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  Opinioni  
04 Dicembre 2019


Il coordinamento tra la Procura generale della Corte di cassazione e la Procura Europea


1. Il nuovo scenario aperto dalla Procura Europea ed il ruolo-chiave della Procura Generale della Corte di Cassazione. – Nelle previsioni normative introdotte dal Trattato di Lisbona la Procura europea presenta potenzialità molto maggiori di un semplice rafforzamento della tutela degli interessi finanziari dell’Unione per effetto dell’attività di un organo investigativo penale da affiancare all’OLAF (la cui sfera di competenza resterebbe così circoscritta ad un’attività di indagine esclusivamente amministrativa).

Le disposizioni contenute nell’art. 86 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) aprono lo scenario, complesso ma affascinante, di un vero e proprio salto di qualità nel processo di integrazione giuridica: all’obiettivo della completa realizzazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie viene, infatti, ad affiancarsi quello di una progressiva unificazione della fase preliminare del processo penale in alcuni settori-chiave, attraverso la istituzione di un nuovo organo che attualmente è destinato a «combattere i reati che ledono gli interessi finanziari dell'Unione» (come stabilito dai primi due paragrafi della norma), ma potrebbe, in seguito, vedere estese le proprie attribuzioni – con un ulteriore accordo politico trasfuso in una decisione adottata all’unanimità dal Consiglio europeo (previa approvazione del Parlamento europeo e consultazione della Commissione) – ad un campo di intervento amplissimo, tale da coprire le più diverse forme di «criminalità grave che presenta una dimensione transnazionale» (secondo il disposto del quarto paragrafo dello stesso art. 86).

 Lo spazio di attività dell’EPPO si presta, quindi, a ricomprendere – in un futuro, eventuale percorso scandito da diverse tappe – la vastissima gamma dei delitti per i quali il Trattato di Lisbona ha previsto una competenza penale autonoma[1] dell’Unione Europea.

La necessità di un sistema di giustizia para-federale si accorda bene con la consapevolezza che l’Unione Europea appare oggi come una formazione sui generis, sospesa tra quello che non è più – una mera cooperazione tra Stati – e quello che non è ancora – una unione politica di tipo federale. Essa riflette la descrizione, largamente condivisa, del sistema giuridico europeo come un ordinamento para-federativo, in cui gli Stati membri non sono più pienamente sovrani, ma non sono neppure componenti di uno Stato federale[2].

Non essendo stata seguita dal Trattato di Lisbona, e dalla successiva produzione normativa, la prospettiva “federalistica” di affidare anche il giudizio su determinati reati ad una Corte europea, si è accolta la scelta intermedia delle indagini affidate a un pubblico ministero europeo, che rappresenta comunque un grande passo avanti rispetto al precedente assetto della giustizia penale, imperniato sulla dimensione nazionale in tutte le fasi del procedimento.

Su questa scelta di fondo sarebbe stato possibile costruire due diversi modelli di disciplina dell’attività di indagine svolta dal nuovo organo requirente: il primo modello è quello dell’elaborazione di una regolamentazione uniforme a livello europeo, con un vero e proprio “codice di procedura penale della fase preliminare”, accompagnato da una integrazione con la corrispondente disciplina interna per disegnare un quadro organico del fenomeno processuale[3]; il secondo modello, invece, è imperniato sull’applicazione delle regole nazionali con la previsione della loro circolazione tra ordinamenti.

Nel Regolamento (UE) 2017/1939 del 12 ottobre 2017, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata sull’istituzione della Procura europea, è venuto a prevalere il secondo modello, che tende a valorizzare il principio del reciproco riconoscimento ed a dettare una normativa “minimalista” con un ampio rinvio alle diverse regolamentazioni nazionali dell’attività di indagine.

Questo secondo modello di disciplina delle indagini, imperniato sull’applicazione della lex loci, potrebbe sembrare, a prima vista, di più agevole praticabilità rispetto al primo, in quanto non impegna il legislatore europeo ad una complessa elaborazione di regole uniformi, e consente ai procuratori europei delegati di applicare largamente, nelle loro attività investigative in ciascuno degli Stati membri, la disciplina nazionale che essi sono soliti utilizzare.

In realtà, il compito rimesso all’EPPO secondo tale impostazione è assai più complesso di quanto appaia.

La necessità – giustamente evidenziata dalle disposizioni del Regolamento – di osservare non solo la legislazione interna, ma anche una serie di diritti procedurali garantiti dalla normativa europea, dalla Carta di Nizza e dagli stessi principi del “processo equo”, implica inevitabilmente un alto tasso di creatività del processo interpretativo.

