1. Trionfo della non-punibilità. – Da qualche anno in qua la categoria della “punibilità”, e soprattutto il suo simmetrico negativo della “non-punibilità”, è diventata uno degli strumenti più usati dal legislatore per perseguire i suoi obiettivi politici e sul quale ripone un affidamento probabilmente spesso più convinto di quanto non avvenga con l’abusatissimo ricorso all’inasprimento sanzionatorio: buono, quest’ultimo, a rassicurare l’opinione pubblica più che ad ottenere effettivi risultati. Basta pensare all’introduzione dell’omicidio e lesioni stradali cui pare abbia fatto seguito un incremento di quei reati.
Lasciando qui in disparte la valorizzazione che la “punibilità” ha avuto sul piano dogmatico, venendo elevata a “quarta componente” del reato accanto al fatto tipico, all’antigiuridicità e alla colpevolezza, basterà qualche esempio a conferma di quanto appena rilevato. All’interno della strategia anticorruzione messa in atto dalle forze politiche al potere nell’attuale legislatura (con la l. 3/2019) le norme maggiormente enfatizzate sono state le cause di non punibilità a favore del soggetto del patto corruttivo che collabora con la giustizia (nuovo art. 323 ter c.p.) e a favore dell’agente operante sotto copertura (art. 9 l. 146/2006, come modificata dalla l. 3/2019). All’osservatore delle convulse cronache di queste settimane non sarà poi sfuggito che la vicenda dell’exILVA di Taranto si è aggrovigliata e poi degenerata – realmente o solo pretestuosamente è un altro problema – sulla questione del c.d. “scudo penale” per commissari ed amministratori di quell’impresa, cioè su una questione – indubbiamente scottante – di non punibilità.
Ma il vero trionfo della “non punibilità” si celebra negli ultimi anni non solo e non tanto su settori particolari, ancorché rilevantissimi, come quello or ora ricordati esemplificativamente. La “non punibilità” esplode letteralmente nell’area della parte generale del diritto penale, essendo qui orientata ovviamente a perseguire scopi generalissimi e di sistema: il più delle volte di salvataggio del sistema, essendo maneggiata come uno degli strumenti privilegiati in chiave di deflazione di una realtà giudiziaria oppressa e inceppata a causa di una ineliminabile sfasatura tra la mole di procedimenti penali e le capacità della macchina giudiziaria di smaltirla. Anzi, non è forse del tutto priva di fondamento l’impressione che, se qualcosa si è ottenuto per ridurre quel pestilenziale scarto, è stato più in virtù dei meccanismi sostanziali di non punibilità che per merito delle norme processuali di semplificazione e alleggerimento.
2. Struttura e fondamento della non-punibilità. – In questa sede potremo parlare di “non punibilità” facendo indifferentemente riferimento sia alle cause di non punibilità in senso stretto sia alle cause di estinzione della punibilità. A parte il fatto che la distinzione non è sempre agevole, si può ragionevolmente ritenere che entrambi gli istituti di non punibilità siano accomunati dall’essere espressione di ragioni di opportunità che si oppongono al principio generalissimo e di rilevanza costituzionale per cui ad un fatto tipico, antigiuridico e colpevole deve seguire la pena: nullum crimen sine poena. Non c’è dubbio, dunque, che la “non punibilità” si pone in fortissima tensione con il principio di tutela penale della società che incombe costituzionalmente al legislatore e allo Stato in generale. Con la conseguenza che le cause di non punibilità (in senso ampio) debbono essere dotate di una copertura costituzionale per essere legittime e per non convertirsi in strumenti di privilegio in contrasto con l’obbligo costituzionale di tutela della società dai reati.
