Opinioni  
20 Aprile 2020


Annullamento della sentenza penale ai soli effetti civili: quale giudice e quali regole di giudizio in sede di rinvio?


Giovanni Canzio
Gianfranco Iadecola

1. La indubbia dinamicità di pensiero della Terza sezione civile della Suprema Corte, che già si era cospicuamente manifestata nel settore della responsabilità sanitaria (ove si era giunti, a partire dal 1999, alla creazione di un vero e proprio “sottosistema” della responsabilità civile codicistica), torna a dare segno di sé sul tema delle regole di giudizio applicabili in sede di rinvio del processo penale, innanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello, disposto dal giudice penale di legittimità ai sensi dell’art. 622 c.p.p., nella più larga dimensione applicativa già assunta nel vigore dell’art. 541 del codice di rito abrogato. Formulazione, questa del vigente art. 622, rispetto alla quale sembrano tuttora attuali o addirittura premonitrici le forti critiche mosse in dottrina da Cordero[1], che definiva l’asimmetrica previsione un ‘lapsus normativo’, un ‘pastiche’ da cui possono nascere ‘paradossi’, in particolare per l'ampliamento dell'ambito del rinvio al giudice civile, oltre i casi in cui si faccia questione solo sul quantum, anche ai casi in cui non si sia formato in sede penale un definitivo accertamento sull'an della responsabilità, cioè su quello che è il sostanziale thema decidendum nel giudizio penale.

In materia, infatti, sono sopravvenute numerose pronunce (Sez. 3, n. 15859/2019, n. 16916/2019, n. 22515/2019, n. 22516/2019, n. 22520/2019, n. 22729/2019, n. 25917/2019, n. 25918/2019: occorre dire, anticipate da n. 9358/2017 e n. 21593/2017)[2], temporalmente ravvicinate tra giugno e ottobre 2019, le quali, nettamente discostandosi dal precedente, pure recente, orientamento della stessa sezione (tra le altre: n. 32929/2018, n. 22570/2018, n. 17457/2007, n. 7004/2015), hanno affermato, in termini univoci, che il giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p. debba assecondare le regole processuali, sostanziali e probatorie proprie (non già del giudizio penale, come sino ad allora ritenuto, ma) del giudizio civile.

Alla base di tale, radicale overruling, caratterizzato dall’assenza di un adeguato dialogo preparatorio fra i giudici di legittimità e con la dottrina, sta la affermazione che il giudizio in questione non sia assimilabile al giudizio di rinvio in senso tecnico e quindi non rappresenti, nella fase rescissoria, la prosecuzione del procedimento di impugnazione svoltosi innanzi alla Cassazione penale, quand’anche limitato nell’oggetto alla sola statuizione sugli interessi civili.

Si tratterebbe, viceversa, di una fase del tutto svincolata ed autonoma dalla precedente (ormai definita e conchiusa agli effetti penali in forza di una decisione irrevocabile), in cui la completa translatio judicii e la diversa regiudicanda comporterebbero un accertamento dei fatti rilevanti (ai soli fini risarcitori) naturaliter regolato dai canoni sostanziali e processuali propri del giudizio civile e quindi affrancato dai principi di diritto eventualmente posti dalla sentenza di annullamento, cui non sarebbe dovuta “obbedienza” e perciò destinati a rimanere inefficaci.

A tale stregua, si esclude la natura “chiusa” del giudizio di rinvio di cui all’art. 622 c.p.p., sostenendosi l’ammissibilità dell’allegazione, in detta sede, di fatti costitutivi dell’illecito civile diversi da quelli integranti la fattispecie di reato dedotta nel processo penale e posti a base della costituzione di parte civile (senza che occorra l’incidentale vaglio di catalogazione del fatto come rispondente ad una ipotesi di reato). E ciò in ragione del “maggior raggio di azione” dell’illecito ex art. 2043 c.c. e della sua “struttura atipica”, che consente la valorizzazione dell’elemento soggettivo della colpa anche a fronte della imputazione, nella pregressa fase penale, di una condotta unicamente configurabile quale dolosa (cfr., in particolare, Sez. 3, n. 16916/2019 cit.).

