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  Opinioni  
28 Novembre 2022


A proposito del d.l. 162/2022: rilievi costituzionali e proposte di modifica, con particolare riferimento alla disciplina in materia di 4-bis o.p.


0. Il d.l. n. 162/2022, contenente disposizioni eterogenee, si pone in aperto contrasto con le finalità evidenziate nella relazione a sostegno dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza; quanto alle norme in materia di ordinamento penitenziario, introdotte dopo la sent. n. 253/2019 e le ordd. n. 97/2021 e 122/2022 della Corte costituzionale, pur apparentemente volte a superare le preclusioni assolute per l’accesso ai benefici nei casi di delitti ostativi, esse muovono in verso contrario rispetto alla rotta indicata dalla Corte.

 

1. Qui di seguito verrano svolti rilievi per ciascuno degli articoli contenuti nel testo del d.l. evidenziando eventuali contrasti con disposizioni costituzionali e/o pronunce della Corte, disarmonie di sistema e, per l’effetto, verranno suggerite proposte di modifica.

Per evidenti ragioni, resteranno fuori da queste riflessioni le disposizioni in materia di obblighi di vaccinazione anti Sars-CoV-2, salvo per le inferenze che queste determinano con riferimento alla scelta adottata in termini di decretazione di urgenza.

 

2. Prima di passare all’analisi delle singole disposizioni, merita soffermarsi sulle ragioni evidenziate nella relazione, a sostegno dell’affermata “indubbia sussistenza dei presupposti di necessità e urgenza”.

In disparte più approfondite valutazioni che potranno essere svolte dai costituzionalisti, appare opportuno evidenziare che la Corte costituzionale (cfr., ex multis, sent. n. 32/2014) ha affermato che “l’inclusione di emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto del decreto – legge, o alle finalità di quest’ultimo, determina un vizio della legge di conversione in parte qua”, non senza aver rilevato, prima ancora, la necessità del requisito della omogeneità del decreto-legge (sent. n. 22 del 2012), che pur afferendo a materie diverse può essere indirizzato all’unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare.

L’eventuale tratteggiato difetto genetico, al dunque, non può che riflettersi sulla legge di conversione, giacché questa non potrebbe mai sanare l’assenza dei presupposti alla base della scelta governativa, come affermato di recente dal Giudice delle leggi (sent. n. 8 del 2022), secondo cui… “per costante giurisprudenza di questa Corte, la preesistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza di provvedere tramite l’utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto – legge, costituisce un requisito di validità dell’adozione di tale atto, la cui mancanza configura un vizio di legittimità costituzionale del medesimo, che non è sanato dalla legge di conversione, la quale, ove intervenga, risulta a sua volta inficiata da un vizio in procedendo (ex plurimis, sentenze n. 149 del 2020, n. 10 del 2015, n. 93 del 2011, n. 128 del 2008, n. 171 del 2007 e n. 29 del 1995)”.

Con la pronuncia citata, ancora, la Corte “ha chiarito, per altro verso, che l’omogeneità costituisce un requisito del decreto-legge sin dalla sua origine, poiché l’inserimento di norme eterogenee all’oggetto o alla finalità del decreto spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell’urgenza del provvedere ed i provvedimenti provvisori con forza di legge (sentenze n. 149 del 2020 e n. 22 del 2012).

Dunque, sebbene sia consentita (secondo il profilo teleologico alla base dell’intervento normativo di urgenza) l’adozione di un decreto - legge in considerazione dell’unico scopo di approntare urgentemente rimedi per fronteggiare situazioni complesse e variegate, anche in tal caso deve accertarsi se la singola disposizione dello stesso sia “totalmente estranea, o addirittura intrusa, analogamente a quanto avviene alle norme aggiunte dalla legge di conversione (sentenza n. 213 del 2021)”.

Alla luce di quanto sopra evidenziato dovranno dunque valutarsi partitamente sia i presupposti costituzionali alla base della decretazione di urgenza, sub specie di straordinaria necessità e urgenza, sia l’omogeneità di materia, pur tenendo conto del citato criterio finalistico, poiché “affermare che la legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie” (sent. n. 171 del 2007).

Per brevità, facendo integrale rinvio all’ordinanza emessa in data 11.11.2022 dal Tribunale di Siena in composizione monocratica, le invocate ragioni a sostegno della scelta governativa non paiono davvero integrare quanto richiesto dall’articolo 77, comma 2, Cost.

A tal proposito, è sufficiente considerare che nella relazione si è evidenziato come “quanto al primo ambito di intervento in tema di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia è noto che, sul tema, è pendente un giudizio di legittimità costituzionale…solo, quindi, un intervento di urgenza può oggi consentire di adempiere al monito della Corte”.

