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  Opinioni  
12 Marzo 2020


Carcere e coronavirus: che fare?

Considerazioni a margine delle (e oltre le) rivolte



1. La pandemia del Coronavirus ci ha gettato in una situazione inimmaginabile, fino a pochi giorni fa. La nostra attenzione è catturata dall’emergenza, dalle preoccupazioni e dalle ansie del quotidiano. E’ perfino in qualche misura non facile continuare a parlare di diritto e di sistema penale, come facciamo ogni giorno con passione sulle pagine della nostra Rivista.

Sono però accaduti in questi giorni fatti che non possono passare in secondo piano, nella valutazione di chi si occupa della giustizia penale.

Non mi riferisco tanto al rinvio delle udienze penali, disposto dal decreto-legge n. 11/2020, e nemmeno mi riferisco alle - pur rilevantissime - limitazioni di diritti e libertà fondamentali, per esigenza di tutela della salute pubblica, realizzate con atti del potere esecutivo e accompagnate da sanzioni penali per i trasgressori dei correlati divieti (dai tratti spesso imprecisi); sanzioni peraltro spuntate e meramente simboliche, come nel caso dall’art. 650 c.p. Per inciso: non sarà certo un reato bagatellare – e comunque la minaccia di pene, anche severe – a fermare l’epidemia. Il limitato ruolo del diritto penale, in questa fase, è a me pare solo quello della stigmatizzazione di condotte che mettono a rischio la salute di tutti (uscire di casa senza necessità, in questi giorni); una stigmatizzazione che, auspicabilmente, può servire in chiave di orientamento culturale a far comprendere la serietà della situazione che stiamo vivendo e l’importanza di attenersi alle indicazioni delle autorità, fondate su evidenze scientifiche.

Il fatto più sconvolgente è a mio avviso rappresentato dalle rivolte nelle carceri italiane che – da quanto ha riferito il Ministro della Giustizia in Parlamento –  hanno coinvolto circa 6000 detenuti (il 10% della popolazione penitenziaria) e portato alla morte di 13 detenuti e al ferimento di 40 agenti della polizia penitenziaria, oltre alla devastazione di diversi istituti (come quello di Modena) e all’evasione di decine di detenuti, alcuni dei quali, come quelli fuggiti dal carcere di Foggia, sono ancora ricercati.

 

2. La violenza esplosa improvvisamente nelle nostre carceri non può e non deve passare inosservata: la notizia ha fatto il giro del mondo, restituendo una pessima immagine del nostro paese, e mette a nudo una serie di problemi del carcere. Si tratta, in parte, di problemi cronici e, in parte, di problemi drammaticamente nuovi, che accomunano la condizione dei detenuti, in tutto il mondo, di fronte a una pandemia.

Le rivolte sono infatti state occasionate da una miscela esplosiva, per la sensibilità (e l'instabilità emotiva) di chi vive in carcere: da un lato, la paura di contrarre il Coronavirus in ambienti chiusi, sovraffollati e con precarie condizioni igieniche; dall’altro lato, le limitazioni normativamente imposte ai detenuti per prevenire la diffusione del virus (cfr. il d.l. n. 11/2020): lo stop all’ingresso in carcere per i colloqui di familiari e persone care, (fino al 31 marzo, in Lombardia e in Veneto, fino al 22 marzo, nel resto del paese) e la possibile sospensione dei permessi premio e del regime di semilibertà.

 

3. Quanto ai problemi cronici, le rivolte di questi giorni ci ricordano almeno due dati.

Il primo è quello del grave sovraffollamento: il 29 febbraio scorso i detenuti erano 61.230 a fronte di una capienza regolamentare pari a 50.931 posti. Con quale coerenza si vietano assembramenti nella società dei liberi quando, in carcere, si affastellano i detenuti? Per quanto tempo ancora si continuerà a chiudere gli occhi di fronte a un problema, tornato ad essere drammatico, oggi più che mai, dopo gli interventi che hanno fatto seguito alla sentenza Torreggiani?

Il secondo dato, non meno preoccupante – e di immane tristezza –, è quello della sovrarappresentazione dei tossicodipendenti in carcere (circa il 25% dei detenuti): persone che necessitano di cure e che nel corso delle rivolte – a quanto pare - sono arrivate in questi giorni a darsi la morte assaltando i locali delle infermerie del carcere per procurarsi il metadone, oppioide sintetico usato nella terapia sostitutiva della dipendenza da stupefacenti.

