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  Opinioni  
02 Giugno 2025


Perchè può essere utile una fattispecie di femminicidio


1. Con un comunicato stampa del Consiglio dei ministri n. 117 del 7 marzo 2025, è stata resa nota la decisione del Governo di introdurre il delitto di femminicidio nel nostro ordinamento, unitamente ad altri interventi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne; il relativo disegno di legge è stato poi presentato in Senato il successivo 31 marzo (A.S. 1433) ed è attualmente all’esame della Commissione Giustizia del Senato in sede redigente. Il modo con il quale è stato annunciato l’intervento e la formulazione della fattispecie che è stata proposta hanno sollevato un coro di proteste, soprattutto da parte del mondo accademico: ciò che si metteva in rilievo in quel comunicato era infatti «l’estrema urgenza criminologica del fenomeno», che avrebbe giustificato, insieme alla «particolare struttura del reato», la previsione della pena dell’ergastolo come pena base e non, come oggi è stabilito per il delitto di omicidio, come pena applicabile in presenza di circostanze aggravanti (artt. 576 e 577 c.p.). Alla assoluta novità di un reato che si caratterizza per l’individuazione della donna come unico soggetto passivo della condotta e che viene indicato con un termine – “femminicidio” – ancora non da tutti condiviso e accettato, si è così aggiunto l’ulteriore profilo problematico del particolare rigore sanzionatorio che avrebbe dovuto accompagnarlo, perché ritenuto diverso e più grave di qualsiasi altro omicidio, di donne e di uomini: un insieme di elementi che ha prodotto come unica e immediata conclusione che si trattasse dell’ennesimo intervento inutilmente e gratuitamente repressivo, espressione di quel populismo penale che per soddisfare (pretese) aspettative di (maggiore) punizione usa lo strumento penale in modo simbolico, ritenendolo per di più a costo zero.

 

2. Alle voci di chi invocava i principi costituzionali come barriera insuperabile per l’introduzione di un nuovo reato di femminicidio (e per di più con quelle caratteristiche), si sono contrapposte quelle più costruttive di chi – soprattutto tra magistrati e avvocati – è impegnato da tempo sul fronte della violenza sulle donne e che ha visto nella iniziativa governativa l’occasione per il raggiungimento di un risultato condiviso che, come già accaduto per altri interventi legislativi in questo ambito, non è prerogativa di nessuno schieramento politico determinato. La diversa prospettiva dalla quale l’intervento del Governo è stato valutato ha portato infatti a salutare con favore la decisione di pervenire al riconoscimento legale del fenomeno del “femminicidio” (anche sul piano terminologico), lasciando in secondo piano – ma sarebbe più corretto dire, rinviando a un secondo momento – la questione della formulazione della nuova disposizione e del suo trattamento sanzionatorio. Di questi aspetti si sta discutendo ora nel corso delle numerose audizioni di esperti da parte della Commissione Giustizia del Senato, essendo necessario delineare una fattispecie che sia, da un lato, in grado di cogliere la peculiarità del fenomeno e, dall’altro lato, suscettibile di effettiva applicazione in sede giudiziaria, apparendo altrimenti l’intervento normativo non solo inutile ma anche controproducente.

 