Ulteriori, significative conseguenze, connesse alla autonomia del giudizio in esame sono individuate, dal “nuovo” orientamento giurisprudenziale:

– nella libera valutazione delle prove acquisite nella fase penale, quand’anche foriera di una divergente ricostruzione del fatto rilevante;

– nella valorizzazione di risultati probatori dotati di un meno pronunciato grado di certezza in ordine alla sussistenza degli elementi strutturali dell’illecito, come è per la correlazione causale, da scrutinarsi secondo il criterio probatorio civilistico del “più probabile che non”;

– nella disapplicazione dello statuto di disciplina della prova penale, con gli effetti: del possibile recupero, quali prove “atipiche, di elementi ricostruttivi acquisiti in violazione di espressi divieti probatori sanciti nel rito penale, essendo categoria specifica di quest’ultimo la “utilizzabilità” della prova, viceversa estranea al processo civile; della impossibilità di fondare la ricostruzione del fatto dannoso sulla testimonianza della parte civile, preclusa in ambito civilistico dall’art. 246 c.p.c.; della impraticabilità in sede di rinvio della rinnovazione della prova dichiarativa ai sensi dell’art. 603, comma 3-bis, c.p.p., connessa alla regola di giudizio – prerogativa qualificante del processo penale – della prova necessariamente certa, dimostrativa “al di là di ogni ragionevole dubbio” della colpevolezza dell’imputato.

 

2. Gli assunti di cui si è appena dato conto si dispongono in aperto e consapevole contrasto con i dicta ordinari, anzi tralatizi, della Cassazione penale, innescando un singolare, quanto inusitato, impasse all’interno della Suprema Corte.

Al riguardo, potrebbe rilevarsi innanzitutto che un profilo di interesse della quaestio in oggetto sia in astratto anche legato al fatto che la direttrice della autonomia e della “disobbedienza” predicata dalla recente giurisprudenza civile, quand’anche ricoperta di diffuse giustificazioni, finisca sostanzialmente per evocare la stessa, pratica elusione del precetto di cui al terzo comma dell’art. 627 c.p.p., che notoriamente impone al giudice di rinvio di uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazioneper ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa”.

La posizione della Cassazione penale sulla tematica è ben nota, nella sua risalente costanza. Talvolta con rapido e quasi pleonastico enunciato (“è appena il caso di ribadire”, “fermo restando”: cfr. Sez. 4, n. 27045/2016), talaltra con più puntuale esplicazione, essa ha tradizionalmente stabilito che, ai sensi e per gli effetti dell’art. 622 c.p.p., il giudice del rinvio “è tenuto a valutare la sussistenza della responsabilità civile dell’imputato secondo i parametri del diritto penale, e non facendo applicazione delle regole proprie del giudizio civile. E ciò in quanto, poiché l’azione civile è stata esercitata nel processo penale, il suo buon esito presuppone l’accertamento della sussistenza del reato” (ex plurimis, Sez. 4, n. 45786/2016). In sede di giudizio civile di rinvio, “non muta la natura risarcitoria della domanda proposta, ai sensi dell’art. 74 c.p.p., innanzi al giudice penale, volta a conseguire il risarcimento del danno da reato ex art. 185 c.p.” (Sez. 4, n. 5898/2019). Sicché, lo stesso accertamento del nesso causale, in detta sede, non potrebbe che essere condotto secondo il criterio dell’elevata credibilità razionale, alias della certezza processuale, enunciato dalle Sezioni Unite penali Franzese nel 2002 ed Espenhahn nel 2014 (così, tra le altre, Sez. 4, n. 5901/2019).

Né si è mancato, nella medesima prospettiva, di demandare al giudice civile di rinvio, in funzione dell’accertamento di un fatto di reato, persino questioni e verifiche di natura squisitamente penalistica, non essendosi mai dubitato della competenza del medesimo ad affrontarle e, incidentalmente, risolverle.