 

4. Quanto ai problemi nuovi, a me pare che le rivolte di questi giorni testimoniano una preoccupante fragilità del sistema penitenziario, sotto il profilo della capacità di garantire condizioni di sicurezza e di ordine pubblico all’interno e all’esterno degli istituti, messi a soqquadro da nord a sud del paese, con evasioni di massa, come a Foggia. E’ indubbiamente questo il problema che più ha colpito l’opinione pubblica, già scossa dalla paura del virus. E per quanti operano nelle diverse sedi (accademia compresa) per rendere più umano e aperto il carcere, episodi come quelli dei giorni scorsi sono devastanti: rischiano di compromettere un difficile lavoro, rafforzando l’idea che chi è in carcere meriti di restarci, possibilmente con porte chiuse a doppia mandata. Girare pagina rispetto a quanto accaduto, agli occhi dell’opinione pubblica, non sarà facile. 

C’è però un non secondario e ulteriore problema, che ha rappresentato l’occasione per le rivolte in carcere: come tutelare la salute dei detenuti, di fronte a una pandemia? E cosa fare in presenza di un contagio in carcere?

Il problema è reale, come ha tra gli altri sottolineato il Garante dei detenuti: il Coronavirus può arrivare anche in carcere (di qui la misura della sospensione dei colloqui in presenza), come è già successo all’estero: in Cina, in Iran. E da noi si ha notizia per ora di almeno due agenti della polizia penitenziaria che hanno contratto il virus. Prevenire il contagio in carcere, a tutela dei detenuti e di chi vi lavora, è tutt’altro che facile per via delle condizioni di sovraffollamento e di vita nelle nostre carceri, arretrate dal punto di vista architettonico e delle condizioni igienico-sanitarie. E’ un problema che si pone in questi giorni da noi come altrove, come negli Stati Uniti, dove l’ex ufficiale medico del carcere più noto di New York così si è espresso: “Jails and prisons are often dirty and have really very little in the way of infection control…There are lots of people using a small number of bathrooms. Many of the sinks are broken or not in use. You may have access to water, but nothing to wipe your hands off with, or no access to soap”. Perfino lavarsi le mani può essere non facile, in carcere! I detenuti lo sanno bene, e anche questo li ha portati a comportamenti che restano in ogni caso ingiustificabili, per le modalità violente, e che danneggiano loro stessi, in primis.

Che fare allora? In Iran sono stati rilasciati temporaneamente 70.000 detenuti. In una situazione di emergenza, soluzioni analoghe, limitate a singoli istituti o generalizzate, sarebbero ragionevoli, in chiave deflazione penitenziaria. Invocare l’indulto o l’amnistia, come è stato fatto nei giorni scorsi – anche da parte dei detenuti in rivolta – non è però a mio avviso una soluzione politicamente percorribile, tanto più dopo le rivolte; e si tratterebbe comunque di una soluzione non adottabile in tempi brevi. Si potrebbe pensare, facendo leva sulle misure alternative (la detenzione domiciliare), a misure urgenti per ridurre la popolazione penitenziaria entro i limiti dei posti disponibili in carcere (in questa direzione va una proposta dell’Unione delle Camere penali Italiane) oppure, forse più realisticamente, nell’attuale quadro politico, a una liberazione anticipata speciale (che secondo la stampa sarebbe allo studio del Ministero), oppure anche solo a una disciplina che introduca, transitoriamente, permessi di uscita dal carcere, con previsione di permanenza presso il domicilio (per chi ne disponga); permessi che potrebbero essere concessi anche in vista di un periodo di quarantena (dove trascorrerlo altrimenti? non negli ospedali, già al collasso, non in carcere, per quanto si è detto). Si tratta insomma di pensare a come affrontare un problema che, purtroppo, può presentarsi da subito. Una riflessione in tal senso è opportuna, e il senso di queste righe è appunto quello di stimolarla, assieme a quanti – come Ornella Favero, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti orizzonti – già l’hanno meritoriamente fatto. Perchè chi si occupa del sistema penale non può e non deve dimenticarsi del carcere: anche quando i pensieri sono altrove e il carcere, drammaticamente come in questi giorni, fa di tutto per allontanarsi dalla società civile.