In ricordo di Delfino Siracusano
* Testo della relazione tenuta da Glauco Giostra al convegno “L’attualità di un modello: tra “polivalenza delle indagini” e “contraddittorio per la prova”. Ricordando Delfino Siracusano, svoltosi a Catania il 27 maggio 2022. Relazione in corso di pubblicazione sulla rivista Cassazione penale.
Lo so bene: per età, per ruolo, per contesto si imporrebbero più sobrietà e più compostezza. Consentitemi però di abbandonare il protocollo e di confessarvi una sincera commozione nel tornare qui a Catania per ricordare una persona che mi era, mi è infinitamente cara: Delfino Siracusano.
È il terzo fratello maggiore che perdo in questa amata terra di Sicilia, prima Nino Galati, poi Ettore Randazzo, ieri Delfino. La loro sapienza giuridica potrà trovare eredi ed epigoni, non certo la loro signorile, delicata umanità. Avevano un tratto comune: un sorriso accogliente, indulgente, elegante, ironico. In Delfino, poi, il sorriso degli occhi trascolorava non di rado in commozione, indice di una vibratile sensibilità, che non riusciva a dissimulare. Parlando con lui ti chiedevi puntualmente: ma perché le vene accademiche sono percorse da così tante tossine? Senza pretesa di imporlo a nessuno, infatti, il suo atteggiamento relazionale era un esempio di come il confronto scientifico andrebbe vissuto: con una sorridente intelligenza, con una vigile curiosità, con un sereno desiderio di confronto, con un’indulgente comprensione per le ragioni degli altri. Rara avis. Apprezzava le idee intelligenti, per nulla le qualifiche e le appartenenze accademiche; la perspicacia e l’originalità, per nulla le rimasticature erudite.
L’abbiamo ricordato anche alla Sapienza, dove ha insegnato per tanti anni e dove ho avuto la fortuna di succedergli. Se oggi sono ancor più emozionato è perché qui, nella sua Catania, incrociando lo sguardo dei suoi figli, dei suoi allievi e dei suoi più cari amici, è come se vedessi ancora, per dirlo con le parole di Hector Bianciotti, perpetuarsi il movimento della sedia a dondolo su cui era seduto. Non sono solo le presenze, del resto, a caricare emotivamente questa commemorazione (intesa nel senso più vero del ricordare insieme), ma anche una dolorosa, forzata assenza: quella del mio grande amico Enzo Zappalà. Mi addolora non poter incrociare il suo sguardo, mi addolora molto sapere quanto avrebbe voluto essere qui.
Come Fabrizio sa, avevo da tempo in animo di venire a trovare Delfino: avremmo parlato come sempre – oltre che delle cose della Sapienza (un racconto che ascoltava sempre con disarmante bonomia) – dei temi su cui stavo lavorando (ne ricevevo sempre stimoli e un generoso incoraggiamento) e dei problemi della giustizia penale. Desideravo molto confrontarmi con la sua intelligenza acuta e aperta al confronto e al nuovo. Qualche difficoltà organizzativa prima, poi il covid…Non ho fatto in tempo…non mi hai aspettato. Non ci resta che un dialogo da remoto. Per ora, un monologo.
È molto probabile che la nostra chiacchierata si sarebbe presto focalizzata proprio sui temi inscritti nel titolo di questo incontro: L’attualità di un modello: tra “polivalenza delle indagini” e “contraddittorio per la prova”. Un titolo che a me sembra percorso da un implicito punto interrogativo: mi sarebbe tanto piaciuto interrogarmi insieme a lui, appunto, sull’attualità di un modello alla cui costruzione aveva dato tanto significativo contributo.
Sono certo che avrebbe condiviso la constatazione che la nostra giustizia penale oggi non funziona, o che, almeno, è infedele alla sua matrice normativa. Del resto, aveva ammonito sin dal suo varo, ad esempio, che la garanzia dell’immediatezza, su cui tanto puntava il nuovo codice di procedura penale, avrebbe avuto valore solo se in stretta compagnia della concentrazione.
Non so, ovviamente, se avrebbe condiviso le sintetiche considerazioni che seguono. Sono però sicuro che avrebbe ascoltato con curiosa attenzione, perché so bene quanto gli fosse estraneo il rispetto totemico di un modello imbalsamato, e quanto fosse invece sempre laicamente interessato ai problemi reali e alle soluzioni praticabili.
