1. Grande era l’attesa per l’esito dei lavori della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, presieduta dal prof. Ruotolo, perché ci si chiedeva quali degli «sterminati bisogni» del carcere – per usare le parole della Ministra Cartabia – fossero stati presi in considerazione, al fine di assicurare un miglioramento della «quotidianità penitenziaria». La pubblicazione della Relazione finale della Commissione soddisfa quella curiosità, facendo innanzitutto comprendere il «perimetro di azione» e i «presupposti culturali» del lavoro svolto, in modo da orientare il lettore nella valutazione delle priorità individuate e delle scelte che sono state effettuate, attraverso la proposta di modifica di numerose disposizioni del Regolamento di esecuzione (d.P.R. 230/2000) e di altre, «limitate all’essenziale», dell’Ordinamento penitenziario (l. 354/1975) nonché l’individuazione di 35 «azioni amministrative», da attuare attraverso Circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (DAP). Come emerge anche dal quadro di sintesi che ne ha fatto il prof. Ruotolo su questa Rivista, gli aspetti della vita carceraria oggetto di attenzione da parte della Commissione sono stati davvero tanti e hanno riguardato sia le persone recluse, con le loro specificità (stranieri, donne, donne con bambini al seguito, persone con problemi di salute o di dipendenza, studenti universitari, etc.), sia il personale che lavora all’interno degli istituti penitenziari, per i quali si propone tra l’altro una «rimodulazione dei programmi di formazione».
2. Non sappiamo quanto tempo potrà richiedere l’attuazione di tutte queste proposte; certo è che la Ministra l’ha definita una priorità nell’ambito del suo mandato e d’altra parte molte di esse potrebbero essere già tradotte in pratica all’interno dei singoli Istituti penitenziari, senza aspettare che vengano trasfuse in norme vincolanti. Proprio per questo sarebbe opportuna un’attività di condivisione con tutti gli Istituti penitenziari, attraverso i Provveditorati Regionali, delle indicazioni che la Commissione ha ritenuto di dover dare per rendere (almeno in parte) meno penosa e inutilmente afflittiva la vita nei luoghi di detenzione: quelle indicazioni potrebbero (e dovrebbero) ispirare sin d’ora la gestione della quotidianità carceraria (così come, del resto, gli orientamenti della magistratura di sorveglianza nella applicazione delle norme dell’ordinamento penitenziario). Un risultato che sarebbe davvero auspicabile e per il quale si potrebbe sollecitare anche la collaborazione dei Garanti territoriali, nonché della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia per allargare il dialogo a tutti coloro che siano interessati dal (sia pure parziale) cambiamento di rotta.
3. Senza entrare nel merito delle singole proposte – tutte condivisibili e al più oggetto di perplessità solo per la cautela di alcune di esse, forse frutto della necessaria mediazione tra punti di vista differenti – viene spontaneo interrogarsi sul reale impatto che un simile intervento, volto a migliorare la vita penitenziaria delle persone recluse, può avere nel contesto, ben noto, dell’attuale sistema della esecuzione penale intramoenia, sul quale si riflettono anche (ma non solo) gli «sterminati bisogni» del carcere. Ci sono infatti alcuni aspetti che, per ragioni diverse, sono rimasti al di fuori dell’area di intervento della Commissione e dai quali tuttavia non ci sembra si possa prescindere nel perseguire gli intenti dichiarati.
4. Il primo problema, davvero centrale, è quello del sovraffollamento penitenziario, che al 31 dicembre 2021 si traduceva in poco meno di 7.000 detenuti in eccesso rispetto alla capienza massima degli Istituti. Una situazione del genere incide in maniera intollerabile sulla qualità della vita e sul rispetto dei diritti delle persone in custodia cautelare o condannate, come hanno stabilito le non lontane nel tempo condanne della Corte Europea all’Italia per «trattamento inumano e degradante», e rende arduo perseguire lo stesso obiettivo rieducativo.
È del tutto evidente allora che, se non si risolve, e al più presto, questa situazione, sarà ben difficile raggiungere gli obiettivi che ci si è prefissati.
La Commissione, al riguardo, non può far altro che porlo in evidenza ricordando come, in analoghe situazioni emergenziali, siano state adottate soluzioni diverse per ridurre le presenze.
