Da quando i partiti si sono appropriati dei temi della giustizia e della sicurezza, nelle competizioni elettorali a frequenza stagionale, quelle comunali-amministrative per la sicurezza urbana, e quelle politiche nazionali o europee per la giustizia penale, i tecnici sono diventati sempre più serventi o commentatori e l’uso salvifico delle leggi punitive o del controllo dell’ordine pubblico è assurto a religione di massa. Il fenomeno è mondiale. Negli Stati Uniti iniziò negli anni ’60 del secolo scorso e ha portato a un progressivo aumento della carcerizzazione, sì da farne il Paese dove l’utilizzo della pena detentiva è il più diffuso al mondo. La nuova spettacolarizzazione della giustizia, che nel ’600 o nel ’700 era rappresentata dai supplizi pubblici, dalle atrocità sui corpi dei condannati, è oggi sostituita da manifestazioni di educazione popolare attraverso le pene minacciate o eseguite, i processi mediatici e le anticipazioni di pena nel dibattito pubblico.
I nuovi sacerdoti dell’etica pubblica, talora martiri della Repubblica, sono stati per molto tempo pubblici ministeri e magistrati penali – divenuti solo di recente “sorvegliati speciali” – che hanno promesso sicurezza, o pronunciato condanne etico-giuridiche. Il fenomeno cominciò col terrorismo e la mafia, proseguì con la corruzione istituzionale della fine della Prima Repubblica, e non si è interrotto veramente mai. La società si è sentita protetta da questi supereroi. Il populismo basa una parte rilevante del suo potere collettivo, assenti altre ideologie (salvo un generico folklorismo politico di sinistra o di destra), sulla sacralizzazione ora parlamentare, ora giudiziaria, di riti punitivi. Questo fenomeno internazionale si è agganciato in Italia a una situazione tutta particolare di controllo di legalità da parte della magistratura: un conflitto che, maturato dopo Tangentopoli, non ha mai cessato di ripresentarsi come costante della lotta politica: giustizialisti contro garantisti.
Il volgere dei governi ci ha abituati a rilevanti cambi di scena. Essi mantengono, peraltro, un filo conduttore costante, come vedremo.
Il giustizialismo catartico di Tangentopoli, seguito dal lungo dominio delle Procure sul c.d. controllo di legalità nell’Italia di Berlusconi, è infine culminato nel “diritto penale del nemico” (stranieri, corrotti etc.) al tempo del governo gialloverde di Bonafede, Salvini e Conte. Ciò che ne è seguito, dopo la rottura tra Conte e Salvini e la svolta verso il governo Draghi resa possibile dal venire meno dell’appoggio di Renzi alla maggioranza del secondo governo Conte, ha generato un cambio di politiche rilevante in materia di giustizia. Prima un governo tecnico, ma fortemente attento al tema della giustizia, ampiamente disciplinato dalla c.d. riforma (ma sono state più di una) Cartabia, con maggioranze parlamentari amplissime, la cui azione non è attribuibile a nessuna forza politica in modo particolare (esclusa la parte della destra che non partecipò a quel governo). E poi l’attuale governo Meloni di destra-centro, dove pur in presenza di un dichiarato garantismo ministeriale (Carlo Nordio) e di Forza Italia, si sono succedute, ma soprattutto annunciate, diverse riforme, ora populiste in chiave di tutela dell’ordine pubblico conservatore classico (decreto anti-rave, vicenda Cospito, modifica dell’art. 4-bis Ordin. pen., riduzione dei reati perseguibili a querela se connessi a mafia e criminalità organizzata, o antiscarcerazioni, delitto anti-scafisti che aggrava enormemente la pena per l’omicidio colposo connesso a condotte pericolose di accesso all’immigrazione clandestina, provvedimenti promessi sul carcere, annuncio di alimentazioni forzate per i detenuti in sciopero della fame grazie ai pareri del Comitato nazionale di bioetica politicamente “rinnovato”), ora portatrici di una ideologia di tutela penalmente aggravata della donna quale mater familias (l’utero in affitto come reato universale), ora segnate dalla volontà di chiusura dello storico conflitto politica-magistratura: separazione delle carriere, eliminazione di inchieste avvertite come vessatorie e inutili abolendo del tutto i reati, per impedire le indagini, riecheggiando l’esempio di Berlusconi col falso in bilancio; più ampie e solo preannunciate politiche di depenalizzazione, mentre certi sono alcuni condoni fiscali con effetti anche penalistici di favore. Non sempre l’anima liberale traspare dai disegni, che lasciano intravedere spesso una cultura di law and order. Il vecchio diritto penale “liberale” dell’Ottocento era del resto un noto esempio di diritto di classe. Si annunciano riforme della prescrizione in chiave “garantista”, ma altresì progetti di legge in materia di reati fallimentari, alimentari, modifiche processuali di rilievo su azioni penali più facoltative, ma anche maggiore burocratizzazione e depoliticizzazione della magistratura, verso l’efficientismo. Moltissimi temi, sostanziali e processuali o di ordinamento giudiziario.