Senza pretesa di fornire un’esauriente sistemazione della magmatica materia, si può dire che strutturalmente le cause di non punibilità in senso stretto possono essere concomitanti o successive al reato, personali od oggettive: ne sono classici esempi la non punibilità per i reati patrimoniali dovuta alle relazioni di parentela (art. 649 c.p.), oppure quella consistente in un comportamento successivo in qualche modo utile (art. 376 c.p.) o collaborativo con le autorità (art. 5 l. 15/1980). In ogni caso, si può dire che le cause di non punibilità in senso stretto sembrano generalmente rispondere ad un’esigenza, ad un interesse antitetico a quello alla repressione penale e al quale il legislatore, in via eccezionale, accorda prevalenza. Diversamente, le cause di estinzione della punibilità, e più precisamente di estinzione del reato, sono sempre successive alla consumazione di quest’ultimo e sembrano generalmente corrispondere ad una situazione in cui viene meno l’interesse alla repressione penale, cioè ad una situazione di mancanza d’interesse alla punizione: si pensi, ad esempio, alla prescrizione.
Comunque sia, in ogni norma di non punibilità deve ravvisarsi un fondamento sostanziale, o per mancanza d’interesse alla repressione o per la presenza di un interesse antitetico, che consenta di giustificare ragionevolmente la deroga al principio della tutela della società dai reati. L’interesse alla deflazione del sistema, di per sé solo, non sembra per la verità rispondere a questi requisiti di costituzionalità. Non solo perché l’obiettivo della deflazione dovrebbe primariamente essere perseguito con altri mezzi diversi dalla rinuncia alla punibilità di ciò che il legislatore ha considerato meritevole di punizione: la rinuncia ad una punizione necessaria alla tutela della società non può che essere l’ultima ratio nel perseguimento dell’efficienza (specularmente a quanto avviene per l’incriminazione, che è legittima in quanto costituisca l’ultima ratio per la tutela dei beni). Ma anche perché l’interesse alla deflazione ed efficienza del sistema proverebbe troppo, per così dire. Infatti, nel bilanciamento con gli interessi penalmente tutelati, quello alla deflazione potrebbe facilmente assumere un ruolo prevaricatore, essendo il traguardo dell’efficienza sempre migliorabile. Dunque, nel gioco tra nullum crimen sine poena e non-punibilità, l’esigenza deflativa del sistema può essere una delle ragioni da considerare ma pur sempre incapace da sola di legittimare la deroga alla punibilità senza una copertura costituzionale.
Da tutto ciò discende naturalmente la necessità di un uso legislativo oculato e non troppo disinvolto della non-punibilità. Così come, per contro, sarebbe ingiustificato un atteggiamento di radicale chiusura verso questi istituti.
3. Principi processuali e nuove cause di non punibilità. – Se questa è – in estrema sintesi – la problematica costituzionale delle cause di non punibilità quanto al loro fondamento giustificativo, esse non mancano di porre altri problemi di costituzionalità sul versante processuale. Quando si tratti infatti di cause di non punibilità (in senso ampio, comprensivo anche delle cause di estinzione) che si verifichino prima della sentenza definitiva, è del tutto legittima l’aspirazione (più che la tentazione) del legislatore di chiudere la vicenda anticipatamente, senza percorrere tutto l’iter processuale, realizzando così un risultato di economia processuale. È cioè naturale l’aspirazione a collegare la non-punibilità all’obiettivo deflativo. E del resto di questa inclinazione del legislatore è prova risalente l’art. 129 c.p.p. Oggi però quelle esigenze deflative si sono fatte così pressanti da spingere verso la previsione di nuove cause di non punibilità a vocazione generale o comunque relative a grandi categorie di reati non specificamente e nominativamente individuati.
Sul versante processuale le nuove cause di non punibilità, in particolare i due nuovi istituti della non punibilità per speciale tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.) e dell’estinzione del reato a seguito di sospensione del procedimento con messa alla prova (art. 168 bis c.p.), hanno posto all’inizio qualche dubbio di compatibilità coi principi di obbligatorietà dell’azione penale e della pienezza del contraddittorio. Perplessità peraltro destinate a essere rapidamente superate.