La storia repubblicana racconta di oltre una ventina di provvedimenti clemenziali, tra amnistia e/o indulto, concessi dal 9 febbraio 1948 al 31 luglio 2006, ma nel 2013, a seguito della sentenza Torreggiani della Corte EDU, fu deciso invece di aumentare da 45 a 75 giorni, con effetto sino al dicembre 2015, la detrazione di pena concedibile con la liberazione anticipata ex art. 54 o.p.; una soluzione, questa, che viene ritenuta oggi replicabile – è all’esame della Camera una proposta di legge in tal senso – a condizione però che si tratti di una «attribuzione automatica» e generalizzata dell’incremento a tutti coloro che nei semestri indicati dal legislatore già abbiano beneficiato della misura.
Un provvedimento deflattivo – perché di questo si tratta e bisogna dirlo – non appare, allo stato, più procrastinabile, ma anziché forzare a tal fine un istituto come la liberazione anticipata che, è bene ricordare, può essere concessa solo ai condannati e rappresenta un architrave del sistema penitenziario in quanto è grazie a essa che la pena è diventata flessibile e si modula in relazione ai progressi del trattamento, sarebbe forse meglio ricorrere a misure come l’amnistia (di cui possono beneficiare anche gli imputati) e l’indulto, per loro natura «atti eccezionali che devono corrispondere a momenti e a necessità eccezionali», così come si legge nei lavori preparatori della Costituzione.
È essenziale però, qualsiasi sia la misura adottata, che si abbia ben chiaro come si svilupperà il seguito, il progetto che si intende realizzare, adottando tutti gli interventi necessari, con una tempistica si spera non dilatata nel tempo, per evitare che, come è successo in passato, nel giro di qualche mese si ritorni alla situazione di partenza.
5. A questo proposito, di sicuro è difficile credere che un contributo alla soluzione del problema del sovraffollamento possa provenire dai preannunciati interventi di manutenzione straordinaria e dalla costruzione di otto nuovi padiglioni, con i quali dovrebbero essere ampliati alcuni Istituti, occupando spazi «inutilizzati». L’esperienza analoga del Piano straordinario di intervento, elaborato dal Governo italiano nel 2010, all’indomani della sentenza Sulejmanovic della Corte EDU, ha dimostrato che il risultato di un’operazione del genere si traduce in un aumento delle presenze con riduzione esponenziale degli spazi comuni e, quindi, a dispetto delle buone intenzioni dichiarate, in un peggioramento delle condizioni di vita detentive.
Laddove si voglia incidere sulla qualità della vita penitenziaria bisognerebbe, invece, agire con una logica opposta ovvero utilizzare quelle aree ora «inutilizzate» per aumentare gli spazi da porre a disposizione delle persone detenute perché, come afferma la stessa Commissione citando le Regole penitenziarie europee, «se la vita detentiva deve essere impostata in modo da riflettere, nella misura più ampia possibile, le caratteristiche della vita libera, allora lo spazio della pena detentiva dovrebbe essere definito a partire dal muro di cinta, consentendo di sfruttare l’intero perimetro dell’istituto, potendo indietreggiare fino alla cella (che dovrebbe essere esclusivamente camera di pernottamento) solo per puntuali e serie ragioni di sicurezza».
La persona detenuta deve poter vivere più tempo al di fuori del reparto detentivo (cella e corridoio), così come prescrive l’art. 6 dell’ordinamento penitenziario, non fosse altro perché una eccessiva permanenza in camera è dannosa per l’equilibrio psico-fisico delle persone, e non a caso l’art. 17, comma 9, del Regolamento di esecuzione pone l’attenzione sulle diverse patologie «collegabili alle prolungate situazioni di inerzia e di riduzione del movimento e dell’attività fisica».
In questa prospettiva soltanto si potrebbe iniziare a porre le basi per trasformare l’odierna realtà delle carceri, aumentando le attività trattamentali e assicurando, poi, che possano essere concretamente partecipate dalle persone recluse con orari di permanenza all’aperto più lunghi. Si porrebbe fine, in altre parole, a quella concentrazione delle, poche, opportunità trattamentali nell’esiguo tempo oggi disponibile, che frena la stessa partecipazione del mondo esterno, dal volontariato, al terzo settore, a chi intenda offrire occasioni di lavoro e financo agli operatori sanitari, costretti a contendersi tra loro spazi e tempo insufficienti. Senza dimenticare, inoltre, che negli stessi orari, in genere, si svolgono anche le attività quotidiane dell’istituto: i colloqui con i familiari, con gli avvocati, con gli operatori, le visite mediche etc.
