*Contributo pubblicato nel fascicolo n. 5/2023.
1. La riforma dell’abuso d’ufficio rientra, come è noto, nell’agenda politica del Governo Meloni. Un intervento volto a rassicurare sindaci e amministratori pubblici rispetto alla “paura della firma” è stato ripetutamente annunciato dal Ministro Nordio. In attesa di conoscere il testo della proposta governativa – e, ancor prima, la scelta politica di fondo: se abrogare l’art. 323 c.p. o riformularlo – il Parlamento è impegnato in questi giorni nella discussione di quattro disegni di legge d’iniziativa parlamentare, tre dei quali presentati, come primi firmatari, da parlamentari di un partito di maggioranza (Forza Italia).
In particolare, le quattro proposte di legge – attualmente all'esame della Commissione giustizia della Camera – prospettano modelli alternativi di intervento sul reato di abuso d’ufficio:
a) l’abrogazione della norma incriminatrice (proposte C. 399 Rossello e C 645 Pittalis);
b) la depenalizzazione, cioè la trasformazione in illecito amministrativo (proposta C. 654 Costa);
c) la riformulazione della fattispecie in senso restrittivo e, in particolare, con limitazione della rilevanza penale alle sole condotte di abuso prevaricatorio o di danno ed esclusione, pertanto, della rilevanza delle condotte di abuso di approfittamento o di vantaggio (proposta C 716 Pella).
2. Obiettivo di tutte queste proposte di legge, perseguito in modo più o meno radicale, è di ridurre i margini del sindacato dell’autorità giudiziaria sull’operato degli amministratori pubblici, scrivendo così un nuovo capitolo della tormentata storia dell’abuso d’ufficio: una fattispecie che nel nostro codice penale ha già conosciuto tre versioni (1930, 1990, 1997), oltre alla quarta oggi vigente, che è stata introdotta solo nel 2020.
Come è noto, la storia dell’abuso d’ufficio, nel nostro Paese, è in effetti la storia di un continuo tentativo del legislatore di limitare l’ambito di applicazione di una norma di chiusura del sistema dei delitti contro la pubblica amministrazione, votata per sua natura a catturare episodi di malaffare in odore penalistico non inquadrabili in altre fattispecie dai contorni meglio definiti, come la corruzione, il traffico di influenze illecite, il peculato o la turbativa d’asta, ecc. Questa esigenza è stata avvertita soprattutto dopo che, nel 1990, sono stati aboliti i delitti di peculato per distrazione e di interesse privato in atto d’ufficio, con conseguente ampliamento della sfera di operatività dell’abuso d’ufficio.
Le successive riforme del 1997 e del 2020 hanno mirato poi a meglio descrivere la fattispecie di abuso d’ufficio, nel tentativo di renderla più aderente al principio costituzionale di legalità-precisione della norma penale e con l’obiettivo politico-criminale, appunto, di limitare il sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa. La linea politica perseguita dal legislatore – non senza eccessi, come in occasione dell’ultima riforma, che ha tra l’altro escluso la rilevanza dell’abuso commesso violando norme regolamentari – ha fatto da contraltare alla tendenza della giurisprudenza di estendere in modo discutibile i confini dell’abuso penalmente rilevante. Emblematici di questa tendenza, riconosciuta non solo dalla dottrina ma anche, di recente, dalla Corte costituzionale (sent. n. 8/2022), sono gli orientamenti della giurisprudenza che fino al recente passato (prima dell’ultima riforma) hanno dilatato la sfera applicativa dell’incriminazione attraendo nel concetto di abuso in “violazione di norme di legge” tanto la violazione dell’art. 97 Cost., cioè dei generali principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, quanto l’eccesso di potere, nella forma dello sviamento, cioè l’esercizio del potere formalmente non in contrasto con le norme che ne regolano l’esercizio, nondimeno, diretto a realizzare un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito (cfr. Cass. Sez. Un. 29 settembre 2011, n. 155, Rossi, rv 251498).
