Il punto sui profili penalistici delle vicende riguardanti l’acciaieria tarantina
1. Il contesto. – Lunedì 4 novembre l’amministratore delegato di AM InvestCo Italy s.p.a., società italiana del gruppo multinazionale ArcelorMittal, ha comunicato ai commissari straordinari che attualmente gestiscono il gruppo Ilva la propria volontà di recedere dal contratto di affitto dei complessi aziendali dell’acciaieria. Contestualmente è stato depositato presso il Tribunale di Milano, competente per territorio, l’atto di citazione nei confronti dello stesso gruppo Ilva e dei commissari straordinari, con richiesta di accertare la cessazione contratto. A questa iniziativa i commissari straordinari hanno risposto con ricorso d'urgenza ex art. 700 c.p.c., di cui ha dato notizia anche il Governo. Di fronte al profilarsi di questa nuova fase acuta della perenne crisi dell'Ilva le Procure della Repubblica non sono rimaste inerti. Anzitutto, come si apprende da un comunicato stampa del 15 novembre, la Procura di Milano ha esercitato il diritto-dovere di intervento nella causa civile ex art. 70 c.p.c., avendo ravvisato «un preminente interesse pubblico relativo alla difesa dei livelli occupazionali, alle necessità economico-produttive del paese, agli obblighi del processo di risanamento ambientale»; allo stesso tempo è stato iscritto un fascicolo al modello degli atti non costituenti notizia di reato (mod. 45), allo scopo di verificare la sussistenza di eventuali profili di rilevanza penale nell’ambito vicenda. Sul fronte pugliese, a seguito di esposto dei commissari straordinari la Procura di Taranto avrebbe invece aperto un fascicolo nei confronti di ignoti per il reato contro l'economia pubblica di cui all'art. 499 c.p. (clicca qui per la notizia riportata da il Sole24ore e Repubblica), fattispecie che incrimina con la reclusione da tre a dodici anni "chiunque, distruggendo materie prime o prodotti agricoli o industriali, ovvero mezzi di produzione, cagiona un grave nocumento alla produzione nazionale o fa venir meno in misura notevole merci di comune o largo consumo".
La vicenda si inserisce all’interno di un quadro complesso, in cui le società che attualmente compongono il gruppo Ilva, tutte in amministrazione straordinaria dal 2015, sono ancora proprietarie degli impianti produttivi. AM InvestCo, dal canto suo, detiene l’intero capitale sociale delle società che conducono quegli impianti in forza di un contratto quadro stipulato il 28 giugno 2017, perfezionato a valle di una procedura di aggiudicazione definita con decreto del Ministero dello sviluppo economico del 5 giugno 2017. Il contratto prevede un iniziale periodo di affitto degli impianti ed il loro successivo acquisto al prezzo di 1 miliardo e 800 milioni di euro (al netto dei canoni già corrisposti). I singoli contratti in forza dei quali le controllate di AM InvestCo conducono i rami d’azienda di Ilva sono efficaci dall’1 novembre 2018.
La volontà di AM di interrompere il rapporto contrattuale discende da molteplici ragioni che – come esplicita nero su bianco l’atto di citazione – ne renderebbero impossibile o comunque eccessivamente onerosa l’esecuzione. Accanto alle incertezze di ordine economico e sociale (il costo del lavoro a fronte di uno stabilimento da risanare e della contrazione dei mercati; il clima di sfiducia che circonda la fabbrica anche a causa delle frequenti dichiarazioni istituzionali contrarie al piano industriale e favorevoli alla riconversione dell’area; il recente avvio di un procedimento diretto a modificare nuovamente l’AIA dello stabilimento tarantino), la parte attrice pone in rilievo – assegnandovi almeno formalmente primaria importanza – due questioni di carattere strettamente giuridico, aventi altresì immediato rilievo penalistico: quella relativa alla c.d. “protezione legale” (nel gergo dei media: scudo penale) per gli illeciti amministrativi e penali eventualmente commessi nella gestione dell’impianto; e quella relativa al sequestro preventivo dell’altoforno n. 2, nell’ambito di un procedimento scaturito da un incidente mortale sul lavoro. Conviene trattarle separatamente.