Sono segnali politici e “culturali” in parte contrastanti e ancora incerti, ed è molto presto per tentare una analisi seria di queste tendenze, perché a commissioni di esperti in materie tecniche si alternano dibattiti nazionalpopolari divisivi sulla stampa attorno a tematiche a più spiccata valenza mediatica. Perdura al riguardo la discussione su nuove leggi più declamate che attuate, o fondate su testi provvisori, non sempre meditati. Da un lato si discute senza approvare, ma a latere si approva senza discutere. Il complesso di queste iniziative è dunque un po’ disorientante e ancora avvolto in una nebulosa.
Tuttavia, come anticipato, c’è un filo conduttore col passato giustizialista o in parte anche col più recente riformismo tecnico-europeista, efficientista e costituzionale del ministero Cartabia.
È la drammatizzazione del problema giustizia, la sua rappresentazione come una realtà così gravemente malata da apparire inaccettabile e bisognosa di una innovazione permanente, inesauribile. Tutto è enfatizzato. Giuristi-vati si alternano dalle tribune promettendo soluzioni salvifiche.
Questo stato delle cose, che attende sempre un vaccino, una terapia, una riforma, ha qualcosa di religioso: è lo specchio del fatto che è il penale a essere diventato una religione di massa. Il penale salva e condanna. Extra poenam nulla salus. È solo l’incontro con la verità della giustizia punitiva ad apparire risolutivo: si tratti di una vicenda privata, pubblica o addirittura storica e militare. È molto più di un’etica pubblica, che fissa i limiti e i contenuti della moralità richiesta. La giustizia punitiva individua i capri espiatori: quelli che se puniti sembrano “risolvere tutto”; ogni problema sociale sottostante è così neutralizzato e narcotizzato dalla criminalizzazione. La pena diventa un vero ostacolo “legale” e una alternativa simbolica alla soluzione dei problemi, al rerum cognoscere causas.
Non passa giorno che non si discuta di rivedere una legge penale, o il suo processo, o delle indagini su un politico, amministratore o imprenditore, oltre alle “normali” cronache giudiziarie e ai cold cases che alimentano i bisogni di verità punitiva, oppure, a tratti, di liberazione da questo incubo giustizialista. Non si capisce altrimenti, se non per l’attrazione nelle logiche di una nuova religione civile e dei suoi riti, perché la maggior parte dei frequentatori dei media o dei social dovrebbero interessarsi a tante vicende – non ai fatti, si noti, ma alla loro qualificazione e gestione giudiziaria – che toccano poche migliaia di persone come autori: il concorso esterno e i reati di mafia, quelli dei sindaci, dei corrotti, degli scafisti, dei bancarottieri, del terrorismo, o la perseguibilità dei politici, i reati degli amministratori. Oppure, salvo che diventino veri “gialli”, i più gravi delitti di sangue. Perché tutti siamo a rischio penale e di fatti illeciti, ma non egualmente per questi delitti e non egualmente a rischio carcere: chi sono i 57mila detenuti di cui il 2% laureato e l’1% in esecuzione per reati economici (in Italia) di fronte ai lettori delle questioni sulla giustizia (una diversa minoranza ristretta) e ai 60 milioni di abitanti? Chi sono di fronte alle oltre 2milioni e 500 mila notizie di reato annuali? Si dovrebbe parlare delle loro condizioni di detenzione, piuttosto, e poi dei reati di droga, di quelli patrimoniali, dei reati di falso, di diffamazione, degli omicidi e delle lesioni dovuti a colpa, dei reati fiscali, dei reati commessi in famiglia e sul luogo di lavoro, delle violenze morali (la “violenza privata ex art. 610 c.p.), e anche di tutti gli abusi sessuali, di quelli dei pubblici ufficiali, oltre alle innumerevoli forme di disonestà nel commercio, nell’impresa e nelle professioni. Qui un reato si trova spesso, e vede il civis autore o vittima, e se non è reato è un illecito civile, o amministrativo, che non investe certo problemi di “giustizia minore” solo perché non è penale. Preferiamo tuttavia la religione di massa costruita attorno a personaggi o vicende che hanno maggior risalto mediatico. Anche il “nuovo garantismo” di destra-centro si profila come religione di massa: perché mette sempre al centro il penale. Ma lo fa senza prospettare (sino a oggi) un disegno vero, con annunci frammentari che creano polveroni senza costrutto. La discrezionalità dell’azione penale è conciliabile con un p.m. libero dai partiti politici? Se sì, ben venga. Altrimenti si dovrà trovare un compromesso, qualcosa che non lo renda comunque una voce della politica, che sarebbe la definitiva consacrazione della rissa tra i poteri dello Stato. Perché il giudice terzo non potrà mai pensare di “fare giustizia” di fronte a imputazioni scelte politicamente. Sarà sempre e solo amministrazione, e allora tutti avranno capito che questa partita ha bisogno di una diversa narratio, di altre forme di retorica giudiziale, sportiva o bellica. Una american way. È dubbio, peraltro, che sia questa la strada per un atteggiamento più laico, disincantato e maturo verso i temi della giustizia, che risulti coerente col modello costituzionale, complessivo, non solo con il vigente art. 112 Cost., e con un drastico abbattimento della spettacolarizzazione: che potrebbe invece mutare o circoscrivere i soggetti dello stigma, per tutelare alcune categorie.