Per assicurare la legittimità degli atti di indagine, non sarà infatti sufficiente applicare il codice di procedura penale nazionale, occorrendo anche conformarsi alle disposizioni – non sempre coincidenti – delle direttive europee, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ed al “diritto vivente” della CEDU.

Il riferimento a quest’ultimo “formante giuridico” appare, da un lato, imprescindibile, e, dall’altro lato, fortemente problematico nel caso in cui il luogo di espletamento dell’indagine fuoriesca dal territorio dello Stato dove si celebrerà il dibattimento.

Alla divergenza tra la lex loci e la lex fori possono, chiaramente, accompagnarsi radicali difformità di natura culturale, giuridico-sistematica, costituzionale, e persino storico-politica, tali da condurre ad una pluralità di interpretazioni sull’impatto concreto degli standard internazionali di tutela dei diritti fondamentali che costituiscono il parametro di legittimità dell’attività investigativa.

Accompagnare una versione “avanzata” del principio del reciproco riconoscimento con la conservazione di modelli nazionali di attività investigativa assai eterogenei tra loro, senza alcun tentativo di dettare regole comuni che creino un valore aggiunto e svolgano una funzione “educativa” sul piano culturale, può quindi accrescere l’incertezza del diritto, proprio nella delicatissima materia della valutazione del giudice nazionale sulla validità di atti di indagine che hanno bisogno di essere compiuti in tempi molto ristretti e di produrre risultanze probatorie il più possibile stabili.

Una simile incertezza può, poi, comportare un aumento del rischio di una reazione sfavorevole all’attività del nuovo organo requirente non solo da parte degli ambienti accademici e forensi, ma anche nel più generale ambito socio-politico.

In dottrina è stata giustamente segnalata l’esigenza di considerare realisticamente il peso oggettivo delle difficoltà legate alla prospettiva di una accettazione immediata di un istituto come l’EPPO nei vari ordinamenti dei paesi membri dell’Unione Europea, portatori, non di rado, di tradizioni giuridiche e sensibilità culturali divergenti proprio per quel che attiene alla collocazione istituzionale e al ruolo del pubblico ministero[4].

A ben vedere, analoghe difficoltà possono prospettarsi alla luce delle vistose diversità presenti nei sistemi giuridici interni a proposito della disciplina delle indagini, della formazione delle prove, e del rapporto tra le prime e le seconde.

Per creare “dal basso” il necessario tessuto di principi comuni da applicare nell’attività investigativa dei diversi organi periferici dell’EPPO, appare oggi fondamentale, in mancanza di un “Gip europeo”, la funzione di indirizzo culturale e di guida operativa svolta dagli organi di vertice delle magistrature requirenti degli Stati membri, che, come la Procura Generale della Corte di Cassazione, presentano la duplice caratteristica di essere partecipi del compito nomofilattico delle Corti Supreme, e di possedere una specifica competenza per i rapporti internazionali.

Devono essere organi come la Procura Generale della Corte di Cassazione a riempire gli “spazi interstiziali” tra le norme attraverso una mediazione culturale tra principi di garanzia internazionale dei diritti fondamentali e specificità del sistema nazionale.

Lo svolgimento di un simile compito appare indispensabile per ragioni di coerenza dell’azione dei Procuratori europei delegati, di certezza del diritto, di responsabilità sociale della giustizia nei confronti della collettività di cittadini europei su cui incide l’azione dell’EPPO, ma anche di funzionalità delle indagini rispetto alla fase dibattimentale.

In questa prospettiva, un ruolo centrale va senza dubbio riconosciuto alla Procura Generale della nostra Corte di Cassazione.

Infatti il modello di Procura Europea che viene fuori dal Regolamento (UE) 2017/1939 presenta alcuni caratteri strutturali di essenziale importanza, che si riallacciano con assoluta chiarezza agli aspetti qualificanti dell’esperienza processuale italiana: si tratta di un pubblico ministero che, a norma dell’art. 6 par. 1 e dell’art. 5 par. 4 del Regolamento, «è indipendente», «svolge le indagini in maniera imparziale e raccoglie tutte le prove pertinenti, sia a carico che a discarico».