L’assunto non appare condivisibile, giacché, come affermato dal Giudice senese, “ciò che è straordinario, infatti, per definizione non è mai prevedibile ex ante, mentre quel che è prevedibile ex ante, all’inverso, non è mai straordinario”. La pretesa di fornire un appoggio all’intervento di urgenza in virtù di una decisione attesa da tempo (cfr. ordd. 97/2021 e 122/2022), concernente una “incostituzionalità esibita”, finisce col sovrapporre distinti presupposti costituzionalmente previsti. In buona sostanza, la straordinarietà è cosa diversa dalla necessità e dall’urgenza.

Quanto all’art. 5, il decreto – legge indica apoditticamente “la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre disposizioni in materia di prevenzione e contrasto del fenomeno dei raduni dai quali possa derivare un pericolo per l’ordine pubblico o la pubblica incolumità o la salute pubblica”, nel mentre nella relazione al disegno di legge n. 274 si afferma che “l’articolo 5 mira a rafforzare il sistema di contrasto del fenomeno dei grandi raduni musicali, organizzati clandestinamente (cosiddetti rave party)”.

Un po' poco, per giustificare il surrogato intervento dell’iniziativa legislativa ordinaria.

Ma non basta; ciò che il decreto – legge individua come indispensabile diventa strumento per rafforzare un armamentario giuridico esistente, invero variegato (si pensi alle ipotesi di cui agli artt. 633, 659, 666 c.p., 18 T.U.L.P.S.). Ed ancora, nella stessa scheda di lettura del 14 novembre 2022 si evidenzia come “il nuovo delitto si configura come un reato di pericolo astratto, connotato da una anticipazione dello stadio di tutela, essendo la fattispecie incentrata sull’invasione commessa allo scopo di organizzare un raduno potenzialmente pericoloso. Si rileva peraltro che non risultano tipizzate nel dettaglio le modalità di offesa ai beni giuridici dell’ordine pubblico, dell’incolumità e della salute pubblica…si osserva che il tenore letterale della disposizione non appare riferibile alla sola fattispecie richiamata nella relazione”.

Sulla base di questi rilevi, a cura del Servizio Studi, appare davvero difficile rinvenire ragioni di straordinaria necessità e urgenza per l’aumento della leva penale, che addirittura potrebbe comportare il ricorso ad intercettazioni (anche nei confronti del mero partecipe), a misure di prevenzione personali, confische, arresto obbligatorio in flagranza e misure cautelari in carcere.

Non a caso, sul punto si ritiene opportuno invitare a che “si valuti l’opportunità di verificare la coerenza della formulazione con le finalità indicate nella relazione”.

Quanto al differimento dell’entrata in vigore della riforma penale, fissata al 1° novembre 2022 dal d.lgs. n. 150, per consentire una più razionale programmazione degli interventi organizzativi di supporto alla riforma” (così il d.l. n. 162), la relazione al d.d.l. n. 274 aggiunge e specifica come “la tecnica normativa utilizzata è quella della novella al testo del decreto legislativo n. 150 del 2022, al fine di collocare l’intera disciplina in un unico corpus normativo e agevolarne la lettura e l’applicazione”.

Breve; anche sul punto si fa rinvio alle condivisibili ragioni indicate nella già citata ordinanza di rimessione del Tribunale di Siena, cui (quanto al parametro di cui all’art.73, comma 3, Cost.) adde l’ulteriore considerazione.

Se per un verso non vi era (e non vi è) alcuna ragione tra quelle concernenti l’adozione di misure attuative adeguate a garantire un ottimale impatto della riforma sull’organizzazione degli uffici per differire l’entrata in vigore della novella anche per la parte implicante la retroattività della legge penale favorevole, inibendo l’entrata in vigore di modifiche lato sensu sostanziali in mitius, la tecnica normativa utilizzata per il differimento dell’entrata in vigore della “riforma Cartabia” si sovrappone a quanto previsto dall’art.1, comma 4, l. n. 134/2021.

Con la citata legge delega, infatti, si è prevista la possibilità di intervento del Governo per l’adozione di disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi adottati in attuazione della delega, entro due anni dalla data di entrata in vigore dell’ultimo degli stessi; e ciò, si badi, con la procedura indicata dal comma 2 dell’art. 1, tutt’affatto diversa da quella prevista nel decreto – legge n. 162.