Per renderci immediatamente conto del tradimento del modello nella realtà, basta rievocare ciò che questa dovrebbe essere in base al codice partorito più di trent’anni fa.
È significativo che, a voler abbozzare, naturalmente soltanto per gli studenti presenti, i tratti connotativi del sistema processuale vigente, riesce difficile non servirsi delle parole stesse di Delfino Siracusano. A cominciare dalla locuzione “polivalenza delle indagini”: cioè, atti di indagine che sono probatoriamente rilevanti per definizioni anticipate del processo (indispensabili, per la tenuta del sistema), ma di regola probatoriamente irrilevanti se si segue il percorso elettivo del dibattimento (le conoscenze acquisite durante le indagini sono monete, infatti, che non dovrebbero avere corso legale in dibattimento). Il giudice deve tendenzialmente ignorarne l’esistenza (c.d. verginità cognitiva) e attingere le sue conoscenze dalle prove che si formano dinanzi a lui (principio di immediatezza). Cioè, per dirla ancora una volta con le icastiche parole di Delfino: un contraddittorio per la prova e non più sulla prova.
Il modello è nitido e, oggi, anche costituzionalizzato nelle sue linee di fondo, ma il braccio di mare che sempre divide l’essere dal dover essere si è nel nostro caso ampliato a dismisura. Al punto che dalla riva della realtà non si riesce più neppure ad intravvedere bene il profilo della costa disegnata dal legislatore.
A dimostrarlo bastano, purtroppo, pochi flash.
Nel disegno normativo il baricentro è il giudizio; nella realtà, soprattutto mediatica, è la fase delle indagini, spesso nelle sue battute iniziali. L’informazione e la giustizia sono cadenzate da due metronomi diversissimi. Negli ultimi decenni, la forbice di questa congenita differenza si è divaricata in modo intollerabile, con preoccupanti effetti dispercettivi. Da un lato, vi è l’“andatura” del processo, con i suoi tempi “geologici”; dall’altro, l’incalzante rapidità dell’informazione. La notizia è ormai un prodotto estremamente caduco: è una realtà effimera e ad altissima deteriorabilità. I riflettori mediatici e l’attenzione dell’opinione pubblica si possono attardare soltanto sulle primissime indagini. Non è difficile cogliere una deleteria conseguenza di questo macroscopico disallineamento temporale: i riflettori puntati soltanto sui primi passi dell’azione giudiziaria comportano una fuorviante traslazione del baricentro processuale nell’immaginario pubblico. L’attenzione dei media concentrata esclusivamente sui primi atti del procedimento finisce per caricarli di un significato improprio (una informazione di garanzia viene intesa come fosse un’ imputazione; una misura cautelare percepita come pena, ecc.) e di un’attendibilità – e non solo all’esterno del processo – che non dovrebbero avere. Quando addirittura non si allestisce una giustizia mediatica che scorre parallela a quella istituzionale, anticipandola, condizionandola e screditandola.
Ed ancora. Il ricorso ai riti speciali senza dibattimento, decisivo per la sostenibilità di un sistema che unisce ipertrofia penale e obbligatorietà dell’azione penale, è statisticamente modesto, scoraggiato soprattutto dalla non remota prospettiva della prescrizione, oggi anche dell’improcedibilità.
Persino la c.d. verginità cognitiva del giudice del dibattimento – su cui tanto fa affidamento l’impianto del vigente sistema processuale – è compromessa dall’incontenibile flusso informativo dei mezzi di comunicazione di massa: mentre impegnativi cavalli di frisia sono collocati lungo il sentiero processuale (separazione dei fascicoli, divieto di pubblicazione), autostrade mediatiche corrono parallelamente trasportando ogni notizia raccattata senza alcuna garanzia.