Al fine di assicurare al Pubblico ministero europeo, non solo nella law in the books ma anche e soprattutto nello svolgimento quotidiano delle sue funzioni, quel ruolo di “parte imparziale” illustrato da un grande giurista e avvocato come Piero Calamandrei (il quale credeva fortemente in un’Europa capace di promuovere una “elevazione della libertà individuale dal piano interno al piano internazionale”[5]), è quindi indispensabile il riferimento all’esperienza italiana, letta alla luce della “interpretazione convenzionalmente conforme”, che resta la strada privilegiata per ridimensionare il rischio di una visione funzionalistica e emblematica dello strumento penale e per rafforzare la legittimazione del nuovo organo, evitando che la sua attività possa essere strumentalizzata per scopi “politici” impropri di matrice interna o internazionale.

 

2. L’assetto organizzativo dei Procuratori europei delegati e il necessario coinvolgimento della Procura Generale. – Nell’attuazione del Regolamento (UE) 2017/1939 all’interno del nostro ordinamento, uno dei profili ordinamentali cui va rivolta prioritaria attenzione è sicuramente l’assetto organizzativo dei Procuratori europei delegati, i quali costituiscono il livello decentrato dell’EPPO.

A ben vedere, da un raffronto della normativa europea con quella interna si desume la necessità di nominare almeno uno dei Procuratori europei delegati all’interno della Procura Generale della Corte di Cassazione.

È questo il necessario portato dell’art. 4 del Regolamento, che stabilisce che l’EPPO «esplica le funzioni di pubblico ministero dinanzi agli organi giurisdizionali competenti degli Stati membri fino alla pronuncia del provvedimento definitivo».

Ciò significa che anche la partecipazione del Pubblico Ministero al giudizio di cassazione è di competenza dell’EPPO, ovviamente attraverso un Procuratore europeo delegato operante con il “doppio cappello” di magistrato requirente, ad un tempo, nazionale ed europeo.

Si tratta, senza dubbio, di una attività molto più ampia rispetto al contenuto del criterio direttivo racchiuso nell’art. 4 comma 3 lett. p) della legge di delegazione europea 2018 (L. 4 ottobre 2019, n. 117), che richiede soltanto di «prevedere che il procuratore europeo delegato svolga le funzioni ai fini della proposizione degli atti di impugnazione».

La semplice presentazione dei ricorsi per cassazione è un compito che ben potrebbe essere esercitato da un Procuratore europeo delegato individuato su base distrettuale, mentre la partecipazione al giudizio di legittimità deve necessariamente essere affidata a un magistrato della Procura Generale della Corte Suprema, il quale interverrà come organo dell’EPPO.

Si tratta di un’esigenza da tenere in considerazione nel momento in cui occorrerà dare attuazione ai principi e criteri direttivi contenuti nell’art. 4 comma 3 lett. b) e c) della legge di delegazione europea, nonché alle disposizioni degli artt. 13, par. 2, e 17, par. 1, del Regolamento, che delineano una sequenza di adempimenti così strutturata:

  • individuazione, da parte del legislatore delegato, dell’autorità competente a concludere con il procuratore capo europeo l'accordo diretto a individuare il numero dei procuratori europei delegati nonché la ripartizione funzionale e territoriale delle competenze tra gli stessi;
  • definizione, da parte del legislatore delegato, del procedimento funzionale al predetto accordo;
  • introduzione, sempre da parte del legislatore delegato, delle necessarie modifiche alle disposizioni dell'ordinamento giudiziario dirette a costituire presso uno o più uffici requirenti l'ufficio per la trattazione dei procedimenti relativi ai reati di competenza dell’EPPO;
  • individuazione, ad opera del legislatore delegato, dell’autorità competente a designare i candidati al posto di procuratore europeo delegato ai fini della nomina da parte del collegio su proposta del procuratore capo europeo, nonché dei criteri e delle modalità di selezione che regolano la designazione;
  • approvazione del numero dei procuratori europei delegati nonché della ripartizione funzionale e territoriale delle competenze tra di essi all’interno di ciascuno Stato membro, da parte del procuratore capo europeo, previo accordo con le competenti autorità nazionali;
  • nomina dei procuratori europei delegati designati dagli Stati membri da parte del collegio dell’EPPO, su proposta del procuratore capo europeo.

