ISSN 2704-8098
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  Opinioni  
18 Luglio 2024


La pervicace volontà di non affrontare i nodi dell’emergenza carceraria

Riflessioni a margine della miscellanea delle nuove disposizioni in materia di ordinamento penitenziario di cui al d.l. 92/2024



1. In un’estate sempre più torrida, il Governo approva un decreto-legge (4 luglio 2024, n. 92) dal contenuto eterogeneo con diverse disposizioni che impattano sulla materia penale, in particolare sui due versanti della tutela penale della pubblica amministrazione e delle norme di ordinamento penitenziario. L’ambito di intervento è, in verità più ampio, perché il testo approvato è una miscellanea di disposizioni che toccano diversi campi di materia, come emerge dalla emblematica intitolazione del decreto-legge riferita a “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia”.

Ho cercato il filo conduttore del decreto, ma, per quanto mi sforzassi, non ne ho trovato traccia (limiti miei), se non l’affannosa esigenza di evitare lacune di tutela (in relazione alla tutela penale della pubblica amministrazione) o di proporre pur qualcosa sulla questione carcere. C’è dunque più di un dubbio, evidenziato in sede di audizioni, sulla scelta di approvare un decreto-miscellanea, in spregio alla necessaria omogeneità del suo contenuto che è requisito di validità del ricorso alla decretazione d’urgenza[1]. Non solo, ma come vedremo, nemmeno tutti i provvedimenti che interessano la materia penale sono giustificabili in forza di straordinarie esigenze di necessità e urgenza. Inoltre, alcuni interventi hanno una efficacia temporalmente posticipata che ha portato l’Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale a rilevare la «contraddittorietà tra il presupposto dell’urgenza e l’adizione di disposizioni la cui efficacia è rinviata nel tempo»[2].

 

2. Non entro nel merito delle scelte fatte tra abrogazione dell’abuso d’ufficio (legge non ancora entrata in vigore) e anticipazione in contropiede con l’art. 314-bis c.p. per correre ai riparti delle lacune di tutela, più imbarazzanti rispetto ai vincoli sovranazionali, lasciate dalla indubbia contrazione dell’area di incriminazione che si viene così a creare: avremo liberato gli amministratori pubblici dalla paura della firma, più di quanto non avesse già fatto la riforma del 2020, ma dobbiamo essere consapevoli che sono anche stati liberti i pubblici agenti dalla paura delle conseguenze derivanti da condotte profittatrici o prevaricatrici nei confronti dei consociati. Non è un messaggio rassicurante sul piano della legalità e dell’etica pubblica. Vedremo la risposta della prassi applicativa all’opera compiuto di taglio di una norma e di ritaglio dell’ambito applicativo della nuova fattispecie sul perimetro dell’abrogata disposizione, sempre che il decreto sia convertito in legge nel testo approvato dal Consiglio dei ministri. 

 

3. Se ora si mette a confronto quanto è stato fatto nella (riduzione della) tutela penale della pubblica amministrazione con la parte del decreto-legge dedicata alle disposizioni di ordinamento penitenziario, si rimane a dir poco sconcertati: se, infatti, in questo caldo torrido di luglio c’era un’urgenza da affrontare, questa, ben più che l’abrogazione dell’art. 323 c.p., era la questione del sovraffollamento carcerario che è giunto ai livelli critici che giustificarono nel 2013 la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo con la nota sentenza Torreggiani: a giugno 61.480 detenuti presenti a fronte dei 51.234 posti regolamentari; i dati relativi agli indici di sovraffollamento – ci ricorda la relazione dell’Ufficio del Garante nazionale – si aggirano in media intorno al 130,44 % (con la percentuale più alta – tra tutti gli istituti esaminati – del 224,78 % relativa alla Casa circondariale di Milano San Vittore). Il numero abnorme dei suicidi (55 tra i detenuti e 6 tra gli agenti di polizia penitenziaria) costituisce l’epilogo drammatico e la punta di un iceberg di un complessivo malfunzionamento della gestione della pena carceraria che incide pesantemente e inaccettabilmente sulle vite umane di chi si trova a patire una pena nella pena. «Una vergogna nazionale»[3], come è stato autorevolmente scritto e non si può che condividere.