Così, in vicende in cui v’era stata assoluzione in primo grado dell’imputato, e poi condanna in appello senza la rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva, si è indicato al giudice del rinvio di tener conto delle pronunce in materia delle Sezioni Unite penali Dasgupta (2016) e Patalano (2017) e della stessa giurisprudenza della Corte EDU. Si è perciò sollecitato lo stesso, ai fini della ricostruzione del fatto, all’applicazione di principi ormai divenuti di “diritto vivente” in ambito penale, con il suggerimento di avvalersi, a tale scopo, delle regole del codice di rito civile, dettate nell’art. 257 c.p.c., richiamato per il giudizio di appello dall’art. 359, in tema di rinnovazione dell’esame testimoniale (Sez. 4, n. 34878/2017 e n. 45786/2016).

Analogamente, si è demandato alla sede di rinvio la risoluzione di un profilo controverso in tema di successione di leggi penali in materia di responsabilità medica, al fine di individuare la disciplina più favorevole da applicarsi al fatto occorso, tra l’art. 3, comma 1, d.l. n. 158/2012 e l’art. 590-sexies c.p. (Sez. 4, n. 412/2019).

 

3. Per come si vede, le interpretazioni provenienti dai settori penale e civile della Cassazione – circa le regole di giudizio che devono presiedere alla fase del rinvio ex art. 622 c.p.p. – sono del tutto divaricate, al punto che appare arduo preconizzarne una qualche ipotesi di convergenza, sia pure parziale.

A voler prendere posizione sull’aspetto cruciale della contesa ermeneutica, ossia sul regime di disciplina che deve governare il giudizio in questione, appare francamente poco convincente, nonostante l’ampiezza dell’argomentazione che lo sostiene, il ragionamento della più recente giurisprudenza civile, più sopra illustrato.

Esso, infatti, risulta fondato su una serie di proposizioni assertive della assoluta indipendenza della fase procedimentale avviata ai sensi dell’art. 622 c.p.p., le quali, tuttavia, sembrano non farsi effettivamente carico della sua natura e funzione nel disegno normativo di collocazione dell’esercizio dell’azione civile all’interno del processo penale, ove essa è piuttosto configurata (non già alla stregua di un novum iudicium, bensì) quale gemmazione e derivazione appendicolare del giudizio esitato nella sentenza di annullamento con rinvio.

A sostenere la conclusione per cui, in ultima analisi, il giudizio civile di rinvio si pone come lo sviluppo prosecutorio del procedimento penale, sovviene l’univocità dello stesso quadro di disciplina processuale, che ne definisce e delimita l’oggetto in quello dell’accertamento della sussistenza di un danno conseguente al reato per cui v’è stato processo penale: ossia in quella porzione di regiudicanda il cui vaglio – rimasto inevaso nella sede penale, ove non si è esaurito l’iter accertativo di un fatto di reato e, quindi, non sono state valutate le pretese risarcitorie fatte valere dalla parte offesa attraverso la costituzione di parte civile – deve essere necessariamente completato.

In tale prospettiva, non può sfuggire il necessario continuum che si delinea con la vicenda penale rimasta incompiuta, trattandosi ancora di verificare la riconducibilità del fatto alla fattispecie criminosa per cui si è proceduto, quale passaggio obbligato al fine di scrutinare la fondatezza dell’iniziativa risarcitoria attivata dalla parte offesa ai sensi degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p.

Può dirsi, insomma, di una “perduranza” dell’oggetto dell’indagine processuale demandata alla fase di rinvio, quale diretta derivazione del fatto che, in quest’ultima, come icasticamente affermato, “la natura risarcitoria della domanda già avanzata innanzi al giudice penale non muta” (Sez. 4, n. 5901/2019; negli stessi termini, Sez. 4, n. 5898/2019).

Dalla evocata corrispondenza dell’oggetto scaturisce, come lineare corollario, che il giudice del rinvio, praticamente chiamato ad “interessarsi di tutto quello che rimane da decidere sull’azione civile esercitata nel processo penale” (Sez. 6, n. 43896/2018), “dovrà valutare incidentalmente l’esistenza di un fatto di reato in tutte le sue componenti oggettive e soggettive”, e ciò, con naturale coerenza, “alla luce delle norme che regolano la responsabilità penale” (Sez 4, n.. 5901/2019 e n. 5898/2019, citt.).