Infine, così evidenziandosi ulteriormente l’eterogeneità del provvedimento di urgenza, la disposizione adottata in materia di obblighi di vaccinazione anti Sars-CoV-2, definita nel preambolo del decreto – legge e nella relazione al disegno di legge “necessaria e urgente per garantire l’effettività del diritto alla salute sancito dall’articolo 32 della Costituzione”, appare quale monade isolata rispetto al testo del decreto – legge, non potendo condividere con gli altri articoli alcuna asserita ragione di urgenza. Ne consegue, come da consolidata giurisprudenza costituzionale (cfr. sent. n. 32 del 2014), che “l’atto affetto da vizio radicale nella sua formazione è inidoneo ad innovare l’ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa (sentenze n. 123 del 2011 e n. 361 del 2010). Sotto questo profilo, la situazione risulta assimilabile a quella della caducazione di norme legislative emanate in difetto di delega, per le quali questa Corte ha già riconosciuto, come conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale, l’applicazione della normativa precedente (sentenze n. 5 del 2014 e n. 162 del 2012), in conseguenza dell’inidoneità dell’atto, per il radicale vizio procedurale che lo inficia, a produrre effetti abrogativi anche per modifica o sostituzione”.

 

3. La prima modifica introdotta con il d.l. n. 162 muove in senso opposto rispetto alla indicazione di rotta che buona parte della dottrina aveva suggerito al legislatore, dopo i moniti della Corte, affinché si riducesse l’elenco dei reati contenuti nell’art. 4 bis o.p. Con tale disposizione si è infatti estesa l’ostatività anche in caso di esecuzione di pene inflitte per reati comuni, ove legati ai delitti di prima fascia dal nesso teleologico, riconosciuto dal giudice della cognizione o in executivis.

Sul punto, è necessario svolgere alcune considerazioni in diritto, per poi trarne spunti di riflessione sul precipitato della novella.

La modifica interviene (perfino espandendo la previsione del testo unificato approvato alla Camera nella precedente legislatura) in relazione ai casi di cumulo materiale e giuridico, in aperto contrasto con il consolidato (cfr. SS.UU. 30.6.1999, Ronga) orientamento di legittimità concernente lo scioglimento del cumulo al fine di consentire l’accesso ai benefici penitenziari qualora l’interessato abbia già espiato la parte di pena relativa ai delitti ostativi. A tal proposito, in linea con quanto appena ricordato, si segnala la questione rimessa alla Sezioni Unite con l’ordinanza del 3.6.2022, volta a risolvere il seguente contrasto giurisprudenziale: “se, in presenza di un provvedimento di esecuzione di pene concorrenti che comprenda anche una condanna per reato ostativo alla concessione dei benefici penitenziari, ai fini dello scioglimento del cumulo, la pena relativa al reato ostativo vada considerata nella sua entità originaria, senza operare alcuna riduzione in conseguenza del criterio moderatore di cui all’art.78 c.p., determinata dal superamento della soglia massima di anni trenta di reclusione, ovvero se, nella predetta circostanza, il giudice debba individuare il titolo di reato effettivamente in espiazione, valutando mediante un’operazione algebrica in che proporzione il criterio moderatore abbia inciso sulla pena complessiva risultante dal cumulo materiale, così da applicare la percentuale ottenuta su ciascun reato e imputando la frazione già espiata all’esecuzione dei reati ostativi”.

La disciplina di favor sottesa al consolidato indirizzo citato, secondo la quale le norme concernenti il cumulo non si possono mai risolvere in un danno per l’imputato o per il condannato, beneficia dell’autorevole avallo costituzionale (sent. n. 361 del 1994, recentemente confermato con la sent. n. 33 del 2022); con la prima pronuncia la Corte ha affermato che la disciplina di cui all’art. 4 bis o.p.va interpretata – in conformità del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., nel senso che possono essere concesse misure alternative alla detenzione ai condannati per i reati gravi […] quando essi abbiano espiato per intero la pena per i reati stessi e stiano espiando pene per reati meno gravi non ostativi alla concessione delle misure alternative alla detenzione”, ribadendo col più recente arresto di dover evitare di attribuire ad una persona “una sorta di status di detenuto pericoloso destinato a permeare di sé l’intero rapporto esecutivo, a prescindere dallo specifico titolo di condanna concretamente in esecuzione”.

Non è dunque dato comprendere come possa darsi luogo ad intervento in malam partem, che pur sprovvisto di efficacia retroattiva (mercé la disposizione di cui all’art. 3, comma 1, del d.l.), si risolve in un surrettizio ed improprio tentativo di impugnazione avverso decisioni della Corte, avverso le quali, ex art.137, comma 3, Cost., non è ammessa alcuna impugnazione (ex multis, sentt. n. 40 del 2019, 29 del 1998, ordd. nn. 184 del 2017, 261 del 2016, 108 del 2001, 461 del 1999, 220 del 1998, 7 del 1991, 203, 93 e 27 del 1990, 77 del 1981).

Di più; l’inoperatività della disposizione di nuovo conio per i delitti commessi prima della data di entrata in vigore del decreto – legge opera anche in ordine ai permessi premio, ciò che rende ingiustificabile la disciplina deteriore riservata all’istituto del permesso premio dall’art. 3, comma 2, cpv., del d.l. n. 162, rispetto alle misure alternative alla detenzione e alla liberazione condizionale, e ciò pur tenendosi conto della sentenza n. 32 del 2020 della Corte costituzionale. Di questo, più avanti.