La non punibilità per speciale tenuità può essere disposta addirittura con provvedimento di archiviazione del procedimento, incidendo dunque sulle determinazioni del pubblico ministero quanto all’esercizio dell’azione penale. Ma che non sia in gioco l’obbligatorietà dell’azione penale è immediatamente chiaro sol che si rifletta non solo sul fatto che i criteri di valutazione della speciale tenuità sono analiticamente indicati dalla legge, ma soprattutto che si tratta di criteri tutti relativi alle caratteristiche del fatto criminoso e del suo autore: e dunque che niente hanno a che fare con ragioni di opportunità politica più o meno generale ma comunque esterni alla vicenda criminosa. E solo queste sono le valutazioni che l’art. 112 Cost. intende escludere dalle determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale.
Più complesso il discorso relativo ai rapporti tra archiviazione per speciale tenuità del fatto e principio del contraddittorio e, dunque, del giusto processo. Indubbio essendo che l’applicazione della speciale tenuità presuppone l’accertamento del fatto, altrettanto indubbio è che qui l’accertamento avviene in forma decisamente contratta e senza contraddittorio pieno. Ma è anche vero che, da un lato, è pur tuttavia previsto un embrione di contraddittorio in quanto l’indagato può fare opposizione all’archiviazione per speciale tenuità, con conseguente udienza camerale in cui il giudice sente le parti prima di decidere (artt. 409 e 411 c.p.p.). Dall’altro lato, le conseguenze dell’archiviazione per speciale tenuità sono per l’indagato unicamente quella dell’iscrizione del provvedimento nel casellario giudiziale. Certamente si tratta di un profilo delicato, come è dimostrato dal fatto che sul punto si è registrato sia un contrasto giurisprudenziale sia un intento legislativo di riforma diretto ad escludere l’iscrizione di qualunque provvedimento di applicazione della non punibilità per speciale tenuità (delega contenuta nella l. 103/2017). Abortito quest’ultimo, il contrasto giurisprudenziale è stato risolto da una pronuncia delle Sezioni Unite (n. 38954/2019), che hanno optato per l’obbligatorietà dell’iscrizione del provvedimento di archiviazione, precisando però che essa ha una funzione totalmente interna alla dinamica dell’istituto (che, in effetti, presuppone la non abitualità del reato commesso), così da escludere che l’iscrizione del provvedimento di archiviazione per speciale tenuità del fatto compaia nel certificato rilasciato a richiesta del privato o della pubblica amministrazione. Dunque, la sostanziale assenza di conseguenze negative può consentire l’applicazione della causa di non punibilità con decreto d’archiviazione e pertanto senza un previo accertamento pieno ed in contraddittorio del fatto.
Quanto all’estinzione del reato a seguito di esito positivo della prova previa sospensione del procedimento già nella fase delle indagini preliminari, è stato facile per la Corte costituzionale (sent. 91/2018) affermarne la costituzionalità nonostante la consistenza delle conseguenze a carico dell’indagato senza un pieno accertamento del fatto in contraddittorio. La Corte, precisato che la sentenza di estinzione del reato non costituisce una sentenza di condanna di accertamento della colpevolezza dell’interessato, ha fatto sostanzialmente leva sul carattere volontario caratterizzante l’istituto, che in effetti può essere attivato solo su istanza dell’interessato e la cui esecuzione può essere in ogni momento da lui interrotta tornandosi così alle forme ordinarie.
4. Meritevolezza di pena e non punibilità per speciale tenuità del fatto. – Tutto ciò premesso, è ora il momento di verificare se le nuove cause di non punibilità “generali” (speciale tenuità del fatto, sospensione del procedimento con messa alla prova e condotte riparatorie) presentino un fondamento sostanziale sufficientemente solido in quanto corrispondente ad un interesse od esigenza costituzionalmente adeguati a giustificare la deroga alla punibilità, a giustificare cioè la rottura della sequenza reato-pena. O siano, invece, motivati da un intento esclusivamente deflativo, così da mettere in pericolo la prioritaria esigenza di tutela della società.