3. Prima di affrontare il tema di una formulazione tecnicamente adeguata della fattispecie, vorrei soffermarmi brevemente su un aspetto che è stato inizialmente e da più parti invocato come pregiudizialmente ostativo all’introduzione del nuovo reato: si è affermata infatti la sua sostanziale inutilità, essendo l’omicidio, di donne e di uomini indifferentemente, già contemplato e sanzionato – anche con la pena dell’ergastolo quando avviene nel contesto di relazioni familiari o affettive (art. 577 c.p.) o di altre manifestazioni della violenza di genere (art. 576 c.p.) – in diverse disposizioni del nostro Codice penale. La proposta normativa in esame avrebbe dunque un carattere meramente simbolico e propagandistico, come tante altre in passato. Tuttavia, la creazione di una fattispecie speciale, che si differenzia da quella generale solo per il sesso della vittima (femminile, appunto), è una scelta che già altri ordinamenti hanno adottato per combattere quelle forme di violenza che colpiscono le donne in modo sproporzionato, talvolta senza nemmeno modificare – inasprendolo – il trattamento sanzionatorio già previsto per la fattispecie generale. Così ha fatto, ad esempio, il legislatore svedese con la legge n. 393 del 1998 che, nell’affrontare il tema della violenza sulle donne – non certo su un piano meramente simbolico, vista la dimensione dell’intervento – ha introdotto la fattispecie (speciale) di “gross violation of a woman’s integrity” per punire chi, attraverso comportamenti integranti uno o più dei reati contro l’integrità fisica, la libertà personale e quella sessuale, offende ripetutamente la dignità di una «donna con la quale sia o sia stato sposato, o con la quale conviva o abbia convissuto in circostanze analoghe al matrimonio» (e non «di una persona con la quale abbia o abbia avuto una relazione stretta», come prevede la fattispecie generale). Si è voluto così stigmatizzare in modo chiaro una delle forme più diffuse di violenza sulle donne (la violenza domestica), rendendo riconoscibile agli occhi sia dei consociati, sia di chi se ne renda responsabile, la matrice patriarcale e discriminatoria della condotta nel momento in cui sia realizzata nei confronti di una donna e in quello specifico contesto.

 

4. Le critiche mosse all’introduzione nel nostro ordinamento della nuova figura di reato parte invece dalla premessa che il femminicidio non presenti un disvalore diverso da quello della soppressione della vita di un essere umano, proprio dell’omicidio comune ex art. 575 c.p. Di conseguenza, si dovrebbe ritenere – inspiegabilmente – priva di alcun significato la elaborazione della nuova categoria concettuale che va sotto il nome di femminicidio: un termine coniato, invece, per indicare l’uccisione gratuita di una donna perché ritenuta inferiore e non meritevole di alcun rispetto e oggi impiegato per fotografare quelle situazioni nelle quali la morte della donna è da ricondurre al suo mancato adeguamento alle regole della cultura patriarcale, che la vogliono in posizione subordinata e ubbidiente, rispettosa del ruolo specifico nel quale quella cultura l’ha relegata. Una cultura che ancora persiste (anche) nel nostro Paese, come emerge dalla lettura delle sentenze di condanna per il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), con il quale per lo più si punisce la violenza all’interno della coppia, spesso all’origine del femminicidio[1]:

i comportamenti ossessivamente controllanti

«pretendeva [che la donna] tenesse tutto il giorno il telefono cellulare attivo con un auricolare nell’orecchio in modo tale da sentire quello che faceva durante i turni (diurni e notturni) in ospedale»; «la prima cosa che faceva quando io arrivavo a casa era controllarmi: mi controllava la vagina per verificare che non avessi avuto rapporti con altri uomini, mi controllava il cellulare, non potevo allontanarmi, non potevo andare da nessuna parte perché lui mi controllava le ore e i minuti, quanto tempo, e non mi potevo fermare da nessuna parte, perché lui guardava quanto tempo io mi potessi fermare in un posto»,

 

l’affermazione della propria supremazia

«stai zitta! Tu parli solo quando lo dico io»; «devi stare zitta perché io sono più forte di te, tu non sei nessuno»; «voglio una persona che ubbidisca e che stia zitta»; «tu sei la mia compagna e devi fare quello che dico io»; «tu la sera devi mettere prima i bambini a letto, dopo avere rapporti sessuali con me e successivamente finisci le tue cose in casa, alla fine servi solo a questo»; «tu sei in questa casa solo per pulire, badare ai figli e farmi fare sesso, non servi a nient’altro»,

 

le minacce

«Mo’ ti accido a te… è nella nostra cultura, siamo napoletani (...) t’ammazzo te e pure tutti quelli che si mettono in mezzo, tutta la famiglia e tutti quelli che si mettono in mezzo»

 

e gli insulti verbali e gestuali sono espressione evidente di quella cultura che continua ad ostacolare il riconoscimento della piena parità tra uomini e donne (nella realtà di tutti i giorni, più ancora che nelle leggi) e normalizza e permette il perpetuarsi della violenza di genere e quindi la compressione dei diritti umani delle donne.