2. Il filone ambientale: il nodo del c.d. “scudo penale”. – Secondo i legali di AM InvestCo, il venire meno della “protezione legale” (alias scudo penale) configura per il conduttore una causa di recesso dal contratto di affitto-acquisto; in via subordinata, ne determina la risoluzione per impossibilità sopravvenuta o, ancora, lo scioglimento per mancanza di presupposto essenziale. Tralasciando in questa sede i profili strettamente civilistici della questione, pare interessante soffermarsi più da vicino sul meccanismo “esimente” al centro della querelle.
La norma di riferimento è racchiusa nel d.l. 5 gennaio 2015, n. 1 (conv. con modif. dalla l. n. 20/2015, recante “Disposizioni urgenti per l'esercizio di imprese di interesse strategico nazionale in crisi e per lo sviluppo della città e dell'area di Taranto”) ossia il decreto che ha posto Ilva s.p.a in amministrazione straordinaria. Nella versione originaria, l’art. 2, comma 6 del decreto stabiliva, tra l’altro, che “le condotte poste in essere in attuazione del Piano di cui al periodo precedente [si tratta del Piano ambientale di cui al D.P.C.M. del 14 marzo 2014, sul quale v. infra] non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario e dei soggetti da questi funzionalmente delegati, in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell'incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro”. Successivamente, il d.l. 9 giungo 2016, n. 98 (conv. con modif. dalla l. n. 151/2016), in vista della procedura di cessione dei complessi aziendali di Ilva, di cui contestualmente dettava la disciplina, modificava il citato art. 2 co. 6 estendendo la copertura già concessa al commissario ed ai suoi delegati anche all’“affittuario o acquirente” ed ai loro delegati.
La portata dell’esimente può essere meglio compresa ricordando i tratti essenziali della complessa disciplina c.d. salva-Ilva stratificatasi sin dal 2012, ossia all’indomani del sequestro preventivo dell’area a caldo dell’acciaieria disposto dal GIP di Taranto per reati quali il disastro ambientale ex art. 434 c.p. e l’avvelenamento di acque e terreni ex art. 439 c.p., contestati a membri della famiglia Riva ed altri apicali e gestori. La disciplina in parola consta, anzitutto, di un’autorizzazione ex lege alla prosecuzione della produzione, inizialmente concessa per 3 anni e poi via via prorogata (attualmente il termine è fissato al 2023)[1]; tale autorizzazione è subordinata all’esecuzione di un piano di adeguamento degli impianti e risanamento dell’ambiente (secondo quanto previsto, dapprima, dall’AIA riesaminata nell’ottobre del 2012; poi, dal c.d. Piano ambientale, emanato con DPCM del 14 marzo 2014 e successivamente sottoposto a modifiche approvate con DPCM del 29 settembre 2017[2]). In secondo luogo, a corredo dell’autorizzazione a produrre in costanza di sequestro, è stata introdotta la già esaminata clausola di esenzione da responsabilità amministrativa e penale a beneficio dei soggetti – prima i commissari, poi, come già osservato, anche gli affittuari-acquirenti – chiamati a condurre l’impianto durante l’arco temporale di transizione (art. 2 comma 6 d.l. n. 1/2015). L’efficacia dell’esimente, peraltro, era inizialmente circoscritta ai 18 mesi successivi all’approvazione del piano ambientale, con conseguente cessazione al 30 marzo 2019.
Le norme in parola – tanto quelle recanti le autorizzazioni a produrre e le relative proroghe, quanto quelle contenenti l’esenzione da responsabilità – sono state fatte oggetto di questione di legittimità costituzionale dal GIP di Taranto (ord. 8 febbraio 2019)[3], che ne ha ravvisata l’incompatibilità con una serie di parametri: il principio di uguaglianza, stante la disparità di trattamento tra i gestori di Ilva e la generalità degli imprenditori (art. 3 Cost.); il diritto alla vita ed alla salute della popolazione e dei lavoratori, minacciati dall’esercizio dell’attività produttiva (art. 32, 35 e 41 Cost.); il dovere dell’ordinamento di prevenire e reprimere reati (art. 24 e 112 Cost.); il diritto alla vita, alla vita privata, nonché ad un ricorso effettivo per la loro tutela, sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e di cui la Corte di Strasburgo ha già ravvisato la violazione proprio quale effetto della normativa “salva-Ilva” (sent. 24.1.2019, Cordella e altri c. Italia; art. 117 Cost.).
