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  Opinioni  
17 Febbraio 2020


Art. 4 bis o.p. e legge ‘spazzacorrotti’: possibile, dopo la decisione della Consulta, e prima del relativo deposito, la sospensione degli ordini di carcerazione per i fatti pregressi?


1. Con una storica decisione, resa nota mercoledì scorso attraverso un comunicato stampa, la Corte costituzionale ha esteso l’ambito di applicazione del principio di irretroattività alle modifiche peggiorative – nel caso di specie, quelle relative alle preclusioni ai benefici penitenziari ex art. 4 bis ord. penit. – relative alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione successivo alla sentenza di condanna, previsto dall’art. 656, co. 9 c.p.p. per i reati previsti dallo stesso art. 4 bis ord. penit.

Come è noto (v., in questa Rivista, la scheda a firma di B. Fragasso), la Corte costituzionale era chiamata a esaminate le censure sollevate da numerosi giudici sulla retroattività della legge 9 gennaio 2019 n. 3 (c.d. spazzacorrotti), che ha riferito ad alcuni delitti contro la pubblica amministrazione (tra i quali, il peculato, le diverse fattispecie di corruzione e la concussione) le preclusioni previste dall’articolo 4 bis ord. penit. rispetto alla concessione dei permessi premio, del lavoro all’esterno e – per quanto qui rileva – delle misure alternative alla detenzione e della liberazione condizionale[1]. Non solo, l’inserimento dei predetti delitti tra quelli cui si riferisce la disciplina dell’art. 4 bis, co. 1 ord. penit. ha reso operativo, in rapporto alle condanne per i delitti stessi, il divieto di sospensione dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione, finalizzato a consentire di chiedere dallo stato di libertà (senza ‘assaggio di carcere’) una misura alternativa alla detenzione.

Va precisato che la legge spazzacorrotti, priva di disposizioni transitorie, non ha espressamente stabilito l’applicazione retroattiva del trattamento peggiorativo risultante dal riformato art. 4 bis ord. penit.: è questo infatti un esito determinatosi nella prassi in conseguenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale – confermato nel 2006 dalle Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 24561/2006)  –, secondo cui “le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto (in assenza di una specifica disciplina transitoria), soggiacciono al principio tempus regit actum, e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall’art. 2 c.p., e dall’art. 25 Cost.”. La citata sentenza delle Sezioni Unite aveva legittimato l’applicazione retroattiva del divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione per gli autori del delitto di violenza sessuale, dopo che questo fu inserito nel catalogo dei delitti di cui all’art. 4 bis ord. penit. In linea con quella sentenza, dopo l’entrata in vigore della legge ‘spazzacorrotti’ si è subito affermata in giurisprudenza una soluzione analoga in rapporto ai delitti contro la pubblica amministrazione; di qui le questioni di legittimità costituzionale sulle quali si è ora pronunciata la Corte.

 

2. Si legge nel comunicato stampa, quanto al diritto vivente che ha determinato l’applicazione retroattiva delle modifiche dell’art. 4 bis ord. penit. realizzate dalla legge ‘spazzacorrotti’, che “la Corte ha dichiarato che questa interpretazione è costituzionalmente illegittima con riferimento alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione successivo alla sentenza di condanna”. Secondo la Corte costituzionale, infatti, “l’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con il principio di legalità delle pene, sancito dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione”.

 

3. Rinviando come è doveroso ogni più approfondito commento al deposito della sentenza, non può farsi a meno di sottolineare sin d’ora la rilevanza della decisione, per almeno quattro profili:

a) viene superato – secondo quanto da tempo auspicato in dottrina – l’orientamento giurisprudenziale avallato dalle Sezioni Unite nel 2006, che sottrae al principio di irretroattività le misure alternative alla detenzione e la disciplina dell’art. 656 c.p.p. Per questa via, si riconosce al principio di irretroattività della legge penale – e alla relativa garanzia – un ambito di applicazione più esteso. Si rafforza così un inderogabile “principio di civiltà” (Corte cost. n. 51/1985), valorizzandone la più intima e tradizionale ratio di garanzia, che vuole che il cittadino sia messo “al riparo dalle sopraffazioni del giudice e del legislatore che, ispirandosi a ragioni politiche o sotto spinte emotive che promanino dalla collettività, puniscano fatti che al momento della loro commissione non costituiscano reato, ovvero” – ed è questo ora il caso – “li puniscano più severamente”[2];