Sono state diverse le sollecitazioni ad intervenire su una situazione di intollerabile violazione dei diritti umani: l’autorevolezza morale del Presidente della Repubblica e del Pontefice; le prese di posizione dell’Associazione nazionale magistrati, dell’Unione delle Camere Penali e delle associazioni scientifiche (l’Associazione italiana dei professori di diritto penale, l’Associazione italiana dei processualisti e l’Associazione italiana dei costituzionalisti hanno redatto, e inviato alle sedi istituzionali, un documento unitario di forte critica sulla situazione vigente).

A fronte della situazione sempre più intollerabile di emergenza, il Governo ha approvato con decreto-legge alcune disposizioni che costituiscono nulla più che qualche goccia d’acqua versata sull’arsura di un terreno desertico. Tuttavia, a fronte della mia incapacità di cogliere il fil ruoge che lega il complesso delle norme del decreto, mi sono parse da subito più chiare le direttrici dell’intervento sulle norme di ordinamento penitenziario. La giustificazione del decreto-legge – così indica il preambolo – sta nella ritenuta «straordinaria necessità e urgenza di introdurre disposizioni in materia di ordinamento penitenziario, per una razionalizzazione di alcuni benefici, di alcune regole di trattamento applicabili ai detenuti e per la semplificazione dell’accesso ai benefici». È assente ogni riferimento alla situazione di emergenza che stanno vivendo le carceri italiane, particolarmente grave in alcune realtà: “razionalizzazione” e “semplificazione”, nella loro glaciale freddezza procedurale, sono due obiettivi che prescindono dal contesto di sovraffollamento, perché dovrebbero essere sempre criteri funzionali al buon andamento dell’amministrazione penitenziaria; possono di certo contribuire a sciogliere le farraginosità di alcune procedure, ma non ad affrontare in termini realistici i nodi problematici dell’emergenza. La logica che ispira il preambolo si riflette nelle norme del decreto-legge che modificano le norme di ordinamento penitenziario: nulla che aiuti effettivamente, in tempi celeri, a contenere gli effetti ed il disagio del sovraffollamento. Direi che il tema “carcere” è affrontato in termini “interni al carcere”, securitari e disciplinari.

 

4. Alcune novità del decreto-legge sono interventi “interni al carcere”. Il primo riguarda la corrispondenza telefonica ed è finalizzato ad innalzare il numero mensile delle telefonate (da quattro a sei, e salvo le norme derogatorie che già oggi consentono un maggior numero di telefonate: art. 39, comma 2 d.P.R. 230/2000; art. 2-quinquies l. 70/2020). La soluzione è condivisibile[4], perché il contatto dei detenuti con i familiari è fondamentale per garantire la prosecuzione di quei legami che il contesto carcerario inevitabilmente altera, modificando spazio e tempo nella vita dei detenuti, ma è anche essenziale nella prospettiva della funzione rieducativa della pena. Si tratta, tuttavia, di una misura che, per quanto apprezzabile, rimane sempre interna al carcere, apre all’esterno, ma solo in termini di collegamenti virtuali, non effettivi.