 

5. Di fronte a uno scenario di questo tipo è difficile negare che le donne abbiano bisogno di una tutela rafforzata, che non può non coinvolgere il diritto penale, per la natura tipicamente penale delle manifestazioni in cui si estrinseca quella cultura di dominio e possesso. L’intervento dello Stato in questo ambito è anzi doveroso per la situazione di sostanziale disuguaglianza nella quale si trova ‘intrappolata’ la metà (di sesso femminile) dei consociati, e che resiste nel tempo per un solido substrato culturale, ancora tanto diffuso perché invisibile ai più. In questo senso va letto l’intervento governativo in esame che, attraverso l’introduzione del reato di femminicidio – e di diverse circostanze aggravanti di analogo tenore – mira a rafforzare la tutela delle donne nei confronti di queste forme di violenza agendo, da un lato, sulla loro più ampia possibile visibilizzazione e, dall’altro lato, sulla loro più incisiva repressione. Il nuovo reato offre anche le basi per una più consapevole valutazione dei casi di femminicidio nelle aule di giustizia e agevola la misurazione del fenomeno sul piano statistico, grazie al riferimento ad una specifica disposizione di legge.

 

6. Venendo poi alla formulazione della fattispecie di femminicidio, il testo pasticciato e sovrabbondante predisposto dal Governo rivela l’oggettiva difficoltà di esprimere in modo sintetico, ma esauriente, il disvalore di questa particolare forma di uccisione di una donna: «chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità». Le difficoltà sono ancora maggiori perché la descrizione della condotta, per essere efficace, deve servire a far comprendere a che cosa esattamente si riferisca il termine “femminicidio”, essendo diffusa la convinzione che si tratti solo di un modo nuovo (e magari poco elegante…) per indicare la uccisione di una persona di sesso femminile. È convinzione comune che il disvalore del nuovo reato vada individuato nel contesto nel quale la condotta omicidiaria si è realizzata e non nelle finalità perseguite dall’agente, di difficile se non impossibile (ove si faccia riferimento a sentimenti provati nei confronti della vittima) accertamento nel singolo caso concreto. Parimenti pacifica è la necessità di contemplare condotte alternative, per ricomprendere ipotesi di femminicidio che possono realizzarsi in contesti anche diversi: nell’ambito di un rapporto affettivo, presente o passato, come avviene nei casi più frequenti, ma anche in situazioni nelle quali quel rapporto è assente, oppure è del tutto occasionale e non riconducibile a una relazione protratta nel tempo. Quello che accomuna le diverse ipotesi è il fatto che il gesto omicidiario è accompagnato da manifestazioni evidenti di possesso e di controllo sulla donna tipiche della cultura patriarcale oppure approfittando di una sua condizione di vulnerabilità, oggettiva o determinata dalla condizione in cui si trova (si pensi ai casi, tutt’altro che rari, di uccisione di donne che si prostituiscono). Si tratta di segnali sintomatici della volontà di esercitare un potere esclusivo sulle donne, tanto più verosimile quando il fatto si realizza nei confronti di una donna con la quale l’agente abbia avuto una relazione affettiva. In questo senso, infatti, il legislatore spagnolo, quando con la Ley Orgánica n. 1/2004 ha voluto rafforzare (anche) la tutela penale delle donne nei confronti della violenza di genere, si è limitato a indicare un aumento della pena minima prevista per i c.d. reati ‘spia’ della violenza (minacce, percosse, lesioni) per i casi nei quali il reato sia commesso da un uomo nei confronti di una donna con la quale avesse o avesse avuto una relazione sentimentale: in questi casi, infatti, la violenza è stata ritenuta, fino a prova contraria, espressione di un esercizio di potere, di chiara impronta machista.