Ma veniamo alla criticità probabilmente più acuta. Il legislatore del 1989 ha imboccato il noto tornante epistemologico soprattutto “pensando” alla testimonianza. Il verbo del codice vigente è inequivoco: la migliore levatrice del ricordo è il contraddittorio nella fase genetica della prova. Non più un contraddittorio postumo (sulla prova, per dirla con Delfino), ma un confronto dialettico per la prova (secondo la locuzione delfiniana), che si realizza di regola davanti al giudice del dibattimento che deve decidere. La realtà giudiziaria, però, ci racconta altro: spesso, nelle aule di giustizia, di questo ineccepibile principio resta soltanto l’involucro. Con i tempi del nostro processo, al dibattimento arriva un teste che in genere, per l’inesorabile, silente azione di Kronos, non ricorda, o che comunque non ricorda tutto o non ricorda bene e a cui vengono rilette in solerte e non disinteressato aiuto alla memoria le dichiarazione rese: una palese forzatura di quanto previsto dall’art. 499 comma 5 c.p.p.[1]
Quando poi il teste risponde, è alto il rischio che rievochi non la sua percezione dei fatti, ma una loro inconsapevole rielaborazione. Il ricordo, infatti, è materia deteriorabile. Le neuroscienze hanno da tempo dimostrato che ogni input successivo lo altera e lo riplasma. Qualcosa di simile càpita quando un non sorvegliato accesso nel luogo del crimine compromette, spesso irreversibilmente, il lavoro della polizia scientifica, costretta ad esaminare dati sensibili manomessi dall’“ingresso” di altre tracce.
I fattori perturbativi della memoria possono essere di natura endo- o extra- processuale.
I fattori endoprocessuali. Il ricordo viene sovente adulterato dai vari forcipi con cui, nel corso del procedimento, si è proceduto per estrarlo. Le stesse domande ricevute, tanto più se sono suggestive, conducenti, nocive inducono a rimodellare la memoria del percepito. La psicologia forense ha appurato che il soggetto generalmente tende a incorporare le informazioni contenute nelle domande e a collocarle nella traccia mnestica originaria: esse avranno una forza manipolativa direttamente proporzionale all’autorità espressa dall’interrogante (polizia giudiziaria, pubblico ministero, difensore, giudice) e al modo più o meno conducente di formularle; quando non addirittura al contesto in cui l’interrogatorio viene svolto. Il teste spesso finisce per assecondare con la sua risposta l’aspettativa implicitamente espressa nella domanda, soprattutto se è stata posta in modo pressante e suggestivo. La Suprema Corte, mostrandosi sensibile al problema, ha di recente annullato con rinvio una sentenza di appello a causa delle domande suggestive formulate dal giudice relatore (Cass., sez. VI, 19 maggio 2020, n. 15331). Decisione ineccepibile, ma permane un forte dubbio: il teste esaminato sarà ancora una fonte credibile quando verrà risentito?
I fattori extraprocessuali. Spesso il ricordo viene “ricostruito” sulla base delle suggestioni dei media. Si realizza, cioè, quella che ho altrove chiamato, per esigenze di sintesi, subornazione mediatica. Contro questa subdola manipolazione della memoria persino lo strumento maieutico più affidabile, il contraddittorio poietico, risulta imbelle. Infatti, mentre un serrato confronto dialettico ben può riuscire a sbugiardare il teste che ha subìto una illecita subornazione affinché dicesse il falso, nulla potrebbe nei confronti di un teste che riferisce un falso ricordo convinto di dire la verità. La bravura dell’ostetrica nulla può se il feto è già malformato. Per evitare questa irreversibile conseguenza, nel famoso processo a carico di Alberto Stasi non sono state ammesse in appello due testimonianze relative ad un elemento di decisivo rilievo, ritenendo più affidabili le dichiarazioni rilasciate dalle stesse testimoni in primo grado. Soluzione probabilmente condivisibile, ma di cui non sfuggono le problematiche implicazioni: e se il condizionamento mediatico fosse stato erroneamente presupposto? e se le testimonianze fossero arrivate mediaticamente “bruciate” già in primo grado, cosa avremmo dovuto fare: rinunciare alla prova o recuperare gli omologhi atti di indagine? Il sistema sembra sul punto pericolosamente inerme.
È dunque probabile che, quando vengono rievocate in dibattimento, le percezioni originarie del testimone abbiano già subìto più di un inconsapevole restyling. Ma persino tra la testimonianza resa e la memoria che ne conserva il giudice al momento della decisione può non esservi coincidenza. Con i dilatati tempi della nostra giustizia penale tra l’assunzione della prova e la decisione trascorrono mesi, se non addirittura anni. Al giudice del dibattimento, quando si decide in camera di consiglio per deliberare, non resta che il verbale dell’esame testimoniale. La stentorea proclamazione normativa del principio di concentrazione (l’art. 477 c.p.p.: «quando non è assolutamente possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente dispone che esso venga proseguito nel giorno seguente non festivo») ormai suona come una vecchia barzelletta che non fa più neppure sorridere. E l’immediatezza, come ammoniva profeticamente Delfino, senza la concentrazione è una garanzia di carta.