Resta sì aperto l’interrogativo sulla reale disponibilità di spazi inutilizzati (e utilizzabili): uno dei problemi principali dei nostri Istituti penitenziari sembra proprio quello della loro carenza, tanto più quando si tratta di vecchie costruzioni, situate all’interno delle città, come San Vittore, Poggioreale, Regina Coeli, gravate anche di sovraffollamento; tuttavia, quella che potrebbe risultare una vera rivoluzione, in grado di migliorare la vita per i detenuti e per lo stesso personale, potrebbe iniziare a implementarsi presso le Case di reclusione che hanno architetture diverse e relativamente meno detenuti.
6. Un secondo aspetto che ci preme sottolineare è quello dei bambini in carcere, al seguito delle mamme detenute: una situazione pietosa, sia per la madre che per i figli, che oggi può sembrare in via di soluzione, perché al 31 dicembre 2021 erano presenti ‘solo’ 16 donne con 18 figli, ma che non vi è purtroppo alcun motivo per ritenere che non tornerà a ripresentarsi in tuta la sua drammaticità una volta terminata l’emergenza sanitaria.
La Commissione Ruotolo ha limitato il suo intervento in questo ambito, anche perché è all’esame del Parlamento la proposta di legge Siani, che mira proprio a tenere il più possibile fuori dal carcere i minori, salvaguardandone al contempo il rapporto con la madre. Per quanto comprensibile, quella astensione appare tuttavia come un’occasione perduta, sia perché la proposta Siani per sortire gli effetti sperati necessita di interventi (ancora non contemplati) sulla disciplina sostanziale e processuale di queste situazioni, sia perché è oramai da più di sei mesi che di quel disegno di legge più non si parla nelle aule di Montecitorio.
L’intervento da attuare non sarebbe d’altra parte di particolare complessità: un buon passo avanti potrebbe innanzitutto essere realizzato eliminando ogni residuo condizionamento dell’art. 4-bis o.p. all’applicazione di istituti dell’ordinamento penitenziario volti a favorire la continuità del rapporto genitore-figlio (come ad esempio nel caso dell’art. 50 comma 2 o.p., al quale rinvia l’art. 47-quinquies comma 8 o.p. per la proroga della misura della detenzione domiciliare speciale dopo il raggiungimento dei 10 anni di età del minore).
Per assicurare che l’interesse (superiore) del minore a non vedere interrotto il rapporto con la madre, senza per questo doverla seguire all’interno di un carcere, sia preso effettivamente in considerazione, sarebbe però soprattutto necessario delimitare le ipotesi nelle quali al magistrato sia consentito bilanciarlo con altre esigenze e ad esse eventualmente subordinarlo. Si potrebbe, ad esempio, stabilire che quelle esigenze processuali o di difesa sociale che possono portare, a seconda dei casi, all’adozione di una misura cautelare durante il processo (art. 275 comma 4 c.p.p.), al differimento facoltativo della pena quando l’età del minore è tra 1 e 3 anni (art. 147 c.p.) o al diniego della misura alternativa della detenzione domiciliare, con conseguente stato detentivo per la madre e il minore (artt. 47-ter e 47-quinquies o.p.) potrebbero essere oggetto di bilanciamento solo in presenza di uno dei reati contemplati in quello stesso art. 4-bis o.p., assunto a punto di riferimento (per quanto sovrabbondante) dei reati di particolare allarme sociale.
La stessa attenzione si dovrebbe poi avere per la donna in stato di gravidanza, per la quale l’art. 146 c.p. impone il differimento della pena (in fase di esecuzione), senza però che una disposizione analoga sia prevista per la donna imputata (e quindi presunta innocente), con le conseguenze che tutti abbiamo avuto sotto gli occhi quando, pochi mesi orsono, una giovane donna bosniaca ha partorito in carcere, da sola, di notte e con l’aiuto provvidenziale della compagna di stanza. E la vicenda è altamente significativa, perché diversi tentativi erano stati fatti, anche dalla Garante dei detenuti locale, per evitare quell’epilogo (ben prevedibile) e perché la presenza in carcere di quella donna, colta in flagranza dell’ennesimo borseggio e tra l’altro con un bimbo di pochi mesi in braccio, avrebbe dovuto giustificarsi per «esigenze cautelari di eccezionale rilevanza» (art. 275 comma 4 c.p.p.), verosimilmente ravvisate nella probabile reiterazione di quel reato assolutamente bagatellare, per il quale le donne nomadi (e i loro figli) ‘affollano’ gli istituti penitenziari.