 

3. La responsabilità disciplinare dei Procuratori europei delegati. – Per definire il quadro giuridico applicabile nel nostro ordinamento nazionale alla responsabilità disciplinare dei Procuratori europei delegati, occorre tenere conto del testo dell’art. 17 par. 4 del Regolamento (UE) 2017/1939, che impone agli Stati membri un duplice onere:

  1. un onere di preventiva informazione al Procuratore capo europeo prima di attivarsi per la rimozione dall’incarico o l’adozione di provvedimenti disciplinari nei confronti di un Procuratore europeo delegato per motivi non connessi alle responsabilità derivanti dal Regolamento;
  2. un onere di ottenere il consenso del Procuratore capo europeo per la rimozione dall’incarico o l’adozione di provvedimenti disciplinari nei confronti di un Procuratore europeo delegato per motivi connessi alle responsabilità derivanti dal Regolamento.

Dal contenuto della suddetta previsione normativa può quindi trarsi la conclusione che i poteri disciplinari della Procura Generale della Corte di Cassazione e del Consiglio Superiore della Magistratura continuino ad operare per tutte le possibili cause di responsabilità disciplinare del Procuratore europeo delegato, ma debbano essere esercitati, rispettivamente, con il consenso o semplicemente previa informazione del Procuratore capo europeo, secondo che si tratti di motivi connessi o meno alle responsabilità derivanti dal regolamento istitutivo dell’EPPO.

Tale interpretazione è coerente con le indicazioni espresse nel parere adottato in data 10/10/2018 dal Consiglio Superiore della Magistratura sul disegno di legge di delegazione europea («lo Stato nazionale può rimuovere, sanzionare disciplinarmente o trasferire il magistrato dal ruolo di PED per illeciti o altre condotte rilevanti commesse nell’ambito delle funzioni PED, secondo le modalità previste dall’ordinamento nazionale, ma solo con il consenso del procuratore capo europeo, con la possibilità, in caso di mancato consenso, di “chiedere al collegio di esaminare la questione”»).

La tematica della responsabilità disciplinare dei Procuratori europei delegati è stata affrontata solo parzialmente dalle previsioni contenute nell’art. 4 comma 3 della legge di delegazione europea, che, dopo avere sancito un obbligo di carattere generale volto ad «adeguare le disposizioni dell'ordinamento giudiziario alle norme del regolamento (UE) 2017/1939 che disciplinano la rimozione dall'incarico o l'adozione di provvedimenti disciplinari nei confronti del procuratore nazionale nominato procuratore europeo delegato, in conseguenza dell'incarico rivestito nell'EPPO», si è limitato a richiedere una disciplina attuativa consistente nel «prevedere che i provvedimenti adottati dalla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura che comportino la rimozione dall'incarico o, comunque, i provvedimenti disciplinari nei confronti di un procuratore nazionale nominato procuratore europeo delegato per motivi non connessi alle responsabilità che gli derivano dal Regolamento (UE) 2017/1939 siano comunicati al procuratore capo europeo prima che sia data loro esecuzione».

Resta privo di ogni regolamentazione nella legge di delegazione europea il potere del CSM di applicare provvedimenti disciplinari o altri provvedimenti che comportino la rimozione dall'incarico del Procuratore europeo delegato per motivi connessi alle responsabilità derivanti dal Regolamento (UE) 2017/1939.

Emerge dunque l’esigenza di colmare la suddetta lacuna normativa, stante il testo dell’art. 17 par. 4 del Regolamento che implica la sopravvivenza del potere disciplinare della Procura Generale e del CSM anche in tale ipotesi, ed in mancanza di un sistema disciplinare europeo con analoghe garanzie e struttura.

Nella legislazione interna dovrebbe trovare adeguata considerazione anche l’indicazione contenuta nel suddetto parere del CSM, secondo cui «sarebbe opportuno circoscrivere il più possibile il significato della locuzione aspecifica “responsabilità derivanti dal regolamento” alle sole violazioni ricollegabili all’adempimento degli obblighi specifici derivanti dal regolamento, conservando uno spazio valutativo all’organo consiliare con riferimento a condotte violative di obblighi previsti dall’ordinamento nazionale, anche se commesse nell’ambito delle funzioni PED».

 

4. La competenza per la risoluzione dei contrasti tra EPPO e Procure nazionali. – Da un raffronto della normativa europea con quella interna si desume l’ulteriore valorizzazione del potere di risoluzione dei contrasti tra Procure affidato alla Procura Generale della Corte di Cassazione, che viene esteso alla risoluzione dei contrasti tra EPPO e Procure nazionali, sulla base dell’art. 25 par. 6 e del “considerando” n. 62 del Regolamento (UE) 2017/1939.

Tale conclusione va confermata anche tenendo conto della competenza “ancillare” dell’EPPO prevista dall’art. 22, par. 2 e 3, dall’art. 25, par. 2 e 3, e dai “considerando” nn. 54-60 del Regolamento, nonché del principio di tendenziale unità del procedimento (cfr. il “considerando” n. 67).

