Pubblichiamo di seguito il testo di un articolo del Prof. Glauco Giostra apparso su "Avvenire" sabato 11 gennaio 2020.
Legare la ragionevole durata del processo alla gravità del reato non è convincente. Necessario trovare una via di mediazione e affrontare il nodo delle responsabilità. Secondo l'italico costume, anche in tema di prescrizione del reato si è discusso con la stessa disponibilità al dialogo costruttivo che si manifesta tra opposte tifoserie allo stadio: interromperne il corso (come prevede, dopo la sentenza di primo grado, la norma ormai in vigore dal primo gennaio) sarebbe una dannazione secondo alcuni; una panacea, secondo altri.
Se non si vuole, neppure di fronte a temi complessi come questo, abbandonare l'approccio ciecamente manicheo, almeno si rispettino i termini oggettivi del problema. Tra le ragioni che vengono spesso addotte contro l'interruzione del corso della prescrizione, una – se fosse fondata – sarebbe decisiva: la prescrizione servirebbe a garantire il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Argomentazione che gode di immeritata fortuna, ma che non per questo cessa di essere ciò che è: una "giuridicolaggine".
Il procedimento penale ha una ragionevole durata quando perviene al suo epilogo fisiologico nel tempo necessario e sufficiente: sostenere che la saracinesca della prescrizione cali su di esso per garantirla è affermazione "in difficoltà di senso". Non si vuole usare l'argomento troppo facile, ma inespugnabile, dei reati imprescrittibili e, quindi dei processi che, nella prospettiva criticata, potrebbero essere legittimamente "eterni"; oppure dei processi che risponderebbero a criteri di ragionevole durata se conclusi entro i trenta anni previsti per la prescrizione.
È sufficiente notare che è operazione priva di plausibilità collegare la ragionevole durata del processo alla gravità del reato, come fa l'attuale meccanismo della prescrizione: un reato di agevole accertamento, anche se molto grave, non può giustificare un processo lunghissimo (pur se consentito dai termini di prescrizione); per contro, uno di estrema complessità probatoria, ancorché di modesta entità, potrebbe giustificare un processo non breve (pur se non consentito dai termini di prescrizione).
L'ha chiarito benissimo – da ormai mezzo secolo – la Corte europea dei diritti dell'uomo: la ragionevolezza della durata di un processo non può coincidere con l'enunciazione ex ante di un termine "in giorni, settimane, mesi, anni o periodi variabili a seconda della gravità del reato" (Corte europea, 10 novembre 1969, Stogmuller c. Austria).
Dipendendo, infatti, dalle circostanze concrete della vicenda processuale, essa si esprime soprattutto con valutazioni ex post, che debbono anche tener conto di diverse variabili: dalla complessità del caso alla condotta dell'autorità giudiziaria o delle parti private. La prescrizione, insomma, non garantisce la ragionevole durata del processo, come dimostra la circostanza che l'Italia "vanta" in ambito europeo, a un tempo, il primato di proscioglimenti per prescrizione e il maggior numero di condanne per irragionevole durata dei processi.
Trattiamo, dunque, la prescrizione che interviene nel corso del processo per quello che è: una sorta di amnistia random. Che spesso non riesce a scongiurare processi intollerabilmente lunghi e che sempre, quando interviene, costituisce una grave sconfitta del sistema e ingenera una pericolosa sfiducia nella giustizia.
La verità è che oggi il nostro sistema mette insensatamente sotto un unico compasso temporale due sacrosante esigenze: quella che il reato possa prescriversi quando sia decorso un tempo proporzionato alla sua gravità senza che ne sia stata addebitata ad alcuno la responsabilità; quella che il processo, una volta iniziato, pervenga a conclusione senza ingiustificati ritardi. Le cose non possono restare nei termini attuali; la soluzione non può essere soltanto uno stop alla prescrizione del reato. Il processo è di per sé una pena e a un processo inutilmente lungo non si può rispondere soltanto, come avviene oggi, con un indennizzo economico; vanno individuate responsabilità, previsti meccanismi dissuasivi e "scomputata" la pena-processo.