Con quali tempi di attuazione però? La collocazione della disciplina sulla corrispondenza telefonica nel regolamento penitenziato (d.P.R. 230/2000) ha imposto, per evitare l’effetto della legificazione di una disposizione di fonte subordinata, di non imporre la novità con il decreto-legge, ma di rinviare la disciplina al regolamento, da adottare entro sei mesi dalla entrata in vigore del decreto-legge, rimettendo, tuttavia, da subito alla sensibilità del direttore del singolo istituto di autorizzare le telefonate oltre il limite vigente (art. 6, comma 2 d.l. 92/2024). Dunque, il vincolo all’aumento è temporalmente posticipato, ma alcuni effetti si possono produrre sin da subito, essendo rimessa alla valutazione del singolo direttore di istituto di aumentare da subito il numero delle telefonate, anche se non fatico a immaginare quanto potranno incidere le difficoltà organizzative, perché, se c’è un contesto nel quale le norme, anche quelle di legislazione primaria, soffrono il limite dell’ineffettività, è proprio nella gestione degli istituti carcerari, vero muro di gomma dei diritti della persona.    

   Dunque, il sovraffollamento permane, anche se, telefonando, nello spazio dei dieci minuti di collegamento virtuale con il mondo esterno, l’aria pesante delle celle continuerà a rimanere tale.

 

5. Ugualmente in una prospettiva “interna al carcere” si muove la modifica dell’art. 41-bis ord. penit., visto che l’art. 7 d.l. 92/2024 introduce tra le prescrizioni del carcere duro «l’esclusione dall’accesso ai programmi di giustizia riparativa».

Davvero una straordinaria necessità e urgenza di intervenire? La complessiva disciplina della giustizia riparativa non è ancora de facto entrata a regime, considerate i tempi burocratici dilatati nell’attuazione della disciplina relativa alla formazione dei mediatori, e se ne delimita l’ ambito di applicazione che il d. lgs. 150/2022 ha lasciato volutamente ampio, per dar modo a queste nuove forme di composizione tra autore e vittima di svilupparsi secondo dinamiche e con effetti diversi nel sistema. Unico limite è costituito dalla valutazione da parte del magistrato che può escludere l’accesso alla giustizia riparativa in caso di pericolo concreto per i partecipanti, derivante dallo svolgimento del programma.

È indubbio che per i detenuti in regime di carcere duro possono esservi difficoltà pratiche di attuazione della giustizia riparativa, tuttavia la novità introdotta dal decreto-legge segnala anche un elemento di forte criticità della disciplina dell’art. 41-bis: le limitazioni nel regime di vita detentiva sono imposte con decreto del Ministro della giustizia, mentre l’accesso alla giustizia riparativa e la valutazione dei suoi effetti è rimessa all’autorità giudiziaria; consentire la giustizia riparativa anche per i detenuti in carcere duro potrebbe tradursi in un conflitto tra ministero e autorità giudiziaria che il decreto-legge risolve in via presuntiva in favore della esclusione in presenza del regime detentivo speciale. Questa scelta del decreto-legge fa emergere l’anomalia di una misura disposta con provvedimento ministeriale che incide a tal punto sulla vita dei detenuti da determinare una mutazione del volto della pena. Se la Corte costituzionale nella sentenza n. 32/2020 ha chiarito che l’esecuzione della pena detentiva in carcere o attraverso percorsi extra-murari cambia qualitativamente la pena, allo stesso modo, in una prospettiva opposta, anche le pesanti sospensioni delle regole di trattamento che l’art. 41-bis impone, determinano compressione della libertà personale così forte da modificare qualitativamente la pena. Ne consegue che dovrebbe essere assicurata la garanzia della riserva di giurisdizione, non solo in fase di reclamo, ma già in sede di applicazione del regime speciale[5].

Il Governo si è anche peritato di proporre una modifica formale, che consegue al fatto che sia stato inserito alla lett. f-bis) il limite dell’accesso ai programmi di giustizia riparativa. Dopo le parole «cuocere cibi» va cambiato il segno di interpunzione, inserendo un punto al posto del punto e virgola. Ora, a parte la scelta di introdurre una lett. f-bis invece della g, ciò che sorprende è il richiamo a «cuocere cibi», essendosi il Governo dimenticato della sentenza n. 186/2018 che ha dichiarato l’incostituzionalità di quel divieto[6]. Quel paradossale richiamo ad un testo di legge dichiarata incostituzionale non segnala solo la distrazione di chi ha tecnicamente composto il testo del decreto-legge, ma suona ancor più pesante, perché sembra dimenticare il monito della Corte costituzionale che, nella dichiarare l’illegittimità di quel divieto, ha ribadito che anche chi si trova ristretto nel regime speciale «deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale».   