Credo che non ci sia neppure bisogno di aggiungere altre vistose criticità del sistema per convenire che nella quotidianità giudiziaria abbiamo un processo penale palesemente infedele al modello. Ed è la prova dichiarativa probabilmente il punto di maggiore criticità. Della “protezione” della sua genuinità ci sei deve far carico, se si vuole davvero rendere la nostra giustizia meno fallace. Sebbene il progresso scientifico abbia tolto alla testimonianza la centralità che aveva quando è stato forgiato il codice vigente, infatti, la nostra esperienza e quella di molti altri ordinamenti democratici (si vedano, ad esempio, i dati forniti dall’associazione Innocent project nei vari Paesi) ci ricordano che la stragrande maggioranza degli errori giudiziari è dovuta a testimonianze e a ricognizioni di persone.
E allora veniamo al sottotesto del titolo di questo incontro: il modello del contraddittorio per la prova è ancora valido?
Azzardo risposte monosillabiche. Se guardo al modello normativo: sì. Non riesco ad immaginarne uno migliore. Se guardo a come vive nella sua dimensione reale: no. Ad un orecchio non più giovane la musica che si ascolta nelle aule giudiziarie si allontana a tal punto dallo spartito normativo che a volte, ad orecchiare alcuni passaggi, sembra di risentire inconfondibili motivi della “composizione Rocco”.
Se ci fosse un Einstein giurista ci farebbe riflettere sull’incidenza del fattore tempo nel nostro modello processuale e saprebbe formulare un’equazione in cui il valore delle garanzie è direttamente soggetto al fenomeno della relatività: la loro caratura, infatti, cambia con il “fattore tempo”, che accentua la sua incidenza relativizzante quando si combina con il fattore mediatico (dando luogo, per così dire, ad un agente cronomediatico).
Insomma: il codice precedente ha commesso l’ingenuità di ritenere che il testimone sia una sorta di contenitore di memorie nel quale giacciono sempre gli stessi ricordi di un determinato fatto che saranno rievocati sempre in modo identico, chiunque, comunque e in qualunque momento ve li cerchi. Noi abbiamo commesso l’ingenuità di ritenere che il ricordo resti numismaticamente identico e che basti una migliore tecnica maieutica per rievocarlo in modo affidabile, trascurando di considerare le manomissioni endo- ed extra-processuali che questo possa medio tempore aver subito.
Non si tratta quindi di sconfessare le scelte di quarant’anni fa, ma, al contrario, di predisporre le opportune provvidenze per inverarle, poiché – precisava Gustav Mahler – «tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco».
Il modello epistemologico prescelto nel 1989 è ancora, almeno per me e sono certo anche per Delfino, il metodo meno imperfetto per perseguire la verità, ma dobbiamo acquisire senza più indugi piena consapevolezza culturale dell’effetto distorsivo che esercita sul modello il fattore cronomediatico.
Si dirà: indicazione scontata e imbelle. In effetti, spesso parliamo di problema culturale come i medici di fibromialgia: quando non si ha una diagnosi e soprattutto una cura, ci si rifugia in concetti in grado di dare un nome alla nostra impotenza, dissimulandola. Allo stesso modo, invochiamo spesso un profondo progresso culturale, quando non siamo in grado di apprestare rimedi organizzativi e/o normativi per risolvere un problema. In parte sarà anche vero, ma nel nostro caso una tale consapevolezza dovrebbe invece indurre – almeno chi ha a cuore il garantismo vero, non quello dell’iconografia tradizionale; quello che mira ad una migliore giustizia, non quello che serve a nobilitare il proposito di ottenere vantaggi per la funzione dell’accusa o della difesa – a spostare il focus dell’attenzione critica. Dovrebbe indurre, dicevo, ad abbandonare – come puntualizza benissimo il Presidente Lattanzi – l’astrattezza di un pensiero che «anziché sulla realtà processuale, ragiona e si misura su un processo immaginario senza darsi carico della mancanza delle condizioni necessarie per far sì che il processo immaginato diventi realtà».
Ridurre il fattore tempo deve essere ovviamente un obbiettivo prioritario, e non a caso costituisce il dichiarato scopo della riforma in corso. Ma il contenimento dei tempi della giustizia non si deve perseguire né limitandosi a mettere l’ordito procedimentale sul letto di Procuste (come si è preteso disinvoltamente di fare introducendo la mannaia dell’improcedibilità), né sacrificando esigenze di complessiva affidabilità epistemologica del metodo.