Indubbiamente, i tre istituti comportano anche un indebolimento della posizione e della tutela della vittima, non essendo in nessun caso necessario il suo consenso all’applicazione della causa di non punibilità, ma bastando invece semplicemente che essa sia sentita. Anche questo profilo, in tempi di forte rivalutazione delle esigenze della vittima, deve essere valutato in rapporto al fondamento sostanziale degli istituti: certamente, se la loro finalità si riducesse esclusivamente a quella deflativa del sistema, sarebbero più che legittimi i dubbi di un’eccessiva compressione degli interessi della vittima. Ma se invece il fondamento delle nuove cause di non punibilità avesse una rilevanza pubblicistica dotata di una dignità costituzionalmente apprezzabile, il giudizio in rapporto alle esigenze della vittima ben potrebbe volgere ad un diverso risultato.
Procedendo allora analiticamente, la non punibilità per speciale tenuità del fatto si fonda sul principio della meritevolezza di pena, che a sua volta può fare riferimento esclusivo alla gravità oggettiva del fatto criminoso ovvero alle finalità della pena.
La prima prospettiva, decisamente più lineare, risponde ad un’idea di depenalizzazione in concreto, che trova la sua ragion d’essere nella consapevolezza che, nonostante ogni sforzo di tipizzazione legislativa, può in concreto verificarsi eccezionalmente una sfasatura tra il disvalore ritenuto dal legislatore e quello incorporato nel fatto concreto, al punto tale che quest’ultimo si riveli del tutto sproporzionato per difetto rispetto a quello e pertanto immeritevole di pena. Siamo dunque sul piano dell’offensività (e dei suoi rapporti con la tipicità) e in un ordine d’idee del tutto simile a quello sottostante alla mancanza di offesa di cui all’art. 49.2 c.p. Mentre in quest’ultima ipotesi il giudizio è qualitativo (manca l’offesa) nell’altra il giudizio è quantitativo (l’offesa è minima, dunque immeritevole di pena). Ed è il carattere quantitativo del giudizio a complicare le cose nell’istituto della speciale tenuità, in quanto introduce un elemento di forte discrezionalità giudiziale.
Nella seconda prospettiva, il giudizio di (im-)meritevolezza di pena si dilata nel piano commisurativo della pena, venendo a dipendere la non punibilità da una valutazione più complessa che riguarda in fondo l’adeguatezza della pena alle sue finalità rispetto alla complessiva e concreta vicenda criminosa, ad iniziare dall’autore: al limite, e per esempio, la non punibilità potrebbe disporsi anche in casi in cui la pena non avrebbe alcun senso plausibile perché l’autore abbia già sofferto un’afflizione ben maggiore di quella in cui consisterebbe la pena, come nel caso ad esempio del guidatore che abbia cagionato la morte del proprio figlio.
Ora, nella veste definitivamente data dal Parlamento all’istituto di cui all’art. 131 bis c.p., le due prospettive risultano confuse poiché non mancano dei criteri e dei limiti di natura soggettiva che vanno dalle figure di pericolosità sociale qualificata (abitualità, professionalità, tendenza a delinquere) ai motivi criminosi fino al carattere non abituale del reato. Il tutto, inoltre, espresso in formule, come appunto quella definitoria della abitualità del reato, che si pongono ai limiti della interpretabilità. Tutto ciò, però, non esclude che la ratio ispiratrice dell’istituto sia sicuramente quella della meritevolezza di pena, ancorché la sua traduzione nel testo legislativo lasci molto a desiderare quanto a chiarezza d’intenti e perspicuità di formulazione. E non c’è dubbio che la meritevolezza di pena, collegandosi all’ultima ratio e alla proporzione, sia un criterio dotato di dignità costituzionale.