3. Le istanze di riduzione dell’ambito di applicazione della norma incriminatrice trovano oggi, come in passato, terreno fertile nella misura in cui si guardi all’abuso d’ufficio non come a uno strumento – perfettibile – per la prevenzione e il contrasto del malaffare nella pubblica amministrazione, nel più ampio contesto di politiche “anticorruzione”, bensì come a “uno strumento usato in maniera indiscriminata”[1]. Le ultime due riforme dell’abuso dell’ufficio, al pari di quelle ora all’esame della Camera e di quella annunciata dal Governo, si mostrano sensibili al problema della c.d. burocrazia o amministrazione difensiva e della “paura della firma” da parte di sindaci, amministratori e funzionari pubblici. Una norma incriminatrice con funzione di chiusura del sistema e caratterizzata da contorni applicativi ampi, e vieppiù ampliati dalla giurisprudenza, rende facile l’avvio di procedimenti penali, talora volti alla ricerca di altri e più gravi reati dei quali l’abuso può rappresentare una spia.
Asfissiati dalle maglie di una burocrazia eccessiva e complessa, e consapevoli del rischio di essere denunciati e facilmente sottoposti a un procedimento penale, gli amministratori pubblici possono assumere comportamenti difensivi – come i medici con i loro pazienti – astenendosi dall’intraprendere iniziative – come l’avvio di lavori pubblici – utili se non essenziali per la società e per l’economia del Paese. E’ proprio su queste premesse che nel 2020 il Governo Conte ha realizzato l’ultima riforma dell’abuso d’ufficio nell’ambito di un decreto-legge volto a dare nuovo slancio all’economia nazionale (si veda, volendo, il nostro commento all’epoca pubblicato su questa Rivista). Nel dichiarare in parte infondate e in parte inammissibili alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione a quella riforma, la Consulta, con la sentenza n. 8/2022, ha riconosciuto in via di principio la legittimità della scelta politica di contrastare la burocrazia difensiva, per il rilancio dell’economia e dei lavori pubblici, riducendo l’ambito di applicazione dell’abuso d’ufficio. Si legge in particolare in un passaggio della sentenza della Corte costituzionale che, rispetto alla paura della firma, “poco conta l’enorme divario, che pure si è registrato sul piano statistico, tra la mole dei procedimenti per abuso d’ufficio promossi e l’esiguo numero delle condanne definitive pronunciate in esito ad essi. Il solo rischio, ubiquo e indefinito, del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un ‘effetto di raffreddamento’, che induce il funzionario ad imboccare la via per sé più rassicurante. Tutto ciò, peraltro, con significativi riflessi negativi in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati”.
4. I dati statistici evidenziano d’altra parte una realtà complessa, che merita di essere considerata da chi voglia rimetter mano all’abuso d’ufficio.
Un primo e più vistoso dato è quello dell’elevato numero di archiviazioni: il 79% dei procedimenti, nel 2022, è stato definito con l’archiviazione (il dato è in linea con quello del 2021). Questo significa che quasi otto denunce su dieci vengono archiviate. Nel 2022 i procedimenti definiti con l’archiviazione sono stati 3.536 su 4.481.
Un secondo dato significativo riguarda la riduzione del numero dei procedimenti iscritti nei tribunali ordinari, In particolare, nella sezione gip/gup si è assistito, dal 2016 al 2021, a una riduzione del 40% dei procedimenti iscritti: da 7.930 a 4.838.
Un terzo dato evidenzia lo scarso numero di condanne e patteggiamenti: nel 2020 sono state pronunciate, tra gip/gup e tribunale, 30 sentenze di condanna e 29 di patteggiamento. Ben maggiore il numero delle sentenze di assoluzione (241) e di non doversi procedere per prescrizione (167). Nell’anno successivo alla riforma del 2020 sono disponibili solo dati relativi al tribunale/dibattimento: evidenziano, come era prevedibile, un dimezzamento delle condanne (da 37 a 18) e un incremento delle assoluzioni (da 200 a 256).