Con ordinanza del 9 ottobre 2019, tuttavia, la Corte Costituzionale ha restituito gli atti al GIP, chiedendogli di verificare se, a seguito delle modifiche medio tempore intervenute, permanessero i presupposti di rilevanza e non manifesta infondatezza che aveva rilevato rispetto alla disposizione originariamente censurata. Proprio tali modifiche sono al centro delle odierne discussioni tra AM e le istituzioni italiane.
Alla vigilia della scadenza dell’efficacia dell’esimente (30 aprile 2019), in piena campagna per le elezioni europee 2019, l’art. 46 del c.d. Decreto crescita (d.l. 30 aprile 2019, n. 34, conv. con modif. dalla l. 28 giugno 2019, n. 58) ha modificato l’art. 2 comma 6 del d.l. 1/2015, riducendone l’ambito di applicazione alle sole norme ambientali (con esclusione delle norme a tutela della salute, dell’incolumità pubblica e della sicurezza sul lavoro), e soprattutto prorogandone l’efficacia fino al 6 settembre 2019.
A pochi giorni da tale scadenza, tuttavia, l’art. 2 comma 6 è stato nuovamente modificato dal c.d. Decreto imprese (art. 14, co. 1, d.l. 3 settembre 2019, n. 101), che, con specifico riferimento alle figure dell’affittuario-acquirente e dei relativi delegati ha nuovamente prorogato l’efficacia dell’esimente agganciandola alla scadenza dei termini di attuazione del Piano ambientale (ergo, fino al 2023); ed ha definitivamente chiarito che la stessa non si applica al settore della salute e sicurezza dei lavoratori”.
Sennonché – e qui arriviamo alla dichiarazione di recesso di AM che ha innescato la crisi attualmente in atto – in sede di conversione in legge del Decreto imprese tale proroga è stata stralciata (l. 2 novembre 2019, n. 128, che ha semplicemente cancellato l’art. 14 del decreto convertito), con conseguente ripristino della disciplina previgente (che come si ricorderà fissava la scadenza al 6 settembre 2019) e dunque immediato venire meno della copertura offerta dall’art. 2 comma 6.
3. Il filone della sicurezza sul lavoro: l’altoforno sequestrato. – Dall’atto di citazione di AM InvestCo, oltre che dalle dichiarazioni rilasciate dalla società negli ultimi giorni, si è appreso che, anche laddove fosse ripristinata la “protezione legale” (o “scudo penale” che dir si voglia), risulterebbe impossibile eseguire il contratto in ragione del prevedibile spegnimento dell’altoforno 2 (nonché, a seguire, degli altiforni n. 1 e 4). La questione presenta dunque un’autonoma rilevanza, anch’essa caratterizzata da risvolti penali, sulla quale occorre soffermarsi, cominciando dai fatti che vi hanno dato origine.
A seguito di un incidente mortale sul lavoro verificatosi a giugno 2015, nel quale un operaio era deceduto dopo essere stato colpito da fiammate e ghisa incandescente, l’altoforno n. 2 veniva posto sotto sequestro senza facoltà d’uso. Di lì a poco, tuttavia, il suo utilizzo veniva autorizzato ex lege[4], replicando in materia di sicurezza sul lavoro una soluzione legislativa già sperimentata, come poc’anzi ricordato, rispetto al sequestro dell’area a caldo per reati ambientali. La restituzione dell’impianto avveniva ex art. 85 disp. att. c.p.p., dettando contestualmente una serie di prescrizioni a carico degli amministratori straordinari della società.