Dunque, anche questo intervento si muove tutto nella logica del carcere come spazio chiuso e non tange la questione del sovraffollamento carcerario.

 

6. Si muovono in una prospettiva securitaria i primi articoli del decreto-legge che prevedono l’assunzione di mille unità del Corpo di polizia penitenziaria, l’assunzione di venti unità di dirigente penitenziario e lo scorrimento delle graduatorie per posti di vice commissario e vice ispettore di polizia penitenziaria (artt. 1-3). Ben venga l’aumento di organico del personale di polizia, spostato però al 2025 e 2026, il che porta nuovamente ad interrogarsi sulle esigenze straordinarie di necessità ed urgenza[7]; tuttavia, nel contesto di una situazione critica come quella degli istituti penitenziari, dove è del tutto carente il supporto di educatori, psicologi e psichiatri, considerato il dramma del disagio psichico in carcere, quelle norme suonano come un investimento esclusivo sul piano della sicurezza, più che su quello dei percorsi rieducativi che sono comunque imprescindibili, pur con le difficoltà di dare attuazione all’art. 27, comma 3 Cost. in contesti che non garantiscono nemmeno il rispetto dei diritti umani. Non convince anche la riduzione del corso per gli agenti di polizia penitenziaria, perché è fondamentale l’attività formativa considerata la complessità dell’universo carcerario. Appare anche una forzatura la valorizzazione della polizia penitenziaria in chiave di sostegno ai detenuti nella lettura data dal Garante nazionale, per il quale «gli agenti di polizia penitenziaria rappresentano spesso per la persona detenuta il primo interlocutore cui rivolgere istanze di ascolto e sostegno»: anche se questo fosse vero, vanno condivise le sollecitazioni del Garante a porre attenzione anche sull’investimento su educatori, psicologi e personale della formazione.

Questa logica di gestione securitaria del carcere suona tanto più preoccupante, se si affianca l’aumento di organico della polizia con il disegno di legge in materia di sicurezza pubblica (ddl n. 1660) che, dopo un periodo di quiescenza, ha velocemente ripreso la corsa dei lavori parlamentari con audizioni in commissione disposte quasi ad horas[8]. Prevede l’introduzione nel codice penale di due nuove fattispecie di rivolta, applicabili ai fatti commessi negli istituti penitenziari e nei CPR (art. 415-bis c.p. e art. 14, comma 7.1 d. lgs. 286/1998), nelle quali si incrimina il fatto di tre o più persone riunite che, «mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione», promuovono, organizzano, dirigono una rivolta o vi partecipano. Se il disegno di legge fosse approvato, la rivolta consisterebbe nel semplice fatto di non obbedire agli ordini impartiti, in quanto la non ottemperanza integra la resistenza passiva. Non c’è nulla di più distante tra l’etimologia del termine rivolta e la tipizzazione di cui sono stati capaci i redattori del disegno di legge.

Il combinato disposto tra aumento della dotazione del personale della polizia penitenziaria e volontà di introduzione del reato di rivolta segnala un’attenzione al problema del sovraffollamento carcerario nei termini di gestione securitaria e di repressione interna. La minaccia insita nel delitto di rivolta veicola un pericoloso messaggio disciplinare: la mancata ottemperanza, da parte di almeno tre detenuti, agli ordini impartiti integra gli estremi della rivolta, rispetto alla quale si giustifica l’intervento della polizia penitenziaria.