5. Questi dati si prestano a più letture. In prospettiva storica, anzitutto, la riduzione del numero dei procedimenti iscritti, l’aumento delle archiviazioni e delle assoluzioni – e la corrispondente riduzione delle condanne – non possono che essere messe in relazione con le riforme dell’abuso d’ufficio, che ne hanno sempre più limitato la sfera di applicazione. Il numero dei procedimenti avviati è nondimeno elevato (attorno ai 4.000 all’anno).
I cittadini che ritengono, a ragione o a torto, di avere subito un abuso dall’amministratore o dal funzionario pubblico, piuttosto che dal magistrato, dal direttore del carcere o dal medico del servizio sanitario nazionale o dal professore universitario o dal preside di un istituto scolastico, non fanno altro che denunciare un generico abuso d’ufficio. La complessità e spesso l’oscurità delle regole del diritto amministrativo che si assumono violate – si pensi ad esempio alla materia dell’edilizia e dell’urbanistica – è tale da far sospettare con una certa facilità abusi dietro a questa o a quella decisione pubblica. Ci sono dunque tante denunce di abuso d’ufficio perché tanti sono i casi in cui, a torto o a ragione, i cittadini pensano di subire abusi.
E’ compito dell’autorità giudiziaria filtrare la massa delle denunce individuando i soli fatti meritevoli di repressione penale. L’archiviazione di otto procedimenti ogni dieci testimonia, a ben vedere, sia la facilità di avviare con una denuncia i procedimenti, sia il forte filtro della magistratura nel fermare allo stadio iniziale la stragrande maggioranza di quelli destinati a finire nel nulla.
Questa capacità di filtro è essenziale in un sistema retto dal principio di obbligatorietà dell’azione penale ed è destinata a crescere dopo la riforma Cartabia (art. 408, co. 1 c.p.p): la nuova regola di giudizio per l’archiviazione (speculare a quella per il rinvio a giudizio in udienza preliminare) è ancor più rigorosa che in passato e fa riferimento a “elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari [che] non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna”. Sulla già notevole capacità di filtro della magistratura potrà inoltre ora incidere la rinnovata disciplina per l’iscrizione della notizia di reato (art. 335, co. 1 bis c.p.p), che richiede l’esistenza di indizi e consente di “cestinare” le denunce palesemente infondate. Quelle relative a fatti che non costituiscono reato, d’altra parte, erano e sono già destinate all’iscrizione nel registro degli atti non costituenti notizie di reato (mod. 45), il cui attento e sapiente uso (che sarebbe opportuno assoggettare in futuro a una pur semplificata forma di controllo giurisdizionale), consente di evitare un inutile affollamento di fascicoli sui tavoli di pubblici ministeri e giudici.
La capacità di filtro dell’autorità giudiziaria, di per sé, dovrebbe ragionevolmente ridimensionare la “paura della firma”, che però, come ha sottolineato la Consulta, è anche la paura della sottoposizione a un procedimento penale, pur breve, con il discredito pubblico che ne consegue. Il dato anomalo di una incidenza così forte delle archiviazioni e della scarsità delle condanne merita indubbiamente una riflessione da parte del Parlamento. Un reato che mostra, empiricamente, rilevanti inputs e limitatissimi outputs costituisce, indubbiamente, un’inefficienza nel sistema.
6. L’inefficienza dell’abuso d’ufficio deve però essere letta, a mio avviso, anche nella prospettiva – che mi pare oggi negletta nel dibattito pubblico – della tutela della pubblica amministrazione e dei cittadini che vi entrano in contatto. La norma oggi inefficiente, anche per effetto di riforme che – strozzandola – ne hanno sterilizzato in buona parte l’ambito di applicazione, è un’arma spuntata di cui la magistratura dispone per perseguire condotte di abuso e strumentalizzazione del potere pubblico a fini privati. Dati del Casellario giudiziale aggiornati a maggio 2022, relativi alle sentenze definitive di condanna, ci dicono che dal 1997 al 2020 risultano iscritte oltre 3.600 condanne. Non proprio una manciata. Erano 546 nel 1997 e sono progressivamente scese fino ad arrivare a 40 nel 2021.