Quattro anni dopo, il 9 luglio 2019, la stessa Procura tarantina, riscontrando da un lato il venire meno della normativa speciale (dichiarata incostituzionale dalla sent. n. 58 del 2018[5]), dall’altro l’incompleto adempimento delle prescrizioni (in base a quanto riportato dal custode giudiziario nella sua relazione di ottobre 2018), ha disposto con decreto lo spegnimento dell’altoforno n. 2, secondo un cronoprogramma da redigersi a cura del custode giudiziario stesso.
In risposta a tale provvedimento, il 22 luglio la società Ilva s.p.a. ha formulato al Tribunale del dibattimento Taranto (dinanzi al quale nel frattempo pendeva il processo per omicidio colposo) istanza di differimento dell’ordine di spegnimento e concessione della facoltà d’uso, manifestando la volontà di adempiere alle residue prescrizioni rimaste inattuate entro un termine di sei mesi. Il giudice ha tuttavia rigettato l’istanza, osservando, con articolata motivazione e richiami alla relazione del custode giudiziario, come l’unica soluzione tecnologica davvero in grado di prevenire nuovi incidenti dello stesso tipo, come tale obbligatoria ai sensi degli artt. 18, co. 1, lett. z) e 15, co. 1 lett. c) del d.lgs. n. 81/2008 (dal cui combinato disposto discende l’obbligo per il datore di lavoro di adottare le soluzioni tecniche più evolute per azzerare o ridurre al minimo i rischi), fosse l’introduzione di procedure automatizzate con controllo da remoto, anziché da persone fisicamente presenti nelle aree a rischio.
A seguito di appello di Ilva, il 17 settembre Tribunale del riesame ha invece concesso la facoltà d’uso dell’altoforno, fissando al contempo il termine del 13 dicembre per installare le misure di sicurezza necessarie ai fini dell’automazione delle procedure. Oggi, come è agevole intuire, i timori di AM InvestCo riguardano la discrepanza tra il termine individuato da Ilva per adeguare l’impianto e quello, assai più breve, concesso dal Riesame: se infatti, come prevedibile, si verificassero nuovi ritardi nell’adempimento delle prescrizioni, verrebbe revocata la facoltà d’uso e ne seguirebbe il definitivo ordine di spegnimento dall’altoforno in questione (nonché, a catena, degli altoforni 1 e 4, che presentano analoghe caratteristiche).
4. Considerazioni conclusive. – Non è questa la sede per soffermarsi sulle evidenti, e come visto esplicitate anche nell’atto di citazione, ragioni di carattere squisitamente economico alla base della decisione di ArcelorMittal di trovare una strada per sottrarsi all’operazione di acquisto di Ilva, o quanto meno di riaprire la trattativa sugli esuberi, tenuto anche conto della contrazione della domanda globale di acciaio e della conseguente sovraccapacità produttiva dello stabilimento. È invece la sede corretta per riflettere sulle questioni strettamente giuridiche che, seppur forse non decisive per decidere gli scenari futuri, contribuiscono nondimeno a comporne l’articolato mosaico. A tal fine, è fondamentale tenere separate le questioni relative al c.d. “scudo penale” (che come visto non copre più gli illeciti in materia di sicurezza sul lavoro), da quelle aventi ad oggetto il sequestro dell’altoforno n. 2.
Cominciando dalle prime, occorre anzitutto soffermarsi sulla ricorrente affermazione, proveniente dai sostenitori dell’esimente, secondo cui essa avrebbe lo scopo di mettere i gestori al riparo da sanzioni per illeciti riconducibili alle gestioni precedenti. Il rilievo, ci pare, è corretto solo in parte, e comunque impreciso. È da un lato evidente che, durante la gestione ArcelorMittal, potrebbero manifestarsi danni ambientali o sanitari causalmente riconducibili alle gestioni passate (dei Riva o dei commissari straordinari), anche in ragione della dinamica lungolatente e cumulativa che spesso caratterizza le esternalità negative di origine industriale. È però altrettanto evidente che, in siffatte ipotesi, gli attuali gestori non avrebbero commesso il fatto, e pertanto non sarebbero comunque chiamati a risponderne in base ai principi generali sull’imputazione causale dell’evento lesivo, senza necessità alcuna di un’esenzione ad hoc, che risulterebbe pertanto superflua (interpretatio abrogans).