In buona sostanza, le due disposizioni transitorie non paiono correlate tra loro, la prima preservando l’istituto del permesso premio dalla modifica in malam partem per il passato, l’altra escludendo l’operatività dell’istituto della collaborazione impossibile, inesigibile e/o irrilevante per i condannati e gli internati che prima della entrata in vigore del provvedimento di urgenza abbiano commesso delitti previsti dal comma 1 dell’art .4 bis o.p.

Ove venisse mantenuta la previsione di cui all’estensione delle ostatività anche per delitti avvinti dal nesso teleologico con quelli di prima fascia si registrerebbe un aumento esponenziale dell’overcrowding penitenziario, certamente concorrente nello spaventoso aumento dei suicidi in carcere. Per questo motivo, in uno alle considerazioni in diritto sopra tratteggiate, se ne propone l’abolizione.

Il cuore della novella, apparentemente volta al superamento dell’ostatività assoluta anche per i condannati non collaboranti, risiede nella riscrittura del catalogo dei delitti inclusi nell’art. 4 bis o.p., mercé l’introduzione del nuovo comma 1 bis, con abolizione delle vecchie disposizioni ivi contenute prima del decreto – legge, che restano operanti solo per fatti commessi prima del 31 ottobre (ma non per il permesso premio, come già rilevato).

Fermo il distinguo tra i delitti di cui al comma 1 bis e 1 bis 1, in entrambi i casi contraddistinti da disomogeneità, il primo rilievo concerne viceversa una uniforme disciplina per ciò che concerne le condizioni di accesso ai benefici penitenziari, ciò che porta a dubitare seriamente della costituzionalità della novella, per violazione dell’art. 3 Cost. per irragionevolezza sindacabile.

Ed infatti, pretendere che chi richieda un permesso premio soddisfi gli stessi requisiti (talvolta frutto di un più ampio percorso trattamentale per il raggiungimento di una meditata revisione critica dell’agito criminoso) di colui il quale insti per un beneficio più ampio, significa il superamento della progressione trattamentale, indice e garanzia di una minor incidenza della recidiva.

In disparte la valutazione se quanto si andrà qui di seguito ad elencare costituisca requisito di merito da soddisfare o condizione di ammissibilità della domanda (ed ancora, se essi debbano allegarsi all’istanza o – quale prova contraria – in risposta agli indizi emergenti dall’istruttoria circa l’attuale sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, o con il contesto nel quale il reato è stato commesso, ovvero con il pericolo di ripristino di tali collegamenti), gli indici da valutare solo apparentemente consentono di ritenere superata la ostatività assoluta per i non collaboranti.

In primo luogo, viene richiesta la dimostrazione dell’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna, o l’assoluta impossibilità di tale adempimento.

Rispetto alla previgente disciplina (valida per la sola liberazione condizionale) vengono inseriti obblighi di riparazione pecuniaria, da intendersi diversamente (senza che se ne chiarisca la natura) dalle sanzioni civili di cui all’art. 185 c.p., prevedendosi una liberatoria solo a fronte dell’assoluta impossibilità di tale adempimento. Com’è noto, nell’ambito del procedimento di liberazione condizionale l’aspetto risarcitorio è considerato non tanto in funzione oggettiva di reintegrazione patrimoniale del danno causato, quanto indice rivelatore del ravvedimento del condannato, ovvero quale atto comprovante la fattiva volontà del reo di eliminare o attenuare le conseguenze dannose; detta lettura del requisito in esame è confortata anche dalla Corte costituzionale (sent. n. 138/2001), che ha dichiarato infondata la questione di legittimità dell’art. 176 c.p.

Quale che sia l’interpretazione che si richiederà, certamente non sfugge l’irragionevolezza di una disciplina che, oltre al maggior rigore previsto rispetto all’art. 176, comma 4, c.p., equipara due istituti agli antipodi come il permesso premio (primo passo per l’avvio di un più ampio percorso extra moenia) e la liberazione condizionale, da intendersi quale beneficio più ampio previsto dall’ordinamento.

Quanto agli ulteriori oneri di allegazione, fornendo elementi specifici, diversi ed ulteriori rispetto alla regolare condotta, alla partecipazione al percorso rieducativo e alla dissociazione dall’organizzazione, grazie ai quali possa escludersi l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, valgano le seguenti considerazioni.