b) si riconosce alle misure alternative alla detenzione (nonché alla liberazione condizionale e al divieto di cui all’art. 656, co. 9 c.p.p.) una natura sostanziale: non si tratta di mere modalità di esecuzione della pena, soggette al principio tempus regit actum, ma di istituti che hanno a che fare con la “natura della pena” e con la sua “incidenza sulla libertà personale”. Far valere, dopo la commissione del fatto di reato, una preclusione all’accesso alle misure alternative alla detenzione (o alla liberazione condizionale, e il divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione ex art. 656, co. 9 c.p.p.), significa, come altrove ho sostenuto con Emilio Dolcini, modificare in senso peggiorativo la qualità della pena[3], determinando l’ingresso in carcere di chi, sulla base della legge vigente al tempo della commissione del fatto, in carcere non avrebbe fatto ingresso, quanto meno durante il periodo della sospensione dell’ordine di carcerazione ex art. 656, co. 5 c.p.p.;

c) si parificano le pene principali e le misure alternative alla detenzione, sotto il profilo della garanzia costituzionale dell’irretroattività, con ciò fornendo un’importante indicazione, di sistema, sullo statuto delle stesse misure alternative, che un legislatore illuminato, dopo la sentenza della Corte, potrebbe valorizzare per rivalutare la proposta, formulata alcuni anni fa dalla Commissione Palazzo, di includere quelle misure nel catalogo delle pene principali, come sarebbe del tutto ragionevole anche per consentire che nella percezione pubblica le misure alternative siano considerate per quel che sembrano essere state considerate dalla Corte costituzionale: delle pene;

d) si dichiara costituzionalmente illegittima – da quanto si intende attraverso il comunicato stampa – l’interpretazione di una disciplina, fatta propria da un (consolidato) diritto vivente; così facendo, si indica al contempo la via da seguire per un’interpretazione conforme a Costituzione, che superi, appunto, quel diritto vivente. È una soluzione a mio avviso persuasiva, se non forse obbligata: come infatti in altra sede[4] ho avuto modo di osservare, commentando una delle ordinanze che hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale, le censure sono state nella sostanza indirizzate, più che alla legge spazzacorrotti, priva di una disposizione transitoria, all’orientamento giurisprudenziale che ne ha determinato l’applicazione retroattiva. Sotto questo profilo, l’interesse della decisione in esame va oltre il profilo dell’irretroattività, e attiene al capitolo dei rapporti tra legge, giudice, e sindacato di legittimità costituzionale.

 

4.  Nell’immediato, la decisione della Corte costituzionale, anticipata attraverso un comunicato stampa, secondo una prassi recente, pone nelle more del deposito e della pubblicazione un serio problema che è opportuno evidenziare. Il problema è quello della sorte degli ordini di esecuzione della pena detentiva da emettere e, soprattutto, di quelli già emessi ed eseguiti, per fatti commessi prima della riforma dell’art. 4 bis ord. penit.

Il problema si pone in quanto la Corte costituzionale ha sì reso nota la sua decisione, con un comunicato stampa, ma non ha formalmente anticipato il dispositivo (come fa normalmente la Corte di cassazione). D’altra parte, ai sensi dell’art. 136 Cost. le norme dichiarate incostituzionali cessano di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Ad oggi, dunque, nessuna norma è stata ancora dichiarata costituzionalmente illegittima.

Senonché, a me pare che vi siano argomenti per sostenere l’immediata produzione di effetti conseguenti all’anticipazione della decisione della Corte costituzionale, attraverso il comunicato ufficiale. Quel comunicato, come dirò subito, ben può a mio avviso giustificare  per i fatti ‘pregressi’ già oggi, da parte del pubblico ministero, eventualmente sollecitato dal difensore, la sospensione dell’ordine di carcerazione da emettere e, soprattutto, la sospensione (tardiva) dell’ordine di carcerazione già emesso ed eseguito, con conseguente scarcerazione del condannato, che potrà chiedere dalla libertà una misura alternativa alla detenzione, senza le preclusioni di cui al riformato art. 4 bis ord. penit. (senza cioè, in particolare, dover soddisfare il requisito della collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 323 bis, co 2 c.p.).

Questa conclusione può essere argomentata, anzitutto, valorizzando l’autorevolezza della decisione della Corte costituzionale, resa nota attraverso il comunicato; decisione che indica all’interprete una nuova e unica via da seguire per interpretare la legge in senso conforme a Costituzione, evitando l’instaurarsi o il protrarsi di una detenzione illegittima e ingiusta perché realizzata in violazione del principio di irretroattività.

D’altra parte, l’art. 136 Cost. non sembra rappresentare un ostacolo perché si riferisce ai limiti di validità temporale delle leggi, e non già delle loro interpretazioni: al diritto di formazione legislativa, cioè, e non già al diritto giurisprudenziale. Se ciò è vero, non vi è allora necessità di attendere la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale per evitare che l’interpretazione che si sa essere stata ritenuta incostituzionale possa ancora determinare, o continui a determinare, anche solo per un giorno in più, la lesione di un diritto fondamentale quale la libertà personale. Ciò sulla premessa, naturalmente, che il comunicato della Corte è un documento ufficiale.