Poniamoci ora nei panni di un osservatore internazionale che valuti l’enforcement della disciplina italiana contro l’illegalità e il malaffare nella pubblica amministrazione. Gli abusi di potere dei pubblici funzionari, diversi da quelli che integrano forme di concussione o corruzione, sono puniti ovunque, in Europa e non solo; come può il nostro Paese giustificare, non senza imbarazzo, che su circa 5.000 procedimenti, nel 2021, quelli conclusi con condanna o patteggiamento sono solo una sessantina? È elevato il rischio di esporre il Paese sul piano internazionale a critiche analoghe a quelle (pur nel merito molto discutibili) ricevute dall’OCSE in relazione alla corruzione internazionale in occasione del suo ultimo rapporto sull’Italia.
Il rischio è poi ancora più serio se si considera che è stata presentata ufficialmente lo scorso 3 maggio una proposta di direttiva europea sulla lotta alla corruzione che, all’articolo 11, impegna gli Stati membri a prevedere come reato l’abuso d’ufficio (abuse of functions), così definito: “the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the exercise of his functions for the purpose of obtaining an undue advantage for that official or for a third party”. La proposta di direttiva riproduce in sostanza una previsione della Convenzione ONU contro la corruzione (art. 19), ratificata dall’Italia e da altre 188 nazioni, ed è stata messa in cantiere dopo il Quatargate. E’ stata annunciata dalla Presidente Ursula Von der Leyen nello scorso mese di settembre nel suo discorso sullo stato dell’Unione 2022 con queste nette parole: “Se vogliamo risultare credibili quando chiediamo ai paesi candidati di rafforzare le loro democrazie, dobbiamo eliminare la corruzione anche all'interno dell'Unione. Per questo motivo il prossimo anno la Commissione presenterà misure per aggiornare il nostro quadro legislativo di lotta alla corruzione. Adotteremo un atteggiamento più duro nei confronti di reati come l'arricchimento illecito, il traffico d'influenza e l'abuso di d’ufficio, oltre che della corruzione in senso più classico…La corruzione erode la fiducia nelle nostre istituzioni; dobbiamo quindi combatterla con tutta la forza della legge”.
7. Il dibattito sull’abuso d’ufficio si inserisce, dunque, in un contesto più ampio e più complesso di quello della “paura della firma”. Il punto a mio parere è questo: se è ragionevole limitare il sindacato penale sull’attività amministrativa, per evitare la “paura della firma”, è però indubbiamente irragionevole lasciare scoperti dal presidio penalistico abusi di funzioni e di poteri dall’indubbio disvalore penale.
La giusta via, come al solito, sta nel mezzo, mai negli estremi. Per questo a mio avviso non persuade la proposta di abrogare l’art. 323 c.p. (C 399 Rossello e C 645 Pittalis). Rinunciare all’abuso d’ufficio significa, all’indomani della proposta di direttiva europea, prefigurare una procedura di infrazione da parte del nostro Paese che, sul piano internazionale, veicolerebbe un messaggio opposto a quello del rigore nel contrasto dell’illegalità nella pubblica amministrazione. Per non tacere poi dell’obbligo di incriminazione dell’abuso di vantaggio che deriva dalla citata convenzione ONU; un obbligo internazionale il cui rispetto è imposto dall’art. 117, co. 1 Cost. Lo ha già ricordato, sulle pagine della nostra Rivista, Cristiano Cupelli e Maurizio Romanelli
Abrogando la norma che incrimina l’abuso d’ufficio si lascerebbero prive di tutela penale, con ricadute negative sul piano della prevenzione, condotte di abuso di vantaggio (profittatorio) o di danno (soprafattivo) come quelle oggetto delle poche ma non per questo trascurabili sentenze di condanna o di patteggiamento pronunciate ogni anno a carico di sindaci, assessori, consiglieri comunali, direttori di carceri, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine, medici, professori universitari, insegnanti, ecc.