Diverso il discorso relativo agli eventuali danni causati proprio dai nuovi gestori, nella conduzione dell’impianto durante il periodo di transizione destinato, come visto, a concludersi nel 2023 (salvo nuove proroghe). Il Piano ambientale, infatti, è ispirato ad una logica di procedimentalizzazione del risanamento, dove gli impianti vengono adeguati in maniera graduale e senza interrompere il ciclo produttivo. Ben potrebbe accadere, pertanto, che l’esecuzione del Piano comporti, come effetto collaterale, la causazione di nuovi danni ambientali, eventualmente accompagnati da conseguenze per le persone. A ben vedere, il legislatore aveva in mente proprio questa tipologia di situazioni quando ha formulato l’esimente, sul punto rimasta immutata, prevedendo che “le condotte poste in essere in attuazione del Piano […] non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa […]” (corsivo aggiunto). Non solo, dunque, manca qualsivoglia riferimento alle gestioni passate; ma è reso esplicito che le condotte coperte sono quelle di chi è e sarà chiamato ad attuare il Piano. È proprio in virtù di queste ragioni che il GIP di Taranto, nella già richiamata ordinanza che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 comma 6 d.l. n. 1/2015 (sulla quale la Consulta non si è per ora pronunciata in ragione del ius superveniens), ha correttamente ritenuto rilevante la questione rispetto a fatti commessi tra il 2014 ed 2017, dunque durante il regime di amministrazione straordinaria, rilevando che l’applicazione della norma censurata avrebbe imposto l’archiviazione del procedimento.
La clausola esimente in esame sembrerebbe pertanto sancire una sorta di presunzione di diligenza a favore delle condotte attuative del piano di risanamento; presunzione a sua volta funzionale – come abbiamo già evidenziato in sede di commento all’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale – a cristallizzare un’area di rischio consentito. Da questa prospettiva l’art. 2 comma 6 avrebbe avuto l’effetto di mettere al riparo condotte conformi a regole cautelari positivizzate (quelle appunto dettate dal Piano ambientale) rispetto ad eventuali successivi giudizi di prevedibilità ed evitabilità del danno formulati in sede di giudizio penale, tutelando così l’affidamento riposto dal gestore nella legittimità del proprio operato. Riletta in questi termini, la norma risulta da un lato ridondante, in quanto mera espressione dei principi generali in materia di imputazione per colpa; dall’altro lato, risulta necessariamente immune da censure di illegittimità costituzionale, per essere anzi essa stessa espressione di uno dei principi cardine dell’ordinamento penale racchiusi nella Carta fondamentale (quello, appunto, di cui all’art. 27 co. 1 Cost.). A tutto concedere, qualche perplessità potrebbe derivare dalla formulazione testuale della disposizione, che a prima vista sembrerebbe racchiudere una presunzione assoluta di diligenza, dalla quale potrebbero perciò discendere intollerabili sacche di impunità. Il vizio potrebbe peraltro essere risanato, in sede di reintroduzione dello “scudo”, formulando la norma in chiave di presunzione iuris tantum, ammettendo cioè la prova contraria ogniqualvolta l’agente abbia previsto o avrebbe dovuto prevedere – non già l’evento lesivo, bensì – il fallimento della regola cautelare formalmente rispettata, ossia la sua incapacità di raggiungere il livello di sicurezza ex ante desiderato. Siffatta valvola di sicurezza consentirebbe in particolare di valorizzare fatti sopravvenuti quali nuove scoperte scientifiche o la manifesta inidoneità del piano di risanamento, rivelata ad esempio da nuovi studi epidemiologici, a garantire un elevato livello di tutela della salute pubblica.