Rilevato come appaia svilito l’art. 27, comma 3, Cost., pur confortati dalla più recente giurisprudenza di legittimità (sent. n. 33743 del 14.7.2021, Marazzotta) in ordine alla disciplina degli oneri di allegazione, appare utile richiamare una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione (7.10.2022, n. 42658), con la quale è stata annullata una ordinanza reiettiva di permesso premio richiesto da un ergastolano ostativo. Con la sentenza citata la Corte ha evidenziato come “nell’affermazione della sussistenza del pericolo di ripristino delle relazioni criminali il tribunale non si è fatto carico di dare conto di come detto pericolo possa essere concretamente apprezzato, non solo e non tanto alla luce del corretto comportamento carcerario dell’interessato e della sua adesione ai programmi trattamentali, quanto in riferimento all’oggetto della domanda, di un permesso premio per incontrare i familiari in luogo ben distante dal territorio in cui è ancora operativo il clan criminale di pregressa appartenenza”.

Come si vede, ancora una volta emerge l’irragionevolezza di una equiparazione tra istituti diversi, che dovrebbe essere rimeditata in sede di conversione.

Nessuna indicazione viene fornita per sostanziare il riferimento al contesto nel quale il reato è stato commesso (tanto più meritevole per ciò che concerne le ipotesi di reato inserite nel comma 1 bis 1, avulse da matrice criminale associativa, e per lo più monosoggettive), così come il pericolo di ripristino di collegamenti anche indiretti, o tramite terzi, ciò che rischia di dilatare oltre modo quel riferirsi ad elementi di fatto prospettati nella domanda aventi efficacia indicativa anche in chiave logica di quanto occorre a rapportarsi al tema di prova. E’ già stato detto: il condannato “non può essere chiamato a riferire in sede di domanda introduttiva su circostanze di fatto estranee alla sua esperienza percettiva e, soprattutto, non può fornire – in via diretta – la prova negativa […] del pericolo di ripristino dei contatti”, dovendosi esigere che la domanda possa essere introdotta dall’interessato “in chiave meramente logica, e non rappresentativa (Cass. Sez. I, n. 33743/2021). Qualsiasi ulteriore pretesa di allegazione finirebbe col riprodurre meccanismi preclusivi assoluti.

Quanto alle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, l’avverbio pare rassicurare in ordine al diritto al silenzio, definito inalienabile in più occasioni dal Giudice delle leggi (sent. n. 84 del 2021, ord. n. 117 del 2019, sentt. nn. 238 del 2014, 323 del 1989, 18 del 1982), ma occorrerà vigilare a che ciò non esponga il condannato a sollecitazioni inaccoglibili, tanto più laddove il soggetto rivendichi la propria estraneità ai fatti.

Ultimo requisito richiesto al fine della concessione dei benefici, da accertarsi da parte del giudice, è la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa.

Tutte le fonti internazionali in materia rendono assolutamente incontrovertibile come la giustizia riparativa non possa mai essere imposta, e tantomeno posta come condizione per ottenere qualcosa. Anche a livello domestico, il d.lgs. n. 150/2022, inciso dalla decretazione di urgenza nei termini già ricordati, prevede all’art. 58 che “l’autorità giudiziaria, per le determinazioni di competenza, valuta lo svolgimento del programma e […] l’eventuale esito riparativo. In ogni caso, la mancata effettuazione del programma, l’interruzione dello stesso o il mancato raggiungimento di un esito riparativo non producono effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa”. Per il plesso ordinamentale che ci occupa, l’art. 78 prevede altresì l’introduzione nell’ordinamento penitenziario dell’art. 15 bis (Giustizia riparativa), a mente del quale “in qualsiasi fase dell’esecuzione, l’autorità giudiziaria può disporre l’invio dei condannati e degli internati, previa adeguata informazione e su base volontaria, ai programmi di giustizia riparativa. La partecipazione al programma di giustizia riparativa e l’eventuale esito riparativo sono valutati ai fini dell’assegnazione al lavoro all’esterno, della concessione dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, nonché della liberazione condizionale. Non si tiene conto in ogni caso della mancata effettuazione del programma, dell’interruzione dello stesso o del mancato raggiungimento di un esito riparativo”.

Come si vede, accanto a non meglio chiarite iniziative risarcitorie, riecheggianti la disposizione di cui all’art. 47, comma 7, o.p., che pure mai può imporre alcunché, il riferimento alla giustizia riparativa, sia pur in ordine ad iniziative, e non agli esiti, andrebbe certamente eliminato.

Del resto, appare davvero singolare e incoerente condizionare l’ammissibilità di una richiesta di accesso ai benefici a qualcosa che ad oggi, per mano dello stesso provvedimento di urgenza, viene differito nel tempo per la sua entrata in vigore. L’evidente irragionevolezza della disposizione si espone a censure, ex art. 3 Cost. In ogni caso, per rendere compatibile la disposizione in commento con quanto previsto dalla “riforma Cartabia”, con l’auspicio della sua entrata in vigore, andrà sostituito l’accertamento da parte del giudice con la mera valutazione di eventuali iniziative, sì da evidenziare come le stesse non possano mai costituire una precondizione di accesso ai benefici, restando viceversa pienamente valutabili con riferimento alla revisione critica della condotta criminosa.