Se poi dal terreno del dato statistico quantitativo ci si sposta su quello del dato qualitativo – e si guarda ai fatti contestati – emerge dalla casistica giurisprudenziale e dell’esperienza giudiziaria un quadro di piccoli e grandi episodi di malaffare che il legislatore non può ignorare e che sono senz’altro meritevoli di sanzione penale. Sul piano della prevenzione, l’abrogazione avrebbe l’effetto di un lassismo esattamente opposto a quello evocato dalla Presidente Von der Leyen e potrebbe pregiudicare, anche sul piano culturale, anni e anni di investimento delle politiche anticorruzione in corso nel paese e nelle sue tante amministrazioni.
D’altra parte, abrogare la norma incriminatrice non farebbe venire meno del tutto la “paura della firma”. Da un lato, va considerato, come emerge dalle statistiche ministeriali rese note il 9 maggio da Liana Milella su Repubblica, che spesso l’abuso d’ufficio è contestato in concorso con altri reati, anche più gravi. Ai primi posti, tra i reati concorrenti, i reati di falso (ideologici e materiali), i reati edilizi (costruzione senza permesso e lottizzazione abusiva) e la truffa. E se un domani l’abuso d’ufficio non costituisse più reato, il vuoto lasciato dall’incriminazione potrebbe in alcuni casi essere riempito dalla contestazione, da parte dei pubblici ministeri, di altri e perfino più gravi reati, quali il peculato. L’abrogazione della norma incriminatrice, infatti, non potrebbe impedire, almeno in parte, la riconducibilità del fatto ad altre norme incriminatrici, che risulterebbero applicabili dopo l’abrogazione, con effetto di c.d. abrogatio sine abolitione. Altro che venir meno della paura della firma: i sindaci e gli amministratori dovrebbero temere conseguenze che potrebbero essere ancor più gravi.
Ciò non si verificherebbe, peraltro, se dovesse essere approvata la proposta di legge C 654 (Costa): per il principio di specialità di cui all’art. 9 l. n. 689/1981, l’illecito amministrativo di abuso d’ufficio introdotto da quella proposta, in quanto speciale, troverebbe applicazione prevalendo sulle concorrenti norme incriminatrici. Senonché, a fronte della convenzione ONU e dopo la presentazione della proposta di direttiva europea, che richiedono agli stati di configurare l’abuso d’ufficio come reato, anche la proposta in esame non appare compatibile con gli obblighi internazionali presenti e futuribili.
8. Alla luce dei rilievi critici sollevati in modo pressoché unanime da quanti hanno commentato la riforma del 2020, che ha di molto sterilizzato l’incriminazione, e in considerazione degli obblighi internazionali di cui si è detto, la strada suggeribile al legislatore, per risolvere il problema della “paura della firma”, è a mio avviso non quella dell’abrogazione bensì quella della riformulazione della fattispecie.