Occorre inoltre sottolineare che – a differenza di quanto sopra rilevato rispetto all’interpretazione dell’esimente come mera petizione del divieto di responsabilità per fatto altrui – l’esegesi che la riconduce al genus del rischio consentito non ne determina automaticamente la superfluità. O meglio: la norma risulterebbe certamente superflua se inserita in un contesto di diritto vivente nel quale la giurisprudenza prende sul serio la categoria concettuale del rischio consentito. Esiste tuttavia un diffuso orientamento giurisprudenziale, sviluppatosi soprattutto sul terreno della sicurezza sul lavoro ma di recente emerso anche in procedimenti per reati ambientali[6], tendente a ravvisare profili di colpa generica residuale ogniqualvolta, malgrado il rispetto delle regole cautelari formalizzate per l’esercizio di una data attività pericolosa, permangano rischi prevedibili associati alla realizzazione della stessa. A fronte di tale orientamento, suffragato anche da pronunce della Cassazione[7], appare quanto meno comprensibile il proposito del legislatore di porre al riparo l’acquirente chiamato ad eseguire il Piano ambientale.
Rispetto alle questioni sottese al sequestro dell’altoforno n. 2, disposto a seguito di un incidente mortale sul lavoro, conviene anzitutto ricordare che la concessione ex lege della facoltà d’uso è stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale (sent. n. 58 del 2018), a differenza di quanto accaduto rispetto alle analoghe (ma non identiche) previsioni che avevano autorizzato la produzione in costanza di sequestro per reati contro l’ambiente e l’incolumità pubblica (sent. n. 85 del 2013)[8]. Parallelamente, come pure visto in precedenza, il settore della sicurezza sul lavoro è stato sottratto dall’ambito di applicazione dello “scudo penale”. Il tema del rischio consentito è nondimeno affiorato a seguito della richiesta, avanzata dagli amministratori straordinari di Ilva, di restituzione con prescrizioni ex art. 85 c.p.p. Richiesta inizialmente rigettata dal giudice dibattimentale e poi invece accolta dal Tribunale del riesame, il quale tuttavia ha concesso per l’adozione delle misure di sicurezza mancanti un termine significativamente inferiore a quello richiesto dalla società. Ebbene, non essendo (più) in discussione né l’an della concessione della facoltà d’uso (sulla quale appunto il riesame si è espresso favorevolmente), né il contenuto delle prescrizioni imposte (non si dubita, infatti, che l’automazione del procedimento ed il suo controllo da remoto siano soluzioni tecnologicamente disponibili e siano le uniche in grado di mettere i lavoratori al riparo dal rischio jet-fire), l’intera questione si colloca sul piano – di carattere squisitamente tecnico – delle tempistiche necessarie alla realizzazione delle prescrizioni: da un lato, infatti, l’imposizione di un termine prevedibilmente impossibile da rispettare sarebbe in contraddizione con la concessione della facoltà d’uso; dall’altro lato, sarebbe parimenti irragionevole esaudire la richiesta di tempi più ampi di quelli necessari, così dilatando il periodo in cui permane – ancorché ridotto dalle misure organizzative proposte dall’azienda – l’inaccettabile rischio che possano verificarsi ulteriori morti per jet-fire.
Concludiamo con qualche brevissima osservazione sul metodo finora seguito e sulle prospettive future. È evidente che il caotico affastellarsi di regole speciali, perennemente esposte ai variabili umori dei legislatori ed alle censure di legittimità costituzionale, hanno finora dato vita ad un quadro normativo gravemente incerto, che tutto incoraggia fuorché cospicui investimenti privati di lungo periodo. A fronte dei compatti orientamenti della magistratura tarantina, che quanto meno sul fronte cautelare ha dimostrato di prendere molto sul serio il ruolo del diritto penale nella protezione dell’ambiente, della salute pubblica e della sicurezza sul lavoro, il legislatore (rectius, i legislatori via via succedutisi) si sono limitati a portare avanti una politica di proroghe e concessioni, prioritariamente improntata – al netto delle dichiarazioni di principio – a scongiurare il rischio della sospensione della produzione, contenendo per quanto possibile i danni sul piano sociale, ambientale e sanitario. I principi ispiratori della legislazione “salva-Ilva” sono stati, finora, lo stato di eccezione, il contrasto dell’emergenza, i richiami alla realpolitik. Tale strategia, se inizialmente ha consentito la legittima salvaguardia della produzione e dei livelli occupazionali in un settore strategico per l’economia nazionale, comincia ora a mostrare quei segni di fragilità che inevitabilmente accompagnano le soluzioni pensate per essere provvisorie.