Dov’è la risposta al sovraffollamento? Di fronte ai rischi di tensioni interne (rischi che si sono già concretizzati in diversi istituti), si prospetta un intervento securitario tra potenziamento dei gestori della sicurezza interna e possibile criminalizzazione anche della resistenza passiva.

 

7. All’art. 7 sono previsti “Interventi in materia di liberazione anticipata”. Poteva essere il viatico per aprire, anche solo in parte alla proposta di ampliare il tempo di detrazione di pena nella liberazione anticipata (proposta di legge n. 552, Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di concessione della liberazione anticipata, e disposizioni temporanee concernenti la sua applicazione). Non sarebbe stata una forma di indulto mascherato, in quanto il beneficio sarebbe stato concesso previo il vaglio del magistrato di sorveglianza sulla partecipazione, nei diversi semestri di pena, all’opera di rieducazione.

La memoria del Garante nazionale definisce questa parte «punto qualificante del novum legislativo». Mi pare che gli interventi approvati si siano limitati a, pur apprezzabili, correttivi sul piano della disciplina procedimentale al fine di superare alcune delle farraginosità della disciplina vigente anche se, come hanno evidenziato in sede di audizione, si aprono altre difficoltà pratiche[9]. La semplificazione è ovviamente condivisibile, ma diventa un mero orpello rispetto ad una situazione disastrosa interna agli istituti penitenziari. In parte poi, del tutto inutile: prevedere, ad esempio, che l’ordine di esecuzione contenga la doppia indicazione della pena da espiare, con e senza detrazioni di pena, non tiene conto del fatto che tutti i detenuti sanno come funziona il sistema delle detrazioni. Nella relazione di accompagnamento del decreto-legge, si legge che l’informativa al destinatario, oltre a formalizzare fin dall’inizio il conteggio (non complicato, peraltro, essendo un quarto della pena complessiva, sempre che il detenuto partecipi costantemente all’opera di rieducazione), intende «promuovere l’adesione al programma rieducativo da parte del detenuto, il quale ha modo di vedere già conteggiate tutte le detrazioni, ma, al contempo, è avvisato del fatto che, perché divengano effettive, dovrà partecipare all’opera di rieducazione». Un monito, dunque, al detenuto rispetto ad una misura il cui presupposto applicativo non corrisponde affatto alla misura in action, in quanto l’opera di rieducazione, in un carcere che non la prevede o la prevede, in alcuni contesti, in misura minimale, si riduce essenzialmente a mantenimento di una buona condotta.

La disciplina introdotta riflette una fredda proceduralizzazione a fronte del dramma delle carceri italiane. È in linea con la prospettiva di razionalizzazione e semplificazione nell’accesso ai benefici che campeggia nel preambolo del decreto-legge, ma è del tutto incapace di alleggerire la pressione sugli istituti penitenziari. L’emergenza del sovraffollamento carcerario è affrontata qui in chiave disciplinare: anche in contesti che spazialmente diventano invivibili, è importante mantenere una buona condotta; l’ordine di esecuzione diventa ab initio monito disciplinare che va ad affiancare, in funzione servente, la prospettiva securitaria innanzi evidenziata.

 

8. l’unica parte del decreto-legge che contiene un’apertura ai percorsi extra-carcerari è prevista all’art. 8 che prevede l’istituzione di un elenco di strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale al fine di agevolare un più efficace reinserimento delle persone detenute adulte. Queste strutture dovrebbero consentire di sopperire alle difficoltà di avviare percorsi alternativi al cercare per chi non possiede un domicilio idoneo. Non è una proposta nuova: già nel 2013 la Commissione di riforma del sistema sanzionatorio presieduta dal prof. Francesco Palazzo, al fine di assicurare effettività nell’accesso alla detenzione domiciliare e superare la disparità di trattamento nell’accesso alla misura, aveva previsto l’attivazione di strutture di dimora sociale funzionali allo scopo. Anche la riforma delle pene sostitutive prevede che, per consentire l’applicazione della detenzione domiciliare sostitutiva, se il condannato non ha la disponibilità di un domicilio idoneo, l’ufficio di esecuzione penale esterna predispone il programma di trattamento, individuando soluzioni abitative anche comunitarie adeguate alla detenzione domiciliare (art. 56, l. 689/1981 come modificato da d. lgs. 150/2022).