La piena sovrapponibilità del perimetro della disamina (“agli effetti civili”) devoluta al giudizio civile di rinvio rispetto a quello già all’attenzione del processo penale, pare poter fondatamente sostenere anche la catalogazione del giudizio in questione quale giudizio di rinvio in senso tecnico (ex art. 384, comma 2, c.p.c., come del resto già motivatamente riconosciuto in passato dalla stessa giurisprudenza civile della Suprema Corte: Sez. 3, n. 17457/2007).

All’interno di esso, occorrendo procedere all’accertamento di un danno che sia derivato dal reato contestato, non solo si tratterà di riscontrare – per incidens, ma in via pregiudiziale – la consumazione di un fatto rilevante quale reato (il che, va ribadito, evoca l’imprescindibile impiego dei parametri penalistici), ma dovranno rispettarsi le coordinate ed i limiti fissati dalla sentenza di annullamento.

Alla luce delle complessive deduzioni sin qui poste, non può essere condiviso l’assunto di uno dei più significativi arresti della recente deriva “autonomistica” della Cassazione civile, secondo cui, innanzi al giudice civile di rinvio, “la fattispecie genetica del diritto al risarcimento del danno è più ampia ed articolata di quella configurabile in forza della norma incriminatrice penale” (Sez. 3, n. 22520/2019). Si mostra così di non tenere in conto che il permanente e vincolante oggetto del giudizio risarcitorio (dato che, come sottolineato, la natura della domanda in sede di rinvio non muta) rimane il prodromico accertamento, sia pure incidentale, del delinearsi di una fattispecie di reato cui causalmente riconnettere il danno lamentato.

Non vale, quindi, evocare la maggiore ampiezza “operativa” dell’illecito aquiliano, in quanto è (unicamente) il danno da reato, e non un qualsiasi pregiudizio rilevante ex art. 2043 c.c., l’obbiettivo assegnato alla indagine devoluta al giudice civile ai sensi dell’art. 622 c.p.p., per la decisiva ragione che è solo da quel danno (ex delicto) che la parte offesa chiede di essere ristorata costituendosi parte civile.

 

4. Né possono essere, da ultimo, trascurate le aporie implicate dalla rivendicazione di autonomia intrapresa dal recente, “separatistico” indirizzo giurisprudenziale della Terza sezione civile della Corte di cassazione.

Basti pensare al rischio concreto di pervenire, sulla base dell’applicazione dei più blandi criteri probatori propri del sistema processuale civile in materia di accertamento del nesso causale, ad identificare come generatore di danno risarcibile un fatto che, in forza di detti criteri, non potrebbe mai configurare, nella sede penale, una fattispecie di reato (il diritto penale esigendo la prova certa del rapporto di causalità).

Ma si consideri anche l’evenienza, connessa alla disapplicazione del regime di disciplina della prova penale ed alla stessa applicazione di nuove regole di giudizio evocanti l’inversione degli oneri probatori o anche ipotesi di responsabilità oggettiva, della dispersione di materiale utile se non decisivo per la ricostruzione del fatto occorso, o dell’attingimento di risultati valutativi finali del tutto ragionevolmente inattesi.

Non sfugge l’effetto – oltre che di incoerenza del sistema – di confusione che la imprevedibile svolta dei criteri di accertamento del fatto commesso determina nelle parti processuali, che nel loro posizionamento si sono “affidate” alle risultanze acquisite attraverso il processo penale. Occorre dire: con la violazione del prezioso canone della calcolabilità dell’esito del giudizio e con buona pace dei diritti della difesa e degli stessi principi sommi del giusto processo secondo il parametro di cui all’art. 111 della Costituzione, che pure ne dovrebbero sovrintendere la fase “terminale” instaurata ai sensi dell’art. 622 c.p.p.

