione di un reato, in ragione del tempo trascorso e in esito a un ragionevole bilanciamento legislativo degli interessi in gioco.
3. Per la disciplina della prescrizione, il problema primo e principale è la determinazione dei tempi necessari a prescrivere. Viene in considerazione tutto il tempo a partire dal fatto (nella dimensione processuale, il tempo del fatto cui si riferisce l’ipotesi d’accusa). È da quel momento che comincia a decorrere il tempo della possibile rilevanza del fatto per la società e nelle valutazioni sociali: il tempo della memoria e di un possibile oblio. I tempi del processo sono solo un frammento, importante ma non di per sé decisivo.
La quantificazione dei tempi di prescrizione dovrebbe essere fondata su un bilanciamento di esigenze contrapposte, di valori costituzionali in gioco, come chiede Corte cost. n. 148/1983. È ragionevole differenziare in ragione della gravità del reato, ed è questo il criterio di base del nostro ordinamento. L’imprescrittibilità di principio è limitata a una fascia selezionata di delitti gravissimi.
Entro l’assetto dei tempi di prescrizione nell’ordinamento italiano, rimodulato in vario senso (bene o meno bene) dalle novelle del 2005 e del 2017, il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado (sia di assoluzione sia di condanna) introduce una torsione fortissima, una vera e propria svolta di sistema: a quel punto, qualsiasi reato diverrebbe imprescrittibile; anche i reati più bagatellari, per i quali in via di principio sono mantenuti tempi di prescrizione non lunghi. Effetto prevedibile, allo stato, è un ulteriore appesantimento di un sistema già troppo gravato. Processi per reati bagatellari, arrivando per primi alla scadenza di tale termine, sarebbero i primi a porre il problema: un appesantimento della macchina giudiziaria con processi per i reati meno gravi e più numerosi.
La previsione legislativa del blocco della prescrizione ha avuto l’effetto di coagulare una dura opposizione della cultura giuridica. Una durezza giustificata dal significato ‘di sistema’ della previsione di una giustizia penale che potrebbe restare pendente per un tempo indefinito, per qualsiasi ipotesi di reato, anche il più bagatellare. Una rottura degli equilibri di sistema, dei bilanciamenti fra i diversi interessi in gioco.
Quali che ne siano, sul piano quantitativo, gli effetti concreti, il blocco della prescrizione in corso di processo solleva seri problemi di legittimità costituzionale, in relazione a principi relativi al diritto penale sostanziale. La metamorfosi della maggior parte dei reati da prescrittibile a imprescrittibile, e l’equiparazione (nell’esito di imprescrittibilità) di reati per i quali in via di principio sono previsti tempi di prescrizione differenziati, pongono problemi di compatibilità con il principio d’eguaglianza/ragionevolezza (art. 3 Cost.): intrinseca irragionevolezza dell’imprescrittibilità resa possibile per qualsiasi reato, in contrasto con la ratio del sistema costruito su tempi di prescrizione differenziati. La possibilità di condanna in tempi indefinitamente lontani del tempo del commesso reato pone problemi di compatibilità con le esigenze che nel lessico costituzionale sono espresse dall’idea della tendenza rieducativa della pena (art. 27 Cost).
I problemi di legittimità costituzionale acquisterebbero rilevanza in processi che non siano ancora stati definiti con sentenza definitiva, alla scadenza del termine di prescrizione astrattamente previsto. Una mina vagante che accompagnerebbe l’entrata in vigore delle norme in discussione.
Questi problemi sono stati messi in evidenza dall’Unione camere penali nell’appello alle istituzioni politiche che ha accompagnato l’astensione dalle udienze nella settimana dal 2 dicembre: “il penale perpetuo, che si appresta ad entrare in vigore, appiattisce indiscriminatamente la misura del tempo dell’oblio, uniformando dopo il primo grado tanto i delitti più gravi, quanto le più bagatellari delle contravvenzioni”.
Viene in rilievo anche il principio di ragionevole durata del processo, oggi iscritto nell’art. 111 Cost., cui il mondo forense è particolarmente sensibile. Non è il fondamento della prescrizione, che è istituto di diritto sostanziale; non uno strumento ‘sanzionatorio’ (in senso improprio, metaforico) di disfunzioni del processo. Rispetto al problema prescrizione viene in rilievo la distanza temporale fra il reato e la pena: i tempi del processo ne fanno parte, insieme ai tempi che abbiano eventualmente preceduto l’acquisizione della notizia di reato e l’avvio di indagini. Sul piano del diritto penale sostanziale – delle scelte sulla risposta al reato – il tempo del processo può venire in rilievo in quanto la sua durata concorra al maturare del tempo dell’oblio.