Infine, quanto alle irragionevoli modifiche apportate all’art. 4 bis, comma 1 bis, o.p., vale la pena ricordare, con parole della Corte costituzionale (sent. n. 149/2018, § 5 Considerato in diritto) che “l’appiattimento all’unica e indifferenziata soglia di ventisei anni per l’accesso a tutti i benefici penitenziari indicati nel primo comma dell’art. 4 bis o.p. si pone, infatti, in contrasto con il principio – sotteso all’intera disciplina dell’ordinamento penitenziario in attuazione del canone costituzionale della finalità rieducativa della pena – della progressione trattamentale e flessibilità della pena (sentenza n. 255 del 2006; in senso conforme, sentenze n. 257 del 2006, n. 445 del 1997 e n. 504 del 1995), ossia del graduale reinserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale durante l’intero arco dell’esecuzione della pena”. Nel caso di specie, notissimo, l’intervento della Corte ha risolto l’irragionevole equiparazione quantitativa per la soglia di accesso ai benefici penitenziari per i condannati all’ergastolo a titolo di sequestro di persona a scopo di estorsione, terrorismo o eversione, nel mentre la disciplina oggi in questione contiene un appiattimento qualitativo. Restano dunque immutate le ragioni a sostegno della censura, per irragionevolezza dell’opzione normativa.

Ulteriori modifiche andranno apportate per coordinare la disciplina probatoria regolatrice delle istanze di accesso ai benefici, attese le aporie tra l’art. 4 bis, comma 1 bis 2 ed il comma 1 ter o.p., per ciò che concerne i delitti di cui agli artt. 600, 600 bis, 600 ter, 601 e 602, 609 octies c.p., 12, comma 3, d.lgs. n. 286/1998, ove commessi in forma associata.

Quanto all’intervento normativo introdotto per l’istruttoria da compiersi, si segnalano qui di seguito le principali criticità.

La pluralità dei pareri da raccogliere presso gli Uffici di Procura (irragionevole appare quello al PM presso il giudice di primo grado, anche in caso di assoluzione), oltre ad appesantire la già complessa istruttoria, appare inconferente rispetto alla complessa decisione da assumere, all’evidenza rivelandosi come qualcosa di diverso dalle informazioni già previste dalla norma riformata.

Assolutamente illogico appare prevedere la partecipazione all’udienza del Pubblico Ministero presso il Tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di primo grado, ai sensi del nuovo comma 2 ter o.p., nelle ipotesi ivi descritte, sol che si ponga mente al fatto (tra l’altro) che molto spesso le decisioni da assumere riguardano condanne contenute in provvedimenti di esecuzione pene concorrenti.

Oscura e foriera di torsioni interpretative la disposizione che esige l’acquisizione di accertamenti in ordine a condizioni reddituali e patrimoniali, tenore di vita, attività economiche eventualmente svolte o applicazione o richieste di misure di prevenzione nei confronti dell’istante, dei suoi familiari e delle persone ad esso collegate; così facendo, oltre ad esporre persone terze ad invasive verifiche di polizia giudiziaria, si dilata in maniera indiscriminata ed indeterminata l’ipotetico confine tra il lecito e l’illecito, dando ingresso a inferenze che dovrebbero restar fuori dall’alveo dell’accertamento.

In ogni caso, sarà opportuno il ricorso a protocolli condivisi per la regolazione di un ampio ed efficace contraddittorio con la difesa, chiamata a fornire idonei elementi di segno contrario, “entro un congruo termine” (che dovrebbe essere almeno pari a quello concesso alle varie agenzie deputate al rilascio di informazioni) in ordine alle emergenze istruttorie. Ancora, non appare condivisibile il divieto di concessione dei benefici ai soggetti, detenuti o internati, sottoposti al regime differenziato, salva la revoca o mancata proroga del provvedimento applicativo. Sul punto, accanto all’ovvia constatazione secondo la quale, de facto, è assai più che improbabile che chi si trovi soggetto al regime di cui all’art. 41 bis o.p. possa vedersi concedere qualsivoglia beneficio prima del suo rientro nel circuito detentivo ordinario, è sufficiente rilevare come il regime differenziato è imposto tramite provvedimento amministrativo del Ministro della Giustizia. Dunque, è evidente la frizione della disposizione di nuovo conio con l’art. 13, comma 2, Cost., la stessa ponendo un divieto che neanche l’ordinanza n. 97 del 2021 della Corte costituzionale aveva disegnato in termini così netti.