Il fatto è che questa religione un po’ è oppio del popolo, e un po’ è instrumentum regni.
È oppio perché droga chi si informa, perché è tossica e crea dipendenza, senza risolvere nessun problema, in quanto si sostituisce alla soluzione dei problemi sociali attraverso una lex minus quam perfecta, cioè il diritto punitivo che (almeno tradizionalmente!) non ripara, ma sanziona soltanto. Ma soprattutto è strumento di governo, perché è in ballo un grande regolamento dei conti: nel segno della continuità, del fil rouge tra tutti i diversi governi, che non hanno risolto, ma regolato, alimentato o discusso e gestito questo conflitto.
È infatti evidente che la questione della giustizia che ci occupa la vita quotidiana e politica da dopo Tangentopoli riguarda essenzialmente in primo luogo il potere, cioè il controllo della politica da parte della magistratura o l’invasione di campo della politica, appunto, da parte del potere giudiziario.
Non è una questione che riguardi in primo luogo i “comuni” cittadini, cioè non è per amore dei cittadini, non è per la giustizia dei consociati che ci sono queste continue polemiche. È in gioco il controllo della politica e sulla politica, sulla pubblica amministrazione e sull’impresa. Naturalmente è successo che tutto questo dibattito sia stato presentato come una questione interessante innanzitutto i diritti delle persone, però non è così: questa è soltanto la presentazione pubblica, la giustificazione esterna di una guerra il cui reale interesse riguarda attori selezionati, perché i suoi protagonisti, oltre agli avvocati, sono quattro o cinquemila magistrati requirenti e giudicanti penali, gli amministratori pubblici, i partiti e i politici di professione che sono alcune decine di migliaia di persone. Ciò non riguarda direttamente la stragrande maggioranza dei cittadini. Certo ci sono altre classi o categorie coinvolte dal controllo di legalità, in particolare gli imprenditori; quindi, qui si estende naturalmente l’area delle controversie, ma fondamentalmente è soltanto una minoranza che è toccata da questo problema.
Non perché non esistano problemi gravi della giustizia che investono milioni e milioni di cittadini, ma non sono questi i problemi veri che stanno al centro dell’interesse della politica per il dibattito sulla “questione giustizia” in senso stretto. Neppure il dramma dei tempi del processo, che solo il governo Draghi e Cartabia, finora, ha tentato di affrontare con maggior decisione. I problemi veri della gente nei processi e i loro diritti nell’accesso ai tribunali sono una parte, un’occasione, un momento dove si orientano i voti nelle competizioni elettorali ormai continue e combattute anche su questi temi, ma poi tutto è catalizzato dall’altro grave argomento del controllo di legalità “della e sulla” politica, che fa da collante al tutto.
Sennonché, in questo regolamento di conti c’è stata una svolta. È infatti successo che ormai anche i magistrati siano visti come i politici, cioè siano decaduti dal rango e dal ruolo di regolatori, controllori super partes, divenendo parti essi stessi. L’obiettivo che un’area dei partiti e dell’avvocatura ha perseguito in questo regolamento di conti è stato quello di delegittimare la magistratura (penale) in generale al punto da farla credere e ritenere o apparire come una parte e non più come super partes. Tale disegno ha raggiunto abbastanza bene il suo obiettivo concreto, perché è la stessa magistratura che lo ha reso possibile, in quanto sono emersi, soprattutto dopo la vicenda Palamara, scatenante in questo senso, una serie di deficit di alcune Procure della Repubblica o nell’operato di alcuni pubblici ministeri, insieme a tutta una serie di scandali in materia di giustizia penale soprattutto, che hanno alla fine travolto l’immagine superiore e neutrale del magistrato. La sua quotidiana esposizione pubblica su disegni di legge o interventi di governi e partiti, rappresentata in correnti e nell’ANM, ne ha contrassegnato una ulteriore immagine “collettiva” di politicizzazione.