È il caso di segnalare che, a quanto pare, la Corte costituzionale ha pronunciato una sentenza interpretativa di accoglimento, ricorrendo a una soluzione tecnica piuttosto rara. Un precedente, anche in quell’occasione in materia di ordinamento penitenziario, è rappresentato dalla sentenza n. 78/2007 (red. Saulle), che dichiarò l'illegittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della l. n. 354 del 1975 “ove interpretati nel senso che allo straniero extracomunitario, entrato illegalmente nel territorio dello Stato o privo del permesso di soggiorno, sia in ogni caso precluso l'accesso alle misure alternative da essi previste”. A differenza delle sentenze interpretative di rigetto, le sentenze interpretative di accoglimento cambiano il quadro normativo precludendo l’interpretazione dichiarata contraria a Costituzione. Si potrebbe pertanto obiettare che, prima della pubblicazione della sentenza, è precluso adottare provvedimenti che presuppongono un quadro normativo non ancora mutato. Senonché, a ben vedere, nulla impedisce oggi al giudice e al pubblico ministero di seguire l’interpretazione conforme a Costituzione, indicata dal comunicato della Corte; dopo il deposito della sentenza, a quadro normativo mutato, non sarà invece più possibile adottare l’interpretazione illegittima. Ipotizziamo che nel 2007 la sentenza n. 78 fosse stata anticipata con un comunicato stampa: non avrebbe forse potuto un qualsiasi tribunale di sorveglianza concedere una misura alternativa allo straniero irregolare senza aspettare il deposito della sentenza stessa?

 

4.1. Se le premesse sono corrette, ci si può porre pertanto già oggi un problema che si porrà immediatamente dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale: quello della rimozione degli effetti della mancata sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva, che ha determinato lo stato di detenzione. Sul piano procedurale – consapevole della complessità della questione – a me pare che competente a rimuovere gli effetti dell’applicazione retroattiva della legge ‘spazzacorrotti’ possa essere considerato il pubblico ministero e che non sia pertanto necessario attivare un incidente d’esecuzione, peraltro esperibile, in caso di inerzia del pubblico ministro, su istanza del difensore. Il pubblico ministero, senza bisogno di revocare l’ordine di esecuzione, può ragionevolmente fare oggi quel che avrebbe dovuto fare ieri e, cioè, sospendere l’ordine di esecuzione, su sollecitazione della difesa ovvero anche d’ufficio, trattandosi di evitare la detenzione di un condannato sulla base di un ordine di carcerazione illegittimo.

Occorre al riguardo distinguere:

  • quanto agli ordini di esecuzione da emettere, ancor prima del deposito della sentenza della Corte costituzionale il pubblico ministero ne potrebbe sospendere l’esecuzione sulla base di un’interpretazione conforme a Costituzione, con un provvedimento che faccia espresso riferimento al comunicato della Corte (è peraltro verosimile che, di fatto, i pubblici ministeri semplicemente aspetteranno la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, prima di ordinare e contestualmente sospendere l’esecuzione della pena per i fatti pregressi);
  • quanto agli ordini di esecuzione già emessi ed eseguiti, il pubblico ministero ne potrebbe a mio avviso ordinare la sospensione, con conseguente scarcerazione del condannato. Si tratterebbe, ribadisco, di fare tardivamente quel che, sulla base di un’interpretazione conforme a Costituzione preclusa dall’allora diritto vivente, il pubblico ministero avrebbe dovuto fare all’epoca dell’emissione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva. La sospensione dell’ordine di esecuzione potrebbe essere disposta senza la contestuale revoca di quell’ordine, che conserva la sua validità salvo dover essere, appunto, sospeso. Se è vero, come a me sembrerebbe (anche per ragioni di economia processuale), che il pubblico ministero può provvedere ora per allora alla sospensione dell’ordine di esecuzione, non è necessario l’intervento del giudice dell’esecuzione, volto ad annullare l’ordine stesso, che il pubblico ministero dovrebbe poi emettere ex novo con contestuale sospensione. Va da sé però che qualora il pubblico ministero non provveda alla sospensione dell’ordine di esecuzione, potrebbe essere il difensore a promuovere un incidente d’esecuzione, chiedendo al giudice di annullare l’ordine di esecuzione, con conseguente scarcerazione del condannato.