 

5. La Corte di cassazione penale, parallelamente e verosimilmente in reazione alla distonia di sistema creata con il citato revirement giurisprudenziale della Terza sezione civile, registra una serie di pronunce che valorizzano il ridimensionamento dell'ambito di applicazione dell'art. 622 c.p.p. con il correlativo ampliamento dei casi di annullamento senza rinvio o con rinvio al giudice penale. In esse, facendo anche leva sull’avverbio ”solamente” e sull’inciso “quando occorre”, si afferma il principio di diritto per il quale il rinvio al giudice civile non va disposto quando l'annullamento delle disposizioni o dei capi della sentenza impugnata concernenti l'azione civile dipenda dalla fondatezza del ricorso dell'imputato agli effetti penali (Sez. 6, n. 31921/2019, D.A.; Sez. 3, 9/1/2020, not. dec. n. 1/2020; Sez. 4, n. 12174/2020, Piali; Sez. 4, n. 11958/2020, Palisi).

Il criterio di economia processuale, per il quale deve evitarsi il permanere di questioni civili nei ruoli penali, va bilanciato con la necessità, dettata dal principio del giusto processo, di cristallizzare nella cognizione devoluta al giudice penale l’accertamento del fatto illecito da cui origina il danno.

Con la conseguente determinazione della Cassazione penale di deliberare l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata che abbia pronunciato statuizioni civili in violazione di una regola processuale penale prevista a pena di nullità (Sez. 6, n. 31921/2019 cit.) o, più correttamente, l’annullamento con rinvio al giudice penale sia pure ai soli effetti civili (Sez. 3, 9/1/2020; Sez. 4, n. 12174/2020 e 13/2/2020, citt.), laddove sia presente un thema decidendum in cui ancora si controverta sulla sussistenza del fatto-reato. In tal caso, infatti, non può dirsi dissolto il collegamento tra la pretesa risarcitoria del danneggiato e l’accertamento del fatto-reato, che dovrà avvenire nel rispetto delle regole logico-inferenziali che presidiano il giusto processo penale e lo statuto dell’imputato, scongiurandosi altresì la diseconomica dispersione dell’acquisito compendio probatorio.

 

6. Se si considerano i valori coinvolti nella descritta vicenda, non può non rimarcarsi il significativo vulnus recato dal rilevato contrasto di giurisprudenza non solo alla coerenza della complessiva disciplina che regola l'esercizio dell'azione civile nel processo penale, ma anche alla funzione nomofilattica della Corte Suprema, non essendo previsto dall’ordinamento un organo di ultima istanza chiamato a dirimere i contrasti ermeneutici insorti fra le sezioni civili e quelle penali della stessa.

La serietà del denunziato conflitto giurisprudenziale potrebbe peraltro suggerire la costituzione per via tabellare (ad esempio mediante il modulo ordinamentale della “coassegnazione”) di un Collegio in composizione “mista”, formato da giudici civili e penali di legittimità in pari numero di quattro, i quali, con cadenza semestrale, venga convocato dal Primo Presidente per risolvere le eventuali questioni controverse, nei casi in cui la soluzione offerta ab externo, seppure nell’ambito della propria competenza ratione materiae, dalla Corte di cassazione civile possa incidere sull’indirizzo giurisprudenziale di quella penale e viceversa[3].

Verrebbe così attivato un virtuoso ed efficace meccanismo compensativo di formazione di autorevoli “precedenti”, diretto a paralizzare efficacemente l’indubbio pregiudizio della imprevedibilità delle decisioni giudiziali e della certezza del diritto.

 

 

[1] F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2006, 1183. Cons. anche A. Bargi, Il ricorso per cassazione, in Le impugnazioni penali, a cura di A. Gaito, Torino, 1998, II, 449, 652 e F.R. Dinacci, Il giudizio di rinvio nel processo penale, Padova, 2002, 236.

[2] Per una rassegna ragionata della giurisprudenza civile richiamata nel testo, cons. P. Proto Pisani, Note in tema di annullamento della sentenza ai soli effetti civili, in Foro it., 2020, I, 620.

[3] Ritiene che la nomofilachia, in casi del genere (con particolare riferimento alla sentenza n. 741/2020 delle Sez. un. civili, in materia di intercettazioni), “vede appannarsi i caratteri di dinamicità, orizzontalità e fisiologica mutabilità”, G. Santalucia, Delitti dei c.d. colletti bianchi e intercettazioni tra presenti su dispositivo portatile: termine iniziale di efficacia delle nuove disposizioni. Spunti dalla sentenza n. 741 del 2020 delle Sezioni unite civili, in Sistema penale, n. 4/2020.