5. Rieducazione e sospensione del procedimento con messa alla prova. – Venendo ora all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova (art. 168 bis c.p.), vale la pena di ricordare come si siano rivelate fallaci le pessimistiche profezie di chi riteneva l’istituto destinato ad una scarsa applicazione in ragione dei pesanti contenuti che la messa alla prova comporta a carico dell’indagato/imputato a fronte di reati che possono essere anche di modesta gravità. Probabilmente a smentire quelle previsioni ha contribuito non poco il fatto che, con l’estinzione del reato, l’autore si mantiene intatta la possibilità di usufruire in futuro di ogni tipo di benefici, esclusa una reiterazione della sospensione del procedimento, quali innanzitutto la sospensione condizionale della pena. E con la sentenza di proscioglimento per estinzione del reato viene anche evitata l’applicazione della confisca, come di recente ha ribadito la Cassazione (sent. 47101/2019). Al “successo” del nuovo istituto ha poi contribuito la stessa Cassazione, che ha ritenuto irrilevante la presenza delle circostanze autonome o ad effetto speciale nella determinazione dei limiti di pena edittale dei reati ai quali è applicabile l’istituto (S.U. 36272/2016): una decisione che sembra palesemente andare nel senso della massima estensione dell’ambito applicativo dell’istituto in quanto il principio generale desumibile dall’ordinamento sembrerebbe invero essere quello della rilevanza di quella tipologia di circostanze.
Se questo “successo” dell’istituto assicura un risultato deflativo che pare essere consistente, la buona accoglienza riservata generalmente a questa nuova causa di non punibilità è dovuta anche alla sua fisionomia e alla sua ratio, senz’altro corrispondenti a valori preminenti dell’ordinamento penale. Infatti, tutta la complessa architettura dell’istituto (dal programma di trattamento e dai suoi contenuti alla necessità di una prognosi favorevole e all’apertura alla mediazione, ecc.) dimostra chiaramente che esso è marcatamente ispirato alla finalità della rieducazione. Inoltre, se il risultato rieducativo si rivela raggiungibile senza percorrere l’intero ed accidentato itinerario processuale e poi quello esecutivo, è del tutto ragionevole che il legislatore inclini allora per l’anticipazione del trattamento sanzionatorio in modo da ottenere così anche un collaterale effetto deflativo. Senza con ciò compromettere alcuna esigenza di tutela della società ma anzi, al contrario, privilegiando in modo più razionale e soddisfacente, il valore preminente della rieducazione.
6. Degradazione dell’illecito penale e condotte riparatorie. – L’ultima delle nuove cause di non punibilità è quella dell’estinzione del reato per condotte riparatorie (art. 162 ter c.p.). Il suo ambito di applicazione coincide con i reati perseguibili a querela remissibile, che sono diventati assai più numerosi dopo un intervento legislativo successivo (d.lgs. 36/2018) ma evidentemente collegato al nuovo istituto di cui in effetti ha così dilatato lo spettro applicativo. L’introduzione della nuova causa estintiva e l’incremento dei reati perseguibili a querela remissibile sono evidentemente collegati tra loro. E poiché la perseguibilità a querela è stata incongruamente prevista anche per reati caratterizzati da profili pubblicistici di offensività (artt. 615, 619 e 620 c.p.), ne deriva che ulteriormente e ancor più gravemente incongrua è la conseguente possibilità di estinguere quei reati mediante condotte riparatorie, che consistono sostanzialmente nel risarcimento del danno e solo «ove possibile» nell’eliminazione delle conseguenze del reato.
Perseguibilità a querela remissibile ed estinzione del reato per condotte riparatorie sono due istituti che realizzano una sorta di privatizzazione della tutela penale. Ma, mentre la perseguibilità a querela rimette nelle mani della parte offesa la chiave sia per aprire la strada della tutela penale sia per eventualmente chiuderla con la remissione e, dunque, la rende effettiva protagonista dell’opzione tra tutela penale (e civile) ovvero solo civile, nell’estinzione per condotte riparatorie la situazione è ribaltata. Qui, infatti, la chiave per la sostanziale degradazione dell’illecito penale in illecito civile è esclusivamente nelle mani dell’autore e, poi, del giudice che deve valutare la congruità del risarcimento pagato od offerto alla persona offesa/danneggiato. E anche l’effetto deflativo è in entrambi i casi aleatorio, poiché viene a dipendere essenzialmente dalle determinazioni assunte, rispettivamente, dai due diversi soggetti privati.
