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24 Aprile 2020


La Consulta ristabilisce la piena discrezionalità del giudice per la comparazione tra recidiva e diminuente della seminfermità mentale

Corte cost., sent. 24 aprile 2019, n. 73, Pres. Cartabia, Red. Viganò



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Per legge l'ordinanza di rimessione (Trib. Reggio Calabria, 12 gennaio 2019, R.O. 121/2019, in G.U. 36/2019), clicca qui.

 

Diamo sintetica notizia, in attesa di eventuale commento critico, d’una rilevante sentenza della Corte costituzionale in materia di recidiva e di imputabilità. Il provvedimento, in particolare, è valso a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 89 cod. pen. (vizio parziale di mente) sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. (recidiva reiterata). È dunque caduta, con metodo casistico ormai più volte sperimentato, una delle preclusioni introdotte dalla legge cosiddetta ex Cirielli (n. 251 del 2005) a proposito del trattamento sanzionatorio del soggetto che commetta un delitto non colposo trovandosi già nella condizione di recidivo: la diminuente della seminfermità, ove il caso concreto lo richieda, potrà essere dichiarata anche prevalente sulla recidiva reiterata.

 

1. La norma censurata.

L’art. 69 cod. pen. è la norma di parte generale destinata a regolare il caso del concorso, in una medesima fattispecie concreta, d’una pluralità di circostanze, che risultino tra loro di segno opposto: il caso cioè ove occorra applicare, in potenza, sia aumenti di pena che diminuzioni, una volta stabilita la sanzione base per il reato in contestazione.

L’originaria disciplina del codice penale, di segno com’è noto assai restrittivo, è stata progressivamente incisa dal legislatore, dapprima secondo una logica di riduzione dei livelli sanzionatori tipici d’un codice di concezione autoritaria: di qui la riforma degli anni ’70 (legge n. 220 del 1974, di conversione del decreto-legge n. 99 del 1974), che aveva completamente “liberalizzato” il giudizio di comparazione, lasciando che entrassero nel gioco con le attenuanti, e restassero eventualmente soccombenti, anche le circostanze inerenti alla persona del colpevole (compresa dunque la recidiva) e quelle con previsioni edittali specifiche, cioè (anche) aggravanti in precedenza assistite da un più favorevole regime di applicazione. Finita quella stagione, era iniziato un procedimento inverso, volto a ridurre la discrezionalità giudiziale nel verso delle soluzioni più favorevoli al reo: di qui, la previsione di limiti alla comparazione sfavorevole di aggravanti speciali introdotte nelle singole fattispecie incriminatrici (a mero titolo di esempio, si veda l’ultimo comma dell’art. 280 c.p., nella versione introdotta dalla legge n. 34 del 2003); di qui il già ricordato intervento di diretta modificazione dell’art. 69 cod. pen., maturato nel contesto di un provvedimento legislativo (la legge 251 del 2005) complessivamente volto ad enfatizzare il ruolo della recidiva nella determinazione delle pene concretamente inflitte dai giudici; di qui, infine, la disposizione introdotta mediante l’art. 69-bis, che altera il giudizio di comparazione per classi di reati ed in relazione a specifiche fattispecie circostanziali (d.lgs. n. 21 del 2018).

La lettera della disposizione censurata, nel testo vigente, recita di conseguenza: «le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i casi previsti dall'articolo 99, quarto comma, nonché dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi è divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti, ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato».

Va per altro subito aggiunto che la portata precettiva del divieto di subvalenza per la recidiva è stata progressivamente erosa da interventi della Corte costituzionale, che hanno dichiarato illegittimo il quarto comma dell’art. 69 cod. pe. “nella parte in cui” si applica(va) nel rapporto con specifiche attenuanti. Eccone un sintetico elenco, che prescinde da un risalente sentenza resa riguardo al testo previgente della stessa norma a proposito dei reati commessi da minori (sentenza n. 168 del 1993).