Particolarmente eloquente è, al riguardo, il disposto dell’art. 25 par. 6 del Regolamento, secondo cui «in caso di disaccordo tra l’EPPO e le procure nazionali sulla questione se la condotta criminosa rientri nel campo di applicazione dell’articolo 22, paragrafi 2 o 3[6] o dell’articolo 25, paragrafi 2 o 3[7], le autorità nazionali competenti a decidere sull’attribuzione delle competenze per l’esercizio dell’azione penale a livello nazionale decidono chi è competente per indagare il caso. Gli Stati membri specificano l’autorità nazionale che decide sull’attribuzione della competenza».

Non meno significativo è il “considerando” n. 62, che evidenzia che «in caso di disaccordo sulle questioni relative all’esercizio di competenza, è opportuno che siano le autorità nazionali competenti a decidere in merito all’attribuzione delle competenze. La nozione di autorità nazionali competenti dovrebbe essere intesa come riferimento a qualsiasi autorità giudiziaria competente a decidere sull’attribuzione della competenza conformemente al diritto nazionale».

Dalle suddette indicazioni contenute nel Regolamento (UE) 2017/1939 di desume quindi che la competenza per la risoluzione dei contrasti tra l’EPPO e Procure nazionali va attribuita alla Procura Generale della Corte di Cassazione, trattandosi dell’autorità nazionale incaricata di risolvere i “conflitti di competenza” sull’esercizio dell’azione penale a livello nazionale[8].

Deve invece ritenersi esclusa la competenza della Procura Generale della Cassazione alla risoluzione dei contrasti tra procuratori europei delegati di più Stati, alla luce del testo dell’art. 26 del Regolamento, che assegna tale compito alle Camere permanenti.

Dubbia (ma possibile) è invece la persistenza di tale competenza nel caso di più procuratori europei delegati appartenenti al medesimo Stato ed operanti di propria iniziativa, in quanto il paragrafo 1 dell’art. 26 del Regolamento fa riferimento alle norme nazionali sulla competenza.

 

[1] Sul tema v. A. Bernardi, La competenza penale accessoria dell’unione europea: problemi e prospettive, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2012, p. 43 ss.; G. Grasso, La Costituzione per l’Europa e la formazione di un diritto penale dell’Unione europea, in G. Grasso – R. Sicurella, Lezioni di diritto penale europeo, Giuffrè, Milano, 2007, p. 692: C. Sotis, Il Trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione Europea, in Cass. pen., 2010, p 1146 ss.

[2] B. Piattoli, Cooperazione giudiziaria e pubblico ministero europeo, Giuffrè, Milano, 2002, p. 21.

[3] In questi termini B. Piattoli, op. cit., p. 213.

[4] Così G. De Amicis, Il “rafforzamento” di Eurojust nella prospettiva del pubblico ministero europeo: finis an transitus?, in T. Rafaraci, La cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale nell’Unione Europea dopo il Trattato di Lisbona, Giuffrè, Milano, 2011, p. 314-315.

[5] Così P. Calamandrei nel suo intervento del settembre 1945 su Costituente italiana e federalismo europeo, ora in Id., Costruire la democrazia. Premesse alla Costituente, Vallecchi, p. 170.

[6] Si tratta, in particolare, della competenza materiale dell’EPPO per partecipazione a un’organizzazione criminale incentrata sulla commissione di uno dei reati di cui al paragrafo 1, cioè dei reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, e per qualsiasi altro reato indissolubilmente connesso a una condotta criminosa rientrante nell’ambito di applicazione del paragrafo 1 dello stesso art. 22.

[7] Norma, questa, che disciplina l’esercizio della competenza dell’EPPO.

[8] Cfr. R. Sicurella, Spazio europeo e giustizia penale: l’istituzione della Procura europea, in Diritto penale e processo, n. 7/2018, che rileva, in relazione alla conflittualità dell’EPPO con le competenti autorità nazionali, come «il regolamento taccia sulla definizione del fatto “indissolubilmente connesso”, riguardo al quale unica evanescente traccia - forse anche fuorviante - dell’intenso dibattito in proposito durante i negoziati rimane l’affermazione nel considerando 54 che indirizza l’interprete alla giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di ne bis in idem quasi ad intendere l’assoluta sovrapponibilità del “fatto indissolubilmente connesso” all’idem factum».