Ora, nonostante la connessione esistente tra perseguibilità a querela ed estinzione per condotte riparatorie, la logica di quest’ultima è completamente rovesciata poiché le chiavi della tutela penale sono esclusivamente nelle mani dell’autore del reato. Quindi v’è un evidente “sacrificio della vittima” (che viene «sentita» senza poter bloccare il meccanismo) che, pur avendo evidentemente presentato la querela e pur non avendola rimessa, si vede negata la tutela penale, degradata a quella civile. Non c’è dubbio alcuno pertanto che l’indebolimento della tutela della società passa per una messa tra parentesi delle esigenze della vittima, “costretta” ad accontentarsi della solo tutela civile senza peraltro aver voce in capitolo sulla adeguatezza della sua consistenza patrimoniale. Tanto varrebbe allora utilizzare la categoria dei nuovi illeciti civili punitivi inventata dal legislatore del 2014 (l. 67/2014 e d.lgs. 7/2016): almeno, in questi, alla sanzione risarcitoria a vantaggio del privato si accompagna una sanzione punitiva pecuniaria a beneficio dell’erario.
L’istituto dell’estinzione per condotte riparatorie ci mette pertanto dinanzi ad un meccanismo che davvero pare orientato a privilegiare l’obiettivo deflativo, senza per contro rispondere a nessun’altra esigenza meritevole di apprezzamento in chiave costituzionale, ma anzi contraddicendo gli interessi della parte offesa. Per essere più precisi: da una parte, evidentemente, si sospinge l’autore del reato a rinunziare alla garanzia del dibattimento con la prospettazione della degradazione dell’illecito penale in illecito civile, mettendo nel conto il sacrificio delle esigenze manifestate dalla vittima/danneggiato. Dall’altra parte, sul piatto della bilancia può essere messo unicamente l’interesse dello Stato ad evitare certe deformazioni indotte dalla perseguibilità a querela remissibile, che si producono allorquando l’allungamento dei tempi processuali sia dovuto al poco commendevole mercanteggiamento tra autore e persona offesa in ordine all’ammontare del risarcimento. E certamente in questi casi il processo penale e la sanzione penale diventano uno strumento improprio nelle mani della persona offesa per ottenere risarcimenti più consistenti.
Nonostante questo possibile intento di “moralizzazione” dei rapporti tra i due soggetti protagonisti dei reati perseguibili a querela remissibile, l’istituto dell’estinzione per condotte riparatorie appare sbilanciato a tutto vantaggio dell’obiettivo deflativo, con grande sacrificio della tutela della vittima e anche della società: non può, infatti, essere sottaciuto un possibile effetto criminogeno prodotto dal fenomeno della monetizzazione della responsabilità.
Per concludere sul punto, rimane da dire che l’estinzione per condotte riparatorie pare essere uno strumento deflativo più congruo rispetto a reati con offesa a beni giuridici totalmente pubblici, in rapporto ai quali lo Stato può ritenere più efficace una loro tutela attraverso strumenti diversi dalla sanzione penale. E ciò può segnatamente accadere in quei casi in cui sono in gioco interessi che, difficilmente tutelabili con la tradizionale sanzione penale, sono invece suscettibili di migliore protezione ad esempio con sanzioni di tipo ripristinatorio: si pensi ad alcuni illeciti ambientali o fiscali, rispetto ai quali la rimessa in pristino o il pagamento del dovuto possono essere di gran lunga preferibili ad una pena detentiva di incerta irrogazione ed esecuzione. Conseguentemente, la causa di estinzione delle condotte riparatorie sembrerebbe più vocata ad una sua utilizzazione selettiva, rispetto cioè a reati singolarmente individuati.
7. Ansie repressive e facilonerie legislative. – A questo punto è possibile formulare una sorta di ideale “graduatoria di merito” dei tre nuovi istituti di non punibilità. Espressione e strumenti tutti e tre di quella strategia della deflazione che ha fortemente caratterizzato la politica penale della precedente legislatura, essi sono ordinabili nel seguente ordine di “preferenza”: al primo posto si colloca la sospensione del procedimento con messa alla prova, ove l’obiettivo deflativo si appaia con quello rieducativo e addirittura è da quest’ultimo travalicato; al secondo posto viene la speciale tenuità del fatto, ove lo scopo deflativo si coniuga con l’idea della necessaria meritevolezza di pena del fatto in concreto, in sintonia coi sommi principi dell’ultima ratio e di proporzione; all’ultimo posto sta l’estinzione per condotte riparatorie, che – così come è stato congegnato dal legislatore – può raggiungere risultati deflativi solo al prezzo di sacrificare l’esigenza di tutela avvertita dalla vittima e anche quella della società a causa della monetizzazione della responsabilità.