La proposta C 716 Pella va in questa direzione, metodologicamente, ma non è condivisibile nel merito. Essa, infatti, circoscrive ulteriormente l’abuso d’ufficio rispetto a quanto già abbia fatto la riforma del 2020, il cui impianto viene conservato. La proposta Pella esclude infatti rilievo all’abuso di vantaggio, cioè proprio alla forma di abuso che la convenzione ONU ci vincola a configurare come reato e che la proposta di direttiva europea mira a incriminare in modo uniforme in tutti gli stati membri. Non solo: nella proposta C 716 Pella l’abuso di danno viene limitato alle condotte che “direttamente” (e, quindi, non indirettamente) procurano un danno. Si propone, pertanto, di conservare rilevanza penale solo a una parte minoritaria degli abusi d’ufficio lasciando scoperti quelli in cui si incarnano le più riprovevoli manifestazioni di conflitto di interesse e di strumentalizzazione a fini privati di pubblici poteri e funzioni. Va da sé che, come si è detto, la reazione del sistema normativo a questa vistosa lacuna di tutela sarebbe rappresentata da una riespansione dell’ambito applicativo di altre figure di reato, anche ben più gravi dell’abuso d’ufficio. La “paura della firma”, insomma, non verrebbe meno, anzi, sarebbe paradossalmente destinata a farsi più seria.
9. Per le ragioni sopra esposte, a mio parere nessuna delle quattro proposte di legge all’esame del Parlamento risolverebbe il problema della “paura della firma” e può essere accolta, anche alla luce degli obblighi internazionali. La presentazione della proposta di direttiva europea dovrebbe suggerire al Parlamento, a ben vedere, di rinviare i lavori in attesa che il quadro normativo europeo si definisca, con l’approvazione della direttiva stessa, che rappresenterà un necessario termine di confronto per qualsiasi riforma in materia; come, d’altra parte, lo è già oggi la Convenzione ONU. Tanto più che la proposta di direttiva interessa anche profili di disciplina quali quelli delle sanzioni e della prescrizione del reato di abuso d’ufficio.
Nelle more, la “paura della firma” degli amministratori pubblici può da subito trovare una risposta negli effetti della riforma del 2020, che potranno e dovranno essere misurati e monitorati, oltre che negli effetti delle novità introdotte dalla riforma Cartabia, delle quali si è detto.
La strada di un possibile percorso di riforma, nel rispetto delle indicazioni che arriveranno dall’Unione Europea, e alle quali i nostri rappresentanti nelle istituzioni europee potranno e dovranno contribuire, dovrebbe passare a mio avviso da alcuni punti fermi.
Anzitutto, la rilevanza penale dell’abuso, sia di vantaggio sia di danno, nel quadro di una o più fattispecie descritte, sul piano oggettivo, con maggior sforzo di precisione. Il compito non è facile, come mostra la storia legislativa dell’art. 323 c.p., ma i modelli di disciplina da cui poter prendere spunto non mancano.
Un articolato progetto rimasto nei cassetti del Ministero della giustizia fu elaborato nel 1996 dalla Commissione Morbidelli e prevedeva lo spacchettamento dell’abuso d’ufficio in tre fattispecie: Prevaricazione (abuso di danno), Favoritismo (abuso di vantaggio patrimoniale ad altri), Sfruttamento privato dell’ufficio (abuso di vantaggio patrimoniale per il funzionario pubblico). La disciplina prevedeva pene diverse per le varie ipotesi di reato e una causa di non punibilità applicabile in presenza di fatti commessi nell’esclusivo interesse della pubblica amministrazione oppure di danno patrimoniale pubblico o privato non superiore a un certo ammontare, purché integralmente riparato[2]. Riprendere il progetto Morbidelli, come ha sottolineato nel recente passato Tullio Padovani, sarebbe senz’altro utile e opportuno.