Se non che la nuova disciplina prevede molto meno di quanto aveva in mente la Commissione palazzo che sollecitava lo Stato ad attivare queste strutture. L’art. 8 del decreto-legge, invece, si limita a prevedere l’istituzione, presso il Ministero della giustizia, di un elenco di strutture. Con quale tempistica?

Il comma 2 dispone: «Con decreto del Ministro della giustizia, da adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono definite la disciplina relativa alla formazione e all’aggiornamento dell'elenco di cui al comma 1, le modalità di esercizio dell'attività di vigilanza sullo stesso e le caratteristiche e i requisiti di qualità dei servizi necessari per l'iscrizione nell’elenco. Con il decreto di cui al primo periodo sono, altresì, stabilite le modalità di recupero delle spese per la permanenza nelle strutture di cui al comma 1, nonché i presupposti soggettivi e di reddito per l’accesso alle suddette strutture dei detenuti, che non sono in possesso di un domicilio idoneo e sono in condizioni socio-economiche non sufficienti per provvedere al proprio sostentamento, al fine di garantire il rispetto del limite di spesa di cui al comma 6». Qui davvero c’è una forte posticipazione dell’intervento e sono prevedibili ritardi, come accadde con l’istituzione delle REMS.

La complessità del progetto sta nel fatto che queste strutture non devono limitarsi ad assicurare un domicilio idoneo, come nel progetto Palazzo e nella riforma della detenzione domiciliare sostitutiva, perché il comma 3 dell’art. 8 d.l. cit. dispone: «Ai fini dell’iscrizione nell’elenco di cui al comma 1, le strutture residenziali garantiscono, oltre ad una idonea accoglienza residenziale, lo svolgimento di servizi di assistenza, di riqualificazione professionale e reinserimento socio-lavorativo dei soggetti residenti, compresi quelli con problematiche derivanti da dipendenza o disagio psichico, che non richiedono il trattamento in apposite strutture riabilitative». Dunque, qualcosa di più e di diverso da un semplice domicilio idoneo, da integrare attraverso attività esterne, perché queste strutture dovranno assicurare

Ancora una volta, la disciplina risponde alle esigenze di razionalizzazione e semplificazione che accampano nel preambolo del decreto-legge, ma non incide sulla situazione in atto di sovraffollamento carcerario, proponendo semmai soluzioni che possono rischiare di tradursi in forme private di gestione chiusa della pena detentiva fuori dal carcere[10].

 

9. Quando si avviò la discussione sul disegno di legge Giachetti (già nel 2020) ero scettico su una proposta che nuovamente metteva una toppa ad un problema generale di gestione del rapporto tra misure alternative e pena carceraria. Credo che poco possa incidere la riforma Cartabia che, nella condivisibile prospettiva di anticipare in fase di cognizione scelte deflattive delle pene detentive, sconta il limite della mancata inclusione dell’affidamento in prova tra le pene sostitutive; chi popola l’universo carcerario intercetta in misura minimale i benefici di questa riforma.

Quali interventi si possono quindi proporre per contenere il sovraffollamento carcerario? In un contesto mediatico dominato dalla logica populista della sicurezza pubblica, la contrazione della risposta detentiva ha in sé sempre un messaggio negativo che induce piuttosto a non fare (o a far credere di fare) piuttosto che riportare le condizioni di vita nelle carceri in termini minimi di accettabilità. Pertanto, lasciamo perdere ogni prospettiva di depenalizzazione, perché, se la si vuol far incidere sulla popolazione carceraria, dovrebbe interessare gli ambiti dei reati contro il patrimonio e in materia di stupefacenti, settori che sono al contrario rafforzati dalle politiche penali securitarie che oggi predominano.