Potevano già dichiararsi prevalenti sulla recidiva reiterata, fino all’odierna decisione: l’attenuante di cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. 309 del 1990 (sentenza n. 251 del 2012), che per la verità è successivamente venuta meno in favore di un’autonoma fattispecie di reato segnata, appunto, dalla lieve entità del fatto di narcotraffico; l’attenuante di cui al secondo comma dell’art. 648 cod. pen., relativamente alla ricettazione di particolare tenuità (sentenza n. 105 del 2014);  l’attenuante di cui al terzo comma dell'art. 609-bis  cod. pen., concernente la violenza sessuale di minore gravità (sentenza n. 106 del 2014); l’attenuante  di cui al comma 7 dell'art. 73 del citato d.P.R. n. 309 del 1990, a proposito dei comportamenti volti a prevenire conseguenze ulteriori del reato, anche mediante collaborazione con l’autorità giudiziaria (sentenza n. 74 del 2016); l’attenuante di cui al terzo comma dell'art. 219 del r.d. n. 267 del 1942, con riferimento al danno patrimoniale di speciale tenuità nei fatti di bancarotta e ricorso abusivo al credito (sentenza n. 205 del 2017).

Resta chiaro che, alla luce appunto del metodo “casistico” adottato dalla Corte, il divieto di subvalenza della recidiva reiterata era ancora valevole per ogni altra circostanza attenuante, compresa quella applicabile nei confronti di chi, pur risultando capace di intendere e volere, risultasse affetto da un “vizio di mente tale da diminuire grandemente una siffatta capacità.

 

2. I parametri costituzionali e le censure.

Anche nel caso di specie il giudice rimettente (il Tribunale ordinario di Reggio Calabria) si è mosso secondo una logica specificamente calibrata sulle caratteristiche della diminuente il cui effetto restava parzialmente inibito dalla norma censurata.

Evocando i parametri ormai tipici delle questioni in tema di proporzionalità della pena (sia che si tratti di valori edittali, sia che si tratti appunto di regime delle circostanze), cioè gli artt. 3, 27, commi primo e terzo, Cost., ed evocando altresì la norma costituzionale che garantisce il diritto alla salute di qualsiasi individuo (art. 32 Cost.), il giudice a quo ha prospettato l’illegittimità del quarto comma dell’art. 69 cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del vizio parziale di mente,  di cui all’art. 89 cod. pen., sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Il caso di specie muove da una valutazione peritale secondo cui gli imputati sono affetti da gravi disturbi della personalità, così da restare integrata, appunto, la diminuente dell’art. 89 cod. pen. Nella propria ordinanza, così come sempre preteso dalla Consulta ai fini della dimostrazione di rilevanza della questione (sentenza n. 120 del 2017 e ordinanza n. 145 del 2018), il giudice a quo ha illustrato anche le ragioni per le quali ritiene di dover fare effettiva applicazione della recidiva (ché altrimenti, com’è ovvio, non dovrebbe applicare la norma censurata). Ecco dunque in evidenza la tematica peculiare posta dal concorso tra recidiva e vizio parziale di mente: se davvero possa farsi addebito d’una capacità criminale e d’un grado di colpevolezza particolarmente intensi ad una persona che, per definizione, governa solo molto parzialmente il processo di cognizione e volizione sotteso al fatto di reato.

Il rimettente non ha ignorato la discussione dottrinale sui rapporti tra imputabilità e colpevolezza, prendendo anzi posizione rispetto ad essa, ma ha centrato un argomento principale: una sorta di automatismo tra vizio parziale di mente ed esclusione della recidiva varrebbe non solo ad ignorare la concreta fisionomia dei singoli fatti, ma anche ad indurre una ingiusta assimilazione tra soggetti nella medesima condizione di infermità, e però ben distinguibili in base alla loro condotta anteatta (ed in effetti, non a caso, la giurisprudenza di legittimità si pronuncia per la compatibilità tra recidiva e seminfermità). Dunque è ben possibile, sempre a parere del Tribunale, che sia necessario in un caso concreto fare applicazione della recidiva reiterata, e constatare però, in sede di valutazione generale del fatto, che una pena proporzionata possa essere irrogata solo attraverso un giudizio di subvalenza della medesima recidiva.

Com’è noto, il principio di proporzionalità impone che la pena possa essere commisurata dal giudice in rapporto alla gravità concreta del fatto sottoposto al giudizio, gravità misurabile anche sul piano soggettivo. La regola costituzionale dell’uguaglianza impone il differente trattamento di situazioni diseguali, e la finalizzazione rieducativa della pena esige che la pena stessa, per qualità e quantità, possa essere recepita dall’interessato quale reazione adeguata al crimine commesso, senza implementare pulsioni antisociali a carattere reattivo. D’altra parte, la responsabilità penale è autenticamente “personale” solo se conduce ad un trattamento sanzionatorio calibrato anche sulla rimproverabilità effettiva della condotta.