Per il caso di superamento di termini di durata del processo, o meglio di singole fasi, potrebbe essere ragionevolmente prevista la cessazione di tutte le conseguenze pregiudizievoli legate alla sua pendenza, sul modello della disciplina delle misure cautelari personali: caducazione anche delle misure cautelari reali (salvo il sequestro probatorio), e cessazione di qualsiasi conseguenze pregiudizievole che fosse collegata alla pendenza del processo.
Rispetto a problemi relativi alla punibilità – al se o al quantum della pena – la considerazione dei tempi e dei costi del processo potrebbe ragionevolmente venire in rilievo in collegamento con valutazioni sostanziali, che tengano conto anche della gravità del reato sub judice (soprattutto se si tratta di delitti gravi) e dei costi (in senso lato, non solo e non primariamente economico) che il processo abbia avuto per la vita dell’imputato.
4. Nel mondo dei magistrati si registrano posizioni variegate. Le declaratorie di prescrizione sono sentite come dispersione del precedente lavoro, e le impugnazioni della difesa come surrettizia modalità per ottenere l’estinzione del reato. Un approccio psicologicamente comprensibile, ma che tende a scaricare sull’esercizio del diritto di difesa, elemento costitutivo del giusto processo, problemi che sono invece della macchina istituzionale.
Nell’ottica della celerità del processo è stata prospettata l’abolizione dell’appello. Rispetto alla nostra tradizione, sarebbe una scelta dirompente, relativa alla struttura del sistema. Problemi di queste dimensioni – di struttura del sistema processuale – vanno esaminati avendo riguardo alle funzioni del processo e agli equilibri del giusto processo. Il collegamento col problema prescrizione è riduttivo e fuorviante; non è l’angolo visuale da cui i problemi del processo (del giusto processo) possano essere ragionevolmente impostati.
Emblematica d’un approccio distorto ai problemi processuali è la proposta di abolire il divieto di reformatio in peius nel giudizio d’appello, in assenza d’impugnazione del PM. È motivata in un’ottica di deterrenza, scoraggiare l’esercizio della facoltà d’impugnazione da parte dell’imputato: la minaccia di una sanzione (una maggior pena) affidata ad una supplenza del giudice rispetto al PM che non abbia ritenuto di proporre appello. Ciò comporta una duplice distorsione: sia rispetto ai criteri di commisurazione della pena, sia rispetto agli equilibri del processo, del contraddittorio fra accusa e difesa dinanzi a un giudice imparziale. Potere di riformare in pejus, in assenza d’impugnazione del PM, significherebbe attribuire al giudice un potere d’ufficio sbilanciato in ottica funzionalistico-repressiva.
Nel recente convegno dell’Associazione Nazionale Magistrati, la relazione del Presidente dott. Poniz (un magistrato del PM) ha espresso sul problema prescrizione un orientamento diverso in parte da quello qui sostenuto (è favorevole al blocco della prescrizione dopo una sentenza di condanna) dentro un discorso circa lo stato complessivo del sistema penale, che ne rileva l’obiettiva ipertrofia e consistenti bisogni di riforma, sia sul piano del diritto sostanziale sia su quello del diritto processuale e dell’organizzazione del servizio giustizia. Un discorso ben presente nel mondo dei magistrati (un esempio: M. Guglielmi e R. De Vito, Quale futuro per il garantismo? Riflessioni su processo penale e prescrizione, nel sito on line di Questione giustizia, 20 novembre 2018) che parte da premesse comuni a quelle prevalenti nella cultura giuridica liberale.
5. Per le ragioni sopra riassunte – più sostanziali di quelle esposte nella relazione dei proponenti – la mia valutazione sulla proposta di legge n. 2059 è pienamente favorevole.
La prescrizione è un farmaco ragionevolmente previsto e dosato dal diritto penale sostanziale, per prevenire una patologia sostanziale, cioè l’ingiustizia di una giustizia punitiva troppo tardiva in rapporto alla gravità del reato. Il blocco della prescrizione previsto dalla legge n. 3/2019 è una scelta divisiva, che in nome di una giustizia punitiva pensata astraendo dalla dimensione temporale sposta gli equilibri della giustizia penale verso il polo dell’autorità. Azzera la considerazione di qualsiasi interesse di giustizia, che in ragione del tempo trascorso possa contrapporsi all’accertamento e/o alla punizione di un reato. Anche i proponenti del blocco se ne rendono conto, come mostra il collegamento politico con riforme processuali di là da venire, che dovrebbero neutralizzare i possibili effetti del blocco, cioè processi lunghissimi e condanne fuori tempo massimo.
Rimuovere il blocco della prescrizione significherebbe rimuovere un ostacolo al confronto su problemi di fondo, derivanti dall’obiettiva ipertrofia del diritto penale e da disfunzioni del processo che il blocco della prescrizione potrebbe aggravare.