È chiaro peraltro che il problema della rilevanza del rischio consentito nell’ambito delle attività strutturalmente pericolose meriterebbe di essere affrontato con un approccio di sistema, valido erga omnes e non solo per i gestori di Ilva, vuoi operando sul piano esegetico, ossia ricostruendo la categoria alla luce dei principi generali in materia di prevedibilità delle conseguenze penali delle proprie condotte; vuoi introducendo una disposizione di portata generale ad hoc sull’efficacia esimente delle regole modali codificate (non essendo a tal scopo rilevante, come sostenuto da alcune voci, l’art. 51 c.p., che configura una causa di giustificazione e dunque scrimina in base a bilanciamenti di interessi effettuati caso per caso). Si tratta di conferire sostanza normativa all’idea secondo cui i bilanciamenti di interessi effettuati ex ante dal legislatore non possono essere stravolti ex post nelle aule di giustizia[9], avvalendosi del grimaldello della colpa generica; fatti salvi i menzionati accorgimenti volti ad evitare la creazione di indebite sacche di impunità, se un rischio precedentemente autorizzato diviene ad un certo punto inaccettabile, tocca anzitutto alle istituzioni, e non al giudice penale, intervenire per riposizionare l’asticella della legalità[10]. A fronte dell’inerzia delle stesse autorità, come purtroppo avvenuto finora nel caso Ilva, si tratterà piuttosto di attivare strumenti concepiti per accertarne le responsabilità e condannarle ad agire: in questo senso si sono mossi i ricorrenti tarantini che hanno recentemente ottenuto il riconoscimento della violazione dell’art. 8 Cedu, in ragione della compromissione del "benessere" e della "qualità della vita" che hanno subìto a causa della grave situazione di inquinamento ambientale dei loro territori (C. edu, sent. 24 gennaio 2019, Cordella e altri c. Italia)[11]. Una pronuncia importante, anzitutto proprio per questo cambio di visuale dalla responsabilità del solo operatore a quella (prima di tutto) dello Stato.
[1] Per i riferimenti normativi si rinvia a S. Zirulia, Alla Corte Costituzionale una nuova questione di legittimità della normativa c.d. “salva-Ilva”, in Diritto penale contemporaneo, 14.2.2019.
[2] L’Ilva è stata commissariata nel 2013 per sopperire alle reiterate inosservanze dell’autorizzazione integrata ambientale (d.l. 4 giugno 2013, n. 61, conv. con modif. dalla l. 3 agosto 2013, n. 89). Lo stesso provvedimento ha introdotto un procedimento per la definizione di un piano di misure di tutela ambientale e sanitaria, avente efficacia modificativa dell’AIA, che è stato successivamente emanato con DPCM 14 marzo 2014. Successivamente il d.l. 9 giugno 2016, n. 98 (conv. con modif. dalla l. 1 agosto 2016, n. 151), ha introdotto la possibilità di proporre, in sede di presentazione delle offerte, modifiche del piano di risanamento stesso, corredate da eventuale richiesta di ulteriore proroga del termine per attuarle. Le modifiche al Piano proposte da AM InvestCo Italy sono state approvate dal DPCM del 29 settembre 2017.
[3] Si rinvia, ancora, a S. Zirulia, Alla Corte Costituzionale, cit., dove è altresì disponibile il testo dell’ordinanza.
[4] Per effetto, prima, dell’art. 3 del d.l. n. 92 del 4 luglio 2015; poi dell’art. 1, co. 2 e 2-octies della legge n. 32 del 6 agosto 2015, che ne ha contestualmente – e singolarmente – abrogate e riprodotte le disposizioni.