C’è da domandarsi, quanto a quest'ultima ipotesi, se la sospensione dell’ordine d’esecuzione debba essere disposta, prima e dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, anche rispetto a quanti, dallo stato di detenzione, abbiano già richiesto una misura alternativa alla detenzione, la cui concessione sia stata negata dal tribunale di sorveglianza. A prima vista la risposta potrebbe sembrare negativa: si tratta di individui che comunque sarebbero stati destinati all’esecuzione della pena in carcere e che, pertanto, in base al diritto vivente riconosciuto poi costituzionalmente illegittimo sono ‘solo’ stati privati della possibilità di posticipare l’inizio dell’esecuzione della pena detentiva. Senonché, a ben vedere, quel diritto vivente ha comportato l’applicazione retroattiva non solo del divieto di sospensione dell’esecuzione della pena, ex art. 656, co. 9 c.p.p., ma anche delle preclusioni dell’art. 4 bis ord. penit., ivi compresa, per i delitti contro la p.a., la collaborazione con la giustizia ex art. 323 bis, co. 2 c.p. Ciò significa che l’istanza di ammissione alle misure alternative è stata valutata dal tribunale di sorveglianza – e rigettata – al metro dell’art. 4 bis ord. penit., applicato retroattivamente; di qui la necessità di mettere immediatamente il soggetto nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se non fosse stata seguita l’interpretazione dichiarata contraria a Costituzione: di consentirgli, cioè, di chiedere dall’esterno una misura alternativa alla detenzione, come avviene per i condannati per reati non inclusi nel catalogo dell’art. 4 bis ord. penit.

 

4.2. Un’ulteriore questione, prospettata sulla stampa[5] all’indomani del comunicato della Corte costituzionale, già oggetto di una interrogazione parlamentare[6], e che qui mi limito a mettere sul tappeto, è infine quella della ammissibilità o meno di una riparazione per l’ingiusta detenzione (artt. 314 e ss. c.p.p.). La premessa è che la Corte costituzionale, con sentenza n. 310 del 1996, ha esteso la disciplina della riparazione per ingiusta detenzione all’ipotesi dell’ordine di esecuzione illegittimo. In quella occasione, l’ordine era illegittimo in ragione della sua erroneità; il che, a fortiori, dovrebbe ragionevolmente giustificare la riparazione in caso di ordine emanato attraverso una violazione del divieto di applicazione retroattiva della legge sopravvenuta più sfavorevole al reo (art. 25, co. 2 Cost.), riconosciuta dalla Corte costituzionale[7]. Se questa premessa è corretta, vi è una ragione in più che rende opportuna, se non doverosa, la rimozione immediata degli effetti negativi conseguenti alla violazione del divieto di applicazione retroattiva della disciplina dell’art. 4 bis ord. penit. e dell’art. 656, co. 9 c.p.p.

 

* * *

 

È importante che la prassi valuti subito la percorribilità di quanto qui – spero non temerariamente – ho ipotizzato: i tempi tecnici necessari per la motivazione della decisione della sentenza della Corte espongono gli interessati, paradossalmente, alla lesione dei diritti costituzionali, di libertà, che la Corte stessa ha riconosciuto con la declaratoria di illegittimità costituzionale. È nella logica del sistema, in una simile situazione, anticipare gli effetti sostanziali della decisione. Per certi versi, la situazione è analoga a quella di una abolitio criminis decisa dal Parlamento, con una legge non ancora entrata in vigore. Ebbene, è irragionevole, in quell’ipotesi, protrarre la detenzione di chi sia stato condannato per il reato abolito; sembrerebbe confermarlo una recente sentenza della Cassazione (relativa alla riformata legittima difesa), che ha affermato, già nel periodo di vacatio legis, il principio dell’applicabilità della legge più favorevole sopravvenuta[8]. La medesima ratio decidendi potrebbe giustificare, nelle more della pubblicazione, l’anticipazione degli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale, quando come nel presente caso sia stata resa nota in modo ufficiale. È uno scenario nuovo, frutto a ben vedere della prassi dei comunicati della Corte, che merita di essere studiato.

 

 

[1] L’estensione delle preclusioni ex art. 4 bis ord. penit. alla liberazione condizionale è disposta dall’art. 2, co. 1 d.l. n. 152/1991

[2] Cfr. G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, VIII, ed, Milano, 2019, p. 111/112.

[5] Cfr. l’intervista di Giuseppe Gustella a Roberto Formigoni, pubblicata ne Il Corriere della Sera il 13 febbraio 2020: Formigoni: bene così ma ho trascorso mesi di carcere ingiusto. Per l’ex Governatore della Lombardia l’ipotesi del risarcimento.

[7] Ci si potrà domandare se l’ingiusta detenzione si configuri anche qualora risulti che il soggetto non avrebbe avuto i requisiti per l’ammissione alla misura alternativa richiesta e, pertanto, sarebbe comunque andato incontro all’esecuzione della pena in carcere. A me pare che in questo caso si possa forse negare il diritto alla riparazione, sempre che, si intende, i requisiti mancanti siano quelli ordinari e non già quelli dell’art. 4 bis ord. penit., che dopo la decisione della Corte costituzionale non interessano più i condannati per delitti contro la p.a. commessi prima della l. n. 3/2019.

[8] Cfr. Cass. Sez. I, 14 maggio 2019, n. 39997, Addis, CED 276949.