Ulteriori modelli di disciplina sono offerti dal diritto straniero. Di particolare interesse è la disciplina francese della prise illégale d'intérêts, prevista dal codice penale negli artt. 432-12 – 432.13. La prima delle citate disposizioni, in particolare, punisce “il fatto, da parte di una persona investita di un potere pubblico o di una missione di servizio pubblico o di una persona investita di un mandato pubblico elettivo, di prendere, ricevere o mantenere, direttamente o indirettamente, un interesse che possa compromettere la sua imparzialità, la sua indipendenza o la sua obiettività in un affare o in un'operazione di cui, al momento del fatto, è responsabile, in tutto o in parte, di assicurare la supervisione, l'amministrazione, la liquidazione o il pagamento”. Si prevede espressamente che “tuttavia, nei comuni con popolazione fino a 3.500 abitanti, i sindaci, i vicesindaci o i consiglieri comunali delegati o che fanno le veci del sindaco possono trattare con il comune in cui sono stati eletti il trasferimento di beni mobili o immobili o la fornitura di servizi fino a un limite annuo di 16.000 euro. Inoltre, in questi Comuni, i sindaci, i vicesindaci o i consiglieri comunali delegati o che fanno le veci del sindaco possono acquistare un terreno in un complesso residenziale comunale per costruire la propria abitazione o stipulare contratti di locazione residenziale con il Comune per la propria abitazione. Questi atti devono essere autorizzati da una decisione motivata del consiglio comunale, dopo che l'immobile in questione è stato valutato dal dipartimento immobiliare”. Ancora, si stabilisce che “Negli stessi comuni, gli stessi rappresentanti eletti possono acquistare un immobile appartenente al comune per la creazione o lo sviluppo della loro attività professionale. Il prezzo non può essere inferiore alla valutazione del dipartimento immobiliare. L'atto deve essere autorizzato, indipendentemente dal valore dell'immobile in questione, da una decisione motivata del Consiglio comunale….il sindaco, il vicesindaco o il consigliere comunale interessato devono astenersi dal partecipare alla deliberazione del consiglio comunale sulla conclusione o sull'approvazione del contratto. Inoltre…il consiglio comunale non può decidere di riunirsi a porte chiuse”.
Si tratta, a ben vedere, di una fattispecie di interesse privato in atti d’ufficio priva dei contorni vaghi del nostro art. 324 c.p., forse sbrigativamente abrogato. Il conflitto di interessi, infatti, rappresenta il nucleo del disvalore delle condotte oggi riconducibili all’abuso d’ufficio; un nucleo del quale, a mio parere, non può ragionevolmente farsi a meno, come gli obblighi assunti dal Paese sul piano internazionale confermano.
10. Prima di concludere penso sia opportuno richiamare l’attenzione su come nessuna possibile riforma dell’abuso d’ufficio possa verosimilmente avere successo senza essere accompagnata da interventi in sede extrapenale.
Come ha autorevolmente sottolineato Tullio Padovani, la “paura della firma” nasce dalla complessità delle regole amministrative, che spesso non sono chiare, anche per via di una giurisprudenza amministrativa che non di rado dà l’impressione di essere imprevedibile. Di fronte a zone d’ombra, piuttosto che assumersi responsabilità l’amministratore è spinto a restare immobile. La “paura della firma” va rimossa, nell’interesse pubblico, sul piano di una più efficiente, semplice e chiara regolamentazione amministrativa: mettendo i funzionari pubblici nelle condizioni di sapere sempre se, cosa e come possono fare e firmare.
Sempre sul piano extrapenale, una riforma dell’abuso d’ufficio dovrebbe opportunamente considerare strumenti quali la responsabilità disciplinare ed erariale, capaci di affiancarsi o, entro certo limiti, di sostituirsi alla responsabilità penale. Per evitare di continuare a trattare l’abuso d’ufficio come una tela di Penelope occorre una seria e ampia riflessione, non limitata ai confini nazionali e al solo diritto penale.
[1] L’espressione è del Prof. Giuseppe Morbidelli, che nel 1996 ha presieduto una Commissione per la riforma dell’abuso d’ufficio, istituita presso il Ministero della giustizia. Essa è tratta dal resoconto stenografico della seduta del 7 aprile 1998 della 1a Commissione permanente del Senato nell’ambito di una indagine conoscitiva in tema di corruzione, che può leggersi qui (p. 25).
[2] Dà conto del progetto Morbidelli, riportando in nota il testo dell’articolato, C. Cupelli, La riforma del 1990, in B. Romano (a cura di), Il “nuovo” abuso di ufficio, Pacini, 2021, p. 34 s.