[5] Con sent. n. 58 del 2018, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità delle norme citate alla nota precedente, ritenendo che le stesse privilegiassero in modo eccessivo la prosecuzione della produzione, senza operare un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra l’interesse all’esercizio dell’attività di impresa (art. 41, co. 2 Cost.), da un lato, e quelli alla vita ed alla salute (artt. 2 e 32 Cost.), nonché al lavoro in un ambiente sicuro (artt. 4 e 35 Cost.), dall’altro lato. Giova ricordare che la stessa Consulta era in precedenza pervenuta a diverse conclusioni rispetto alla normativa “salva-Ilva” in materia ambientale (C. Cost. n. 85/2013), ritenendo legittima l’autorizzazione ex lege alla prosecuzione della produzione in costanza di sequestro preventivo sancita dal d.l. n. 207 del 2012 (introdotto all’indomani del sequestro dell’area a caldo disposto dal GIP di Taranto nell’ambito maxi-procedimento a carico dei membri della famiglia Riva ed altri apicali). Decisiva, per il divergente esito dei due procedimenti, la circostanza che, sebbene entrambe le discipline oggetto di scrutinio subordinassero la prosecuzione dell’attività alla messa a norma dell’impianto, soltanto nel caso del d.l. n. 207/2012 (ritenuto legittimo) le misure imposte al gestore erano quelle previste dall’AIA riesaminata, cioè individuate dalla PA; viceversa, nel caso del d.l. n. 92/2015 e della l. n. 132/2015 (ritenuto illegittimo), il legislatore aveva affidato allo stesso datore di lavoro indagato la predisposizione unilaterale del piano di misure in materia di sicurezza da adottare. La Corte ha pertanto ritenuto che, mentre nel primo caso il legislatore aveva tenuto in adeguata considerazione le esigenze sottese al diritto alla salute, nel secondo caso aveva totalmente sacrificato la sicurezza dei lavoratori in nome della continuità produttiva. Per approfondimenti sulla sent. n. 85/2013 cfr., ex multis, Pulitanò D., Giudici tarantini e Corte Costituzionale davanti alla prima legge Ilva, in Giur. cost., 2013, p. 1498 ss.; sulla sent. n. 58/2018, v. Id., Una nuova “sentenza Ilva”: continuità o svolta?, ivi, 2018, p. 604 ss.; nonché, anche per ulteriori riferimenti, Zirulia S., Sequestro preventivo e sicurezza sul lavoro: illegittimo il decreto “salva-Ilva n. 92 del 2015, in Riv. it. dir. proc. pen., p. 947 ss.
[6] Il riferimento è alle decisioni, assunte in sede cautelare, dal GIP di Savona nel caso Tirreno Power (decr. 11.3.2014) e dal Tribunale del riesame di Taranto nel maxi-procedimento Ilva per reati ambientali e contro l’incolumità pubblica (ord. 7 agosto 2012).
[7] Cfr., da ultimo, Cass. pen., sez. IV, 15.5.2018, n. 46392: «il datore di lavoro risponde del delitto di omicidio colposo nel caso di morte del lavoratore […] quando, pur avendo rispettato le norme preventive vigenti all'epoca dell'esecuzione dell'attività lavorativa, non abbia adottato le ulteriori misure preventive necessarie per ridurre il rischio concreto prevedibile di contrazione della malattia, assolvendo così all'obbligo di garantire la salubrità dell'ambiente di lavoro».
[8] V. supra, nt. n. 5.
[9] Per approfondimenti sia consentito rinviare a S. Zirulia, Esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale, Giuffrè, 2018, pp. 335 ss.
[10] In questo senso, da ultimo, Di Lando A., La responsabilità per l’attività autorizzata nei settori dell’ambiente e del territorio. Strumenti penali ed extrapenali di tutela, Giappichelli, 2018, p. 297: «Nel caso Ilva, come in altri casi italiani che pongono questioni simili, in linea generale si può dire che non pare facile offrire sul piano penale risposte a problematiche che nascono (piuttosto) vuoi da ritardi e disorganicità della normativa, vuoi da inefficienti attività di prevenzione e controllo in via amministrativa».
[11] Per un articolato commento v. Vozza D., Oltre la giustizia penale: la Corte EDU condanna lo Stato italiano nel caso dell'Ilva di Taranto per violazione del diritto al rispetto della vita privata e del diritto ad un ricorso effettivo, in Riv. it. med. leg., 2019, fasc. 2, p. 707 ss.; volendo, v. anche S. Zirulia, Ambiente e diritti umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva, in Dir. pen. cont., 19.3.2019.