Per farlo è necessario innanzitutto rifondere l'istituto della prescrizione. La ferita sociale del delitto può essere sanata in due modi: con la cicatrizzazione del tempo o con la sutura operata da un giudice.
La prima evenienza ricorre quando l'apparato giudiziario non sa, non vuole o non riesce a intervenire: dopo un certo numero di anni la società valuta più funzionale alla stabilità sociale l'oblio, piuttosto che la riesumazione dell'evento (prescrizione del reato).
Quando, invece, prima che maturi la prescrizione del reato, gli organi giudiziari deputati promuovono l'accertamento della responsabilità, imputandola ad un soggetto determinato, non vi è più il decorso inerte del tempo, l'azione silente di Cronos: la collettività non vuole dimenticare. Vi sono indizi di reità e se ne vuole verificare il fondamento.
Il decorso del termine di prescrizione del reato si ferma per sempre. La domanda di giustizia non può più essere tacitata dal tempo, deve trovare una risposta nella sentenza del giudice. Ma ciò non può avvenire in un tempo indefinito: l'accusato ha diritto di conoscere il responso giudiziario in un tempo congruo, decorso il quale, il giudice deve emettere un provvedimento di non doversi procedere (prescrizione del processo).
Se la sentenza di primo grado, invece, viene pronunciata entro il termine previsto per la prescrizione del processo, si possono prefigurare due situazioni: 1) il pubblico ministero impugna, restando irrilevante che impugni anche l'imputato o altra parte privata. L'ordinamento ammette – per il suo tramite – che non ha ancora fornito la giusta risposta giudiziaria in ordine all'accusa mossa: i termini di prescrizione del processo continuano a decorrere anche nel grado successivo di giudizio; 2) impugna il solo imputato per chiedere un controllo sul fondamento della sentenza, che il pm e, per il suo tramite, l'ordinamento, ritengono invece giusta.
La posizione soggettiva dell'imputato muta: da diritto a essere giudicato entro un determinato tempo a diritto a un controllo della correttezza del giudizio subìto. I termini della prescrizione processuale non decorrono. Resta all'interessato il diritto, comunque, di lamentare l'eventuale irragionevole durata del processo, che, accertata da parte di autorità nazionale o sovranazionale, potrebbe dar luogo a esiti che vanno dall'equo indennizzo alla ineseguibilità della pena.
Una interessante soluzione intermedia è quella, adottata in Germania, di concedere riduzioni di pena in considerazione dell'entità del pregiudizio subito dall'imputato per l'irragionevole protrarsi del processo.
Il sistema così congegnato disincentiverebbe fortemente l'impugnazione del pubblico ministero (specie quella diretta a ottenere soltanto un inasprimento sanzionatorio), ben consapevole che coltivare un gravame significherebbe esporre il processo al rischio prescrizione.
Ma disincentiverebbe, altresì, l'impugnazione strumentale dell'imputato, che non potrebbe più puntare a un esito abortivo del procedimento. Sarebbe bene, poi, imporre che nei casi di prescrizione del processo o di sua verificata, irragionevole durata, siano sempre comunicati a un'apposita autorità di controllo (il Consiglio superiore della magistratura, ad esempio) perché accerti eventuali responsabilità.
È pur vero che potrà essere difficile appurare nel singolo caso negligenze aventi adeguata efficienza causale, ma è altrettanto vero che un costante monitoraggio degli uffici giudiziari fotograferebbe i maggiori punti di sofferenza del sistema, consentendo di assumere provvedimenti mirati, riguardanti le risorse e gli organici degli uffici, se la causa dovesse risultare di carattere oggettivo, oppure i singoli magistrati, se dovesse invece ravvisarsi in negligenze, incapacità o accidia professionale. Nessuna pretesa, naturalmente, di aver trovato la quadratura del cerchio, ma semmai di aver indicato una possibile direzione di marcia.