Proiettati sullo specifico sfondo del giudizio di comparazione tra circostanze, secondo il giudice a quo, i principi enunciati impongono al legislatore di non «trasmodare nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio», e di non «giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale». Ovviamente, nell’ordinanza di rimessione, sono richiamati i precedenti della giurisprudenza costituzionale che già avevano inciso sulla portata della norma oggetto di censura (supra, § 1), senza nascondere che finora l’intervento della Consulta si era concentrato su situazioni di irragionevole prevalenza del tipo d’autore rispetto a caratteristiche obiettive di specifici fatti criminosi, mentre nella specie si trattava di recuperare una circostanza ad effetto comune e di natura soggettiva. A quest’ultimo proposito, per altro, si è posto in luce il carattere generalizzato dell’esigenza di proporzionalità, aggiungendo che la riforma del 2005 ha ribaltano un canone essenziale del sistema originario del codice, ove le circostanze inerenti alla persona del colpevole, tra le quali la seminfermità, vantavano uno status di applicazione privilegiata rispetto alle altre.

 

3. La risposta della Corte.

Come già si è anticipato, il dispositivo della sentenza è nel senso della fondatezza delle questioni sollevate, con la sola esclusione delle censure riferibili all’art. 32 Cost., non valutate perché “assorbite” dall’accertata violazione degli ulteriori parametri evocati dal rimettente.

Un solo cenno alla «(notoriamente controversa) ricostruzione dell’imputabilità come mero presupposto del giudizio di colpevolezza, ovvero come elemento costitutivo di tale categoria dogmatica»: dopo aver così definito il problema, la Corte ne ricusa esplicitamente la trattazione. Occorreva solo risolvere, nella specie, una eccezione di inammissibilità proposta dall’Avvocatura generale dello Stato (per difetto di motivazione sulla rilevanza). Ed è noto, a questo riguardo, come sia necessario, ma anche sufficiente, che la rilevanza della questione sia enunciata dal giudice a quo in misura adeguata ed in termini di plausibilità, condizione nella specie soddisfatta attraverso un motivato giudizio di piena compatibilità concettuale tra vizio parziale di mente e riprovazione sottesa all’applicazione della recidiva.

Muovendo poi dai propri precedenti interventi sul quarto comma dell’art. 69 cod. pen., e pur riconoscendo che si era trattato finora di espandere i margini di applicazione per circostanze oggettive (o di carattere premiale, come nel caso della sentenza n. 74 del 2016), la Consulta ricorda d’avere già chiarito come l’esigenza di proporzionalità riguardi anche la fisionomia del fatto nei suoi profili soggettivi (di recente, sentenza n. 222 del 2018).

Da questo punto di vista, il disvalore dipende tanto dal contenuto e dal grado della volontà criminosa (dolosa o colposa), tanto da fattori capaci di condizionare cognizione e volizione del reo, eventualmente diminuendone la rimproverabilità: ciò che tipicamente può accadere, appunto, in presenza di patologie mentali gravi (la capacità di intendere e volere, per definizione, deve scemare “grandemente”).

Ora – osserva la Corte – il divieto di prevalenza della diminuente dell’art. 89 nel caso di un delinquente recidivo e seminfermo implica che debba essere necessariamente applicata, nei suoi confronti, la stessa pena che dovrebbe essere inflitta, per l’identico fatto, a chi sia immune da una patologia di mente, anche quando il primo risulti meno rimproverabile (per la maggior difficoltà di comprendere e gestire l’effetto di dissuasione connesso alla precedente irrogazione di pena, eventualmente seguita dalla concreta sperimentazione della pena). È una conseguenza incompatibile con le esigenze di commisurazione imposte dall’art. 3 e dai commi primo e terzo dell’art. 27 della Costituzione. E poco importa – aggiunge la Corte – se lo strumento di regolazione fine del trattamento sanzionatorio si attaglia nella specie alla persona del reo, e non alla fisionomia specifica del reato commesso, risolvendosi al tempo stesso in una attenuante comune.

La sentenza si conclude con un riferimento alla possibilità che, in termini di prevenzione speciale, la diminuzione di pena per il seminfermo (che per altro resta solo eventuale) si accompagni all’applicazione di misure di sicurezza, la cui legittimazione prescinde, appunto, dalla rimproverabilità dell’agente, e si proietta propriamente sul piano della sicurezza sociale (con le garanzie di individualizzazione date, anche in punto di durata, dai compiti di vigilanza affidati alla magistratura di sorveglianza).