La scelta drastica dell’approvazione di una legge di amnistia o di indulto mi pare ugualmente poco conciliabile con i programmi dell’attuale maggioranza parlamentare; peraltro, non mi è mai parsa la soluzione ai problemi, quanto è piuttosto il sintomo del malfunzionamento del sistema; tuttavia, comprendo bene che in determinate situazioni il provvedimento di clemenza finisce per diventare una scelta quasi obbligata.  

Mi pare allora realistica la soluzione intermedia, riprendendo, senza atteggiamenti inutilmente polemici come l’idea che tutto possa apparire una resa dello Stato, la proposta di ampliare i tempi di detrazione di pena nella liberazione anticipata, perché non c’è alcun automatismo nella concessione del beneficio, essendo imprescindibile il vaglio, caso per caso, semestre per semestre, da parte della magistratura di sorveglianza secondo la procedura semplificata prevista dall’art. 5 d.l. 92/2024. I detenuti che ne godrebbero e che potrebbero, pertanto, uscire dal carcere, sarebbero usciti comunque di lì a poco e sul piano della sicurezza nulla cambia: la condanna e l’esecuzione della pena o hanno cambiato in meglio la persona, o sul percorso rieducativo non incide l’ampliamento della libertà anticipata[11].

Se, come ci insegnano le riflessioni teoriche sulla disciplina del concorso di reati, il cumulo giuridico è preferibile al cumulo materiale, perché con il passare del tempo si accresce in modo geometrico il peso della privazione della libertà personale, allora dovremo anche riflettere sul maggior peso specifico della privazione della libertà personale in condizioni di sovraffollamento e valutare più serenamente, e meno ideologicamente, la proposta di ampliamento della liberazione anticipata.

È indubbio che la proposta costituisce una nuova toppa nelle falle di un sistema complesso: tuttavia, considerato che oramai da tempo non si mette mano alla complessiva riforma del sistema sanzionatorio, questo intervento riuscirà ad incidere sul sovraffollamento, contribuendo a sanare, se non tutte, almeno alcune delle più vistose ed urgenti violazioni dei diritti umani che il decisore politico sta consumando, preferendo al timore di apparire pavido che gli venga addebitata una delittuosa condotta omissiva a fronte del numero dei suicidi che è inevitabilmente destinato ad aumentare[12].

 

[2] Memoria del Garante nazionale al Disegno di Legge 1183 - Conversione in legge del decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92, recante misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia, in https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/it/pub_rel_par.page.

[3] G. Giostra, Carcere dimenticato per insensibilità o per calcoli elettorali?, in Il dubbio, 6 gennaio 2024.

[4] Condivisibili le indicazioni correttive in favore di una più ampia apertura al regime delle telefonate, in M. Ruotolo, Riflessioni sui possibili margini di intervento parlamentare in sede di conversione del decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92 (decreto carcere). Appunti a prima lettura, cit. 11 luglio 2024.

[5] A. Della Bella, Il “carcere duro” tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, 2016, 409 ss.

[6] Si vedano i rilievi critici di M. Ruotolo, Riflessioni, cit.

[7] Si vedano i rilievi critici di M. Passione, op. cit.

[8] Per più ampie riflessioni, sia consentito il rinvio a M. Pelissero, A proposito del disegno di legge in materia di sicurezza pubblica: i profili penalistici, in questa Rivista, 27 maggio 2024.

[9] M. Passione, op. cit.

[10] Si vedano le preoccupazioni di M. Ruotolo, cit.; M. Passione, cit.

[11] G. Giostra, Viste le pene, ridurre la pena, in Avvenire, 4 maggio 2024.

[12] G. Giostra, Dramma carceri. Svuotarle ora, in Avvenire, 28 giugno 2024.