La chiusura dei conti col potere invasivo delle Procure ritorna prepotente e si dimostra uno dei caratteri più profondi dopo la fine della prima Repubblica. Forse solo una forza non di sinistra poteva essere in grado di affrontare il nodo dell’uso politico dell’azione penale. Ma come lo intende fare veramente l’attuale Parlamento? Da un lato si cerca di ritrovare finalmente valori e criteri di etica pubblica in basi ai quali giudicare l’operato di parlamentari e ministri a prescindere dalla qualificazione penalistica dei comportamenti e dunque prendendo una distanza dallo stile tradizionale di processi “penali” mediatici; dall’altro lato, invece, entrano in campo forze parlamentari che promettono meno penale, se non verso i “veri” criminali, e una riduzione del potere delle Procure della Repubblica. Due obiettivi di per sé legittimi sul piano costituzionale e in parte desiderabili collettivamente. Sono peraltro ammantati di narrazioni che danno a questa politica un “wind of change” ben diverso da quello che si cantava l’indomani della caduta del Muro di Berlino.
Oltre i confini nazionali i venti di guerra intonano inni di libertà risorgimentali assicurate da una fornitura di armi mai vista a livello planetario, in nome di una legittima difesa di un Paese aggredito, e sostenuta da ragioni di geopolitica internazionale dove è evidente che la guerra resta per tutti gli Stati, nessuno escluso, uno strumento insostituibile per la soluzione di controversie internazionali. Infranto un sogno, ritornano gli eserciti, la patria e una rinnovata religione punitiva di massa.
Dopo la parentesi del governo Draghi anche il populismo è ritornato. Ma sotto vesti diverse. È un populismo sedicente garantista. Noi garantisti da sempre – e come tali non di destra, né di sinistra – siamo felici di una rinascita costituzionale dei diritti che entri nel linguaggio e nella mente dei partiti. Se di questo davvero si tratta. Il fatto è che il garantismo, figlio dell’illuminismo giuridico, non è mai stato “democratico”, ma gestito da aristocrazie intellettuali. È stato questo un suo limite storico, certamente, nel quale non è ora il caso di addentrarsi. Può tuttavia accadere che anch’esso si converta in un garantismo del potere, che viene messo in campo a sostegno di politiche di ordine, a tutela di ceti, classi o categorie forti o comunque di un disegno per nulla popolare. Il regolamento dei conti tra il controllo di legalità da parte delle Procure, e la libertà della politica da ingerenze indebite nel proprio campo, introduce oggi nel dibattito una diversa declinazione del garantismo, sempre legata alla riforma della giustizia e al penale come religione di massa. È il tema della assoluta terzietà del giudice: una preoccupazione che ogni avvocato difensore ha dovuto avvertire molte volte nella propria attività professionale. Che esso venga declinato sotto l’etichetta della separazione delle carriere è in parte ingannevole, perché non si discute mai veramente quale tipo di separazione dovrebbe applicarsi. Tutto il dibattito dimentica, per esempio, l’esigenza di una formazione comune anche postlaurea dei futuri magistrati e avvocati, perché il diritto non è separato; e trascura di analizzare i luoghi o i tipi di reati e di autori dove è maggiore la subalternità del giudicante all’accusa, a cominciare dalle misure cautelari.
Gli argomenti si susseguono così, senza piena informazione, disorientando il comune cittadino che si chiede se davvero questa rissa quotidiana si giochi per i diritti di ladri e rapinatori, o per altre categorie di imputati eccellenti, ovvero realmente per tutti.
L’anormalità quotidiana del conflitto storico fra garantismo e giustizialismo potrebbe conoscere una svolta, ma difficilmente cesserà in tempi brevi. Resta tuttavia la speranza e la fiducia nel controllo della Presidenza della Repubblica e della Corte costituzionale, oltre che dell’opinione pubblica. Alla fine, il garantismo non è, e non è mai stato, il campo libero della politica, ma un vincolo per la politica e per la magistratura. Per entrambe, al di là dei credi “religiosi” di cui il potere si è sempre circondato[1].
[1] Il discorso qui svolto e aggiornato in sintesi trova premesse e analisi storico-culturali in due libricini pubblicati negli ultimi anni: M. Donini, Il diritto penale come etica pubblica. Considerazioni sul politico quale ‘tipo d’autore’, Mucchi, Modena, 2014; Id., Populismo e ragione pubblica. Il post-illuminismo penale tra lex e ius, Mucchi, Modena, 2019.