Avere un approccio realistico e davvero garantistico significa rinunciare ai meccanismi dispendiosi in termini di tempo e di energie processuali, ma a bassissima resa cognitiva e introdurre per contro – qualunque sia l’impegno che comportano – tutte le provvidenze necessarie per assicurare un prodotto giurisdizionale ad alta affidabilità epistemologica. In particolare, scongiurando – per l’aspetto qui considerato – che il contenuto della prova dichiarativa venga manipolato lungo la strada del processo.
Ad esempio: è molto più importante evitare che la testimonianza arrivi al dibattimento condizionata dalle improprie modalità dei precedenti approcci – soprattutto quelli operati nella comprensibile ansia delle indagini – piuttosto che pretendere l’ennesimo riesame in appello di un teste di ormai disidratata o contaminata memoria. Più importante proteggerlo sin dalle prime fasi del procedimento da insidiose manipolazioni mentali, piuttosto che “riciclarlo” per l’ennesima volta, ormai fonte esausta, pur di imbastire un contraddittorio di facciata. Sarebbe sicuramente molto più importante, in quest’ottica, imporre la videoregistrazione degli “interrogatori” investigativi per controllare eventuali condizionamenti del teste o, quanto meno, prevederla in termini di onere per qualsiasi utilizzo in dibattimento (lettura per sopravvenuta irripetibilità, contestazioni, aiuto alla memoria, ecc.), piuttosto che sospingere l’appello verso una sorta di “secondo primo giudizio”. Si dovrebbe altresì pretendere che i magistrati di regola non possano lasciare la propria funzione o la propria sede senza prendersi carico della definizione dei processi in corso; e, quando ciò sia davvero inevitabile, rimettere la scelta della rinnovazione di tutto il pregresso al prudente apprezzamento, nel contraddittorio delle parti, del magistrato subentrante. Ed ancora. Si potrebbe cercare se non di evitare, almeno di scongiurare gli effetti della “subornazione mediatica” introducendo un’ulteriore ipotesi di incidente probatorio nei procedimenti ad alta risonanza giornalistica. Andrebbe poi vietata la barbarie civile dei processi in tv. Si potrebbe introdurre una forma di contempt of court, quando la pressione mediatica raggiunge livelli che compromettono la possibilità di avere un giusto processo.
Si tratta di un grezzo, grossolano e opinabile elenco di alcuni dei possibili rimedi per arginare la preoccupante deriva sopra denunciata.
Senza dubbio necessario e urgente è, però, mettersi al più presto lungo questa strada e predisporre robusti guardrail per evitare sbandamenti pericolosi. L’importante è non smarrire la direzione lungo il viaggio, evitando di sostare nelle aree di servizio riservate alle logomachie datate ed oziose. Il veicolo su cui siamo saliti quarant’anni fa non deve essere cambiato, ma ha bisogno di una oculata e sollecita manutenzione: non è un problema di carrozzeria, come talvolta si mostra di pensare, ma di motore e di tenuta della strada.
Per mettere a punto queste e altre contromisure dalle delicatissime implicazioni sarebbe prezioso, Delfino, il tuo pensiero libero, originale e prensile. A me non resta che fermarmi qui. Tra non molto potremo riprendere la nostra conversazione “in presenza”. Io mi trattengo ancora un po’ con i tuoi figli, con i tuoi allievi, con i tuoi amici più cari. Tanto so che stavolta mi aspetterai.
[1] Né l’improprio ricorso al c.d. aiuto alla memoria riguarda soltanto il pubblico ministero o il difensore. Basta riportare un qualsiasi stralcio di verbale di esame condotto dal primo (Pubblico ministero: Senta, le fece il nome delle persone che avrebbero vinto? Testimone: Sì, alcune sì. Pubblico ministero: se lo ricorda, sennò ho il verbale sotto, glielo ricordo io. Testimone: Diletta... non mi ricordo il cognome... Pubblico ministero: lei fece il nome di XY. Testimone: Sì, di XY anche) o dall’altro protagonista processuale (Avvocato: non si ricorda, quindi? Testimone: non mi ricordo. Se posso rileggere, non so se mi rilegge quello che ho detto... Avvocato: Lei ... Presidente: faccia la contestazione in auto alla memoria, avvocato. Avvocato: lei in sede di sit dice...) per rendersi conto di come sia una prassi invalsa, incoraggiata dagli stessi organi giudicanti.