Purtroppo, l’ordinamento assume come ‘normale’ la presenza in carcere di donne in stato di gravidanza (che dovrebbero essere solo imputate, stante l’art. 146 c.p.), dal momento che si preoccupa di assicurare, nella previsione dell’art. 19 del Regolamento di esecuzione, che il parto sia effettuato («in luogo esterno di cura»); né la Commissione incide in maniera significativa su questa prospettiva, perché si limita a proporre di trasformare un auspicio («preferibilmente») in una regola, che tuttavia già prevede (e non può non prevedere, per l’imprevedibilità del corpo umano) la sua eccezione («salvo che il responsabile del servizio sanitario individui ragioni di urgenza che lo impediscano»). Sarebbe invece opportuno e urgente circoscrivere in maniera tassativa le ipotesi nelle quali possa essere adottata una misura cautelare custodiale nei confronti di una donna in stato di gravidanza (e il riferimento all’art. 4-bis o.p. potrebbe essere nuovamente utile), rendendo altresì a tal fine utilizzabili esclusivamente le case-famiglia protette o, in via del tutto eccezionale – perché di istituti detentivi pur sempre si tratta -, gli istituti a custodia attenuata (ICAM).
7. Un’ultima considerazione va dedicata al tema della formazione dei giuristi coinvolti nella esecuzione penale, per l’evidente influenza che le decisioni dei magistrati impegnati negli uffici dell’esecuzione penale e nei tribunali di sorveglianza e la qualità dell’assistenza offerta dagli avvocati (di fiducia o d’ufficio) esercitano sulla vita delle persone detenute. Nonostante la delicatezza e la difficoltà di questo lavoro, dal quale possono dipendere mesi o, più spesso, anni di carcerazione e il cui esito, quando sollecitato, occupa quotidianamente la mente della persona reclusa (e non solo), nessuna garanzia viene data sulla preparazione di chi lo deve svolgere perché, come è noto, nella formazione del giurista il diritto della esecuzione penale e il diritto penitenziario costituiscono, nella migliore delle ipotesi, insegnamenti facoltativi nel percorso universitario dello studente di Giurisprudenza. Più frequente è l’assenza di un insegnamento specifico su questi temi, che si riflette, per coerenza, nella esclusione (tacita) di queste nozioni dalle conoscenze necessarie per entrare nel mondo della professione legale o della magistratura. E dunque non c’è da stupirsi se neanche tra gli addetti ai lavori si registra una consapevolezza delle tante questioni problematiche sollevate dalla sanzione penale e dalla sua esecuzione così come una sensibilità su quelle che sono le garanzie costituzionali e convenzionali che circondano la pena e la pena detentiva in particolare. È forse da qui che bisogna partire, se vogliamo che la «rivoluzione della Ministra Cartabia» si realizzi: un impegno necessario e congiunto di tanti soggetti (dalle Università, agli Ordini professionali, alla Scuola Superiore della Magistratura) che renda evidente a tutti l’importanza di questo settore dell’ordinamento e la necessità di una elevata e specifica preparazione da parte di chi si accinge ad operarvi. Tutto il contrario di quella scarsa considerazione che tradizionalmente è stata riservata, anche all’interno dell’Accademia (con qualche eccezione), al vasto e variegato mondo delle sanzioni penali.
Insomma, l’obiettivo del miglioramento della quotidianità detentiva è molto impegnativo e richiede il contributo di tanti per il suo raggiungimento, anche solo in misura limitata. Resta il tempo per una riflessione più ampia e coraggiosa, sulla reale necessità che così tante persone debbano soffrire all’interno dei nostri istituti penitenziari, per quanto migliore possa diventare la vita al loro interno, e per non parlare della sofferenza di chi resta fuori, in attesa. Ma questa è un’altra rivoluzione.