È certamente comprensibile lo scarso entusiasmo che questi istituti possono suscitare, in quanto destinati a rompere la sequenza reato-pena, tra l’altro passando spesso per una decisione altamente discrezionale del giudice. Se noi potessimo contare su un sistema di giustizia penale perfetto e soprattutto perfettamente efficiente, non avremmo bisogno di questo armamentario – obiettivamente pesante – di cause di non punibilità (in senso lato): l’accertamento giurisdizionale sarebbe sempre pieno e ad ogni condanna corrisponderebbe la pena “giusta”, con i soli adeguamenti imposti dalla finalità rieducativa. In un sistema perfettamente efficiente probabilmente non avrebbe ragion d’essere nemmeno l’infuocato problema della prescrizione e, per paradosso, non avrebbe ragione di esistere l’istituto stesso della prescrizione. Ma la perfezione non è di questo mondo e tanto meno del nostro sistema di giustizia penale: l’obiettivo deflativo è non solo legittimo ma necessario per evitare che il collasso del sistema si risolva in una generale ingiustizia.
Nella presente legislatura alcune forze politiche hanno manifestato una chiara avversione verso le cause di punibilità di portata generale: nel mirino si trova soprattutto la non punibilità per speciale tenuità del fatto. Nel furore repressivo del “contratto” all’origine del primo governo Conte se ne proclamava la prossima fine con veemenza quasi iconoclasta. Poi, col secondo governo Conte, è parso che la nuova maggioranza politica avesse altri obiettivi da perseguire e altri problemi da sciogliere che non l’abrogazione di un istituto che la giurisprudenza ha recepito complessivamente con indubbia cautela. Senonché, qualche tempo fa la nuova causa di non punibilità è stata nuovamente messa in discussione da una proposta di legge abrogativa, proveniente però da una diversa forza politica (A.C. 2024, d’iniziativa del dep. Cirielli, presentata il 25 luglio 2019). Se tutto ciò può essere il sintomo di un malessere che la non punibilità può forse comprensibilmente produrre, soprattutto in tempi di ansie o furori repressivi, occorre però che la politica non operi con disinvoltura poco razionale e senza riflessione adeguata.
Prima di tutto la non punibilità è in qualche modo necessitata dalla congestione del sistema di giustizia penale, e tra non punibilità ed efficienza del sistema si pone un rapporto di proporzionalità diretta. Allo stato, sono illusioni rasentanti la demagogia quelle di poter fare a meno di strumenti deflativi del sistema e tra questi di quelli consistenti nella non punibilità. In secondo luogo, è verissimo che la non punibilità va maneggiata con juicio, ancorandola ad interessi, scopi, obiettivi, ulteriori al mero obiettivo deflativo. Ebbene, come abbiamo cercato di mostrare, la non punibilità per speciale tenuità del fatto non è tra gli istituti di non punibilità quello più compromesso sotto questo profilo: anzi. Così che una sua abrogazione finirebbe per segnare un regresso nella nostra storia recente della legislazione penale, se è vero come è vero che i tentativi per inserire questo istituto nel sistema risalgono a molti anni fa, quando si ragionava sulla riforma organica del codice penale. E, a quest’ultimo proposito, è reale semmai l’esigenza non tanto di abrogazioni secche e superficialmente motivate di questo o quell’istituto di non punibilità, quanto piuttosto quella di rimettere un po’ d’ordine in un settore – quello appunto della non punibilità – in cui si sono stratificati un po’ alla rinfusa molteplici istituti dai reciproci rapporti non chiari: un riordino che, naturalmente, tenga ben presente il faro orientativo costituito dalla copertura costituzionale di cui debbono essere munite anche le cause di non punibilità.