Per le più gravi forme di criminalità organizzata, terroristica o eversiva è prevista la competenza del Tribunale, e non più del Magistrato di sorveglianza, a decidere sul lavoro all’esterno e sul permesso premio. In questo modo, i benefici de quibus, da sempre ritenuti primo strumento di verifica del percorso risocializzante e ponte verso più ampie aperture, vengono irrigiditi nello schema di cui al novellato comma 1 bis o.p., la cui complessa e assai lunga istruttoria non consentirà ragionevolmente più di fruire dello stesso numero di finestre premiali previste dall’ordinamento (sino a 45 giorni l’anno), laddove invece l’importanza del permesso si coglie proprio nel suo aspetto dinamico e di conferma dei progressi del condannato.

Ed ancora, l’aver richiesto per il permesso ed il lavoro all’esterno per dette ipotesi di reato sempre e comunque la competenza del Collegio, senza l’adozione di un rito semplificato per nuove valutazioni dopo la concessione del primo beneficio, espone la disciplina sul punto ad altre censure di incostituzionalità, per violazione degli att. 3, 97, comma 2, 111 Cost., fermo il doveroso tentativo di interpretazione orientata sul punto, atteso il silenzio del legislatore di urgenza. Appare utile in ogni caso suggerire che per l’eventuale conversione in legge del decreto siano adottare apposite disposizioni transitorie, volte a chiarire competenze e movenze istruttorie in materia di lavoro all’esterno e permessi premio, vuoi in ordine alle domande presentate prima del 31 ottobre, sia per le richieste successive a quella scrutinata ed accolta. Non pare viceversa percorribile la proposta, da taluno avanzata, di procedere in forma semplificata, ex art. 667, comma 4, c.p.p., in materia di permessi premio e/o art. 21 o.p.; com’è esperienza di chiunque si occupi di delitti ostativi in executivis, le informazioni (molto spesso stereotipate) pervengono in cancelleria a ridosso dell’udienza e necessitano di una interlocuzione che non sempre si riesce a fornire in anticipo. Del resto, è altrettanto evidente come sia proprio la concessione del primo permesso (o assegnazione del lavoro all’esterno) a rivelarsi quale particolarmente significativa, potendo viceversa adottarsi la procedura semplificata per i benefici successivi.

Oltre alla irragionevolezza della scelta in sé delle ipotesi delittuose, anche la perdita di un grado di giudizio (il reclamo), che continuerà ad operare per le ipotesi meno gravi non previste dalla novella, presenta non pochi dubbi di costituzionalità. La sindacabilità della riforma sul punto appare evidentemente legata a tale disarmonia, non essendo costituzionalizzato il doppio grado di merito, tanto più che l’accoglimento del permesso e l’eliminazione del reclamo comporta l’esecutività del beneficio, non intaccato dall’eventuale ricorso del PM, così come (ed ancor prima) la difesa dovrà attendere tempi lunghissimi prima di poter vedere eventualmente rivalutato il rigetto, con ulteriore ostacolo per la proposizione di più ampie istanze.

La novella ha profondamente inciso la disciplina della liberazione condizionale, cioè a dire proprio il beneficio oggetto di scrutinio (recte: la preclusione di accesso a detto beneficio per l’ergastolano ostativo) da parte della Consulta.

Il nuovo articolo 2 del d.l. n. 152/1991, convertito con modificazioni dalla l. n. 203/1991, prevede un innalzamento a trenta anni di pena espiata per gli ergastolani ostativi prima di poter avanzare istanza, in uno all’aumento di durata (fissa) della libertà vigilata, pari ad anni dieci, con ulteriori divieti di incontro e frequentazioni. La novella deve ovviamente misurarsi con la sentenza n. 32 del 2020, sebbene formalmente contenga (salvo che per i predetti – significativi – aumenti di presofferto e di durata della misura di sicurezza) disciplina di favor rispetto alla previgente preclusione assoluta. Nel silenzio del legislatore sul punto, non è affatto escluso un nuovo intervento manipolativo della Corte, ove dovesse ritenersi preclusa l’operatività della sentenza n. 32 del 2020, anche in considerazione del fatto che la disposizione transitoria (art. 3, comma 2, del d.l.) si riferisce alla sola collaborazione impossibile, inesigibile e/o irrilevante quale disciplina applicabile alle misure alternative e alla liberazione condizionale (salvo, per essa, nella novellata disciplina concernente i divieti di incontro e frequentazione, immediatamente applicabile anche per delitti commessi prima del 31 ottobre 2022).

La riforma dell’istituto di cui all’art. 176 c.p., al netto dell’intervento asistematico (formalmente inserito soltanto nel citato articolo 2 del decreto n. 152/1991, convertito con modificazioni), non risulta giustificata neanche alla luce della sollecitata “introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione” (ord. 97/2021 Corte cost.); per i condannati all’ergastolo che vengano ammessi alla liberazione condizionale non è dato comprendere come la libertà vigilata possa servire a distinguere i casi che la Corte ha posto a raffronto (ergastolani collaboranti e non collaboranti). Venendo dopo la concessione del beneficio, la modifica di durata della misura di sicurezza operata non potrebbe tornare utile a proposito, in ogni caso essendo sufficiente far leva sugli implementati divieti di incontro e contatti (prescrizioni che governino il periodo) con soggetti condannati per i delitti di cui agli artt. 51, comma 3 bis e quater c.p.p., o sottoposti a misura di prevenzione nei casi tassativamente indicati.

Ancora, la disciplina vigente già consente all’ergastolano collaborante di accedere (ove lo meriti) alla liberazione condizionale dopo un tempo più breve (dieci anni) rispetto al non collaborante, ed il rispetto delle condivisibili affermazioni della Corte (sent. n. 253/2019, § 8.1 Considerato in diritto), secondo cui “un conto è l’attribuzione di valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti una collaborazione utile ed efficace, ben altro è l’inflizione di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante” rende all’evidenza nuovamente censurabile la scelta legislativa.

Infine (probabilmente la modifica più incisiva in subiecta materia), l’eliminazione del vecchio testo di cui al comma 1 bis dell’art. 4 bis o.p., fatta salva la disposizione transitoria di cui all’art. 3 comma 2 del d.l., che consente il ricorso a detta procedura (anche istruttoria) per i condannati e gli internati che abbiano commesso i delitti di prima fascia prima dell’entrata in vigore del decreto – legge (per la liberazione condizionale varrà in tal caso la previgente espiazione di anni 26). Vale la pena evidenziare come detta disposizione transitoria non contempli più il permesso premio (né l’assegnazione al lavoro all’esterno), a differenza del previgente regime.

La citata disposizione transitoria andrebbe in ogni caso liberata dal dubbio interpretativo concernente l’immediato prolungamento della durata della misura di sicurezza, giacché essa prevede che “per l’accesso alla liberazione condizionale non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b), del presente decreto”. A rigore esegetico, è vero che il rinvio al citato articolo 2 della novella include la deteriore normativa di durata del presofferto e della misura di sicurezza, ma è altresì vero che la libertà vigilata non opera “per l’accesso alla liberazione condizionale”, ma consegue obbligatoriamente al beneficio, ex art. 230, comma 1, n. 2, c.p.

Come sopra segnalato, l’impossibilità di far ricorso pro futuro alle ipotesi surrogatorie della collaborazione, ed anche per il passato per il beneficio minore, e non già per le misure alternative alla detenzione e la liberazione condizionale, espone la novella ad ulteriori critiche e possibili interventi della Corte, e ciò a prescindere dalla eventualità che possa farsi ricorso al ribadito orientamento costituzionale di non regressione del trattamento in favore di coloro che, prima dell’entrata in vigore del decreto – legge, usufruissero già dei permessi premio (cfr. sent. n. 79/2007).

A tal proposito, la stessa disposizione transitoria costituisce indice certo di trattamento deteriore irragionevole, giacché il legislatore ha scelto di trattare in modo uguale situazioni differenti, violando l’art. 3 Cost.

Per concludere, occorre riconoscere che la sentenza n. 32 del 2020 del Giudice delle leggi ha posto il distinguo tra le misure alternative e la liberazione condizionale rispetto al permesso premio e l’assegnazione al lavoro all’esterno, attesa la diversa natura sostanziale degli istituti, ma è pur vero che la collaborazione impossibile, inesigibile e/o irrilevante è stata introdotta nell’ordinamento attraverso le note sentenze n. 357/1994 e 65/1995, senza riserve in ordine al beneficio del permesso.

Di più; con la recentissima sentenza del 22 gennaio 2022, n. 20, la Corte ha dichiarato inammissibile (quanto alla dedotta violazione dell’art. 27, comma 3, Cost.) e non fondata (quanto al parametro di cui all’art. 3) la questione sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Padova, ritenendo non irragionevole, anche dopo la sentenza n. 253 del 2019, il diverso regime probatorio (nel caso di specie, proprio per la concessione del permesso premio) previsto per chi è silente “per scelta” e chi “suo malgrado”.

Il revirement del legislatore governativo non potrà sfuggire al confronto con detta pronuncia, non essendo davvero sufficiente il “recupero” delle ragioni del silenzio nelle eventuali esplicitate ragioni della mancata collaborazione.

 

 

* Il contributo riprende i contenuti dell'intervento dell'Autore in occasione dell'audizione davanti alla Commissione Giustizia del Senato nel corso dell'esame del d.d.l. di conversione del d.l. 162/2022.