 

7. Con riguardo, infine, al trattamento sanzionatorio del nuovo reato di femminicidio, la proposta di legge, volendo rafforzare la tutela delle donne nei confronti di questo fenomeno così diffuso e persistente, indica la pena dell’ergastolo come pena base, consentendone peraltro la riduzione nella reclusione non inferiore a 24 anni in presenza di una circostanza attenuante (dichiarata prevalente se in concorso con circostanze aggravanti) e non inferiore a 15 anni qualora le attenuanti (eventualmente prevalenti) siano due o più. Considerando che la pena dell’ergastolo – che anche io, come tanti, vorrei vedere eliminata dal nostro sistema penale – è la pena più grave disponibile e che già è contemplata per le ipotesi aggravate di omicidio – che di regola ricorrono nei casi di femminicidio –, la scelta del Governo può considerarsi ponderata e apparentemente ragionevole alla luce del maggior disvalore che presenta il femminicidio rispetto all’omicidio comune, proprio per la ragione culturale, diffusa e difficile da contrastare, che lo motiva; l’obiettivo evidente è del resto quello di contrastare sentenze di condanna giudicate troppo indulgenti e dovute per lo più – per quanto emerge dalle motivazioni di alcune di esse – a quella inconsapevole legittimazione dei valori culturali del patriarcato (è il caso, ad esempio, dei riferimenti alla gelosia, all’amore non ricambiato, alla scarsa sensibilità della donna o alla sua forte personalità, etc.), che riduce l’effetto deterrente che vorrebbe avere l’attuale previsione della pena dell’ergastolo. Non si interviene invece sulla discrezionalità del giudice in sede di giudizio di bilanciamento – come ha fatto il Codice Rosso nel 2019, in modo discutibile e in gran parte corretto dalla Corte costituzionale – limitandosi soltanto l’entità della pena che può essere inflitta a seguito di un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti ricorrenti nel caso concreto (consentendo di pervenire anche a una pena di 15 anni di reclusione).

 

8. Un’ultima riflessione merita infine la necessità di procedere a un coordinamento con le circostanze aggravanti oggi contemplate per il delitto di omicidio negli articoli 576 e 577 c.p., delle quali la proposta del Governo si limita a disporre l’applicabilità. In particolare, qualora si volesse inserire nella formulazione della fattispecie il riferimento alla relazione affettiva, come uno dei contesti nei quali l’uccisione della donna assume, fino a prova contraria, i connotati tipici del reato di femminicidio – sul modello adottato dal legislatore spagnolo nel 2004 nonché, più di recente, con la riforma dei reati sessuali del 2022 –, sarebbe necessario riconsiderare le aggravanti inserite con la legge 4/2018 (e poi modificate con il Codice Rosso) all’interno dell’art. 577 comma 1 n. 1 e comma 2 c.p. Queste aggravanti, tra l’altro, pur essendo state introdotte in ossequio a quanto richiesto dalla Convenzione di Istanbul (art. 46) e quindi nella prospettiva di rafforzare la tutela delle donne nei confronti della violenza di genere e della violenza domestica (che ne è una delle principali manifestazioni), non distinguono il sesso della vittima, tanto da risultare ingiustamente afflittive quando debbano essere applicate a una donna che sia arrivata a uccidere il partner violento, senza che le sia riconosciuta la legittima difesa e, viceversa, incapaci di offrire una maggiore tutela alle donne, vittime di omicidio (e degli altri reati richiamati dall’art. 585 c.p.), per il loro carattere generale. L’intervento normativo oggi all’esame della Commissione Giustizia del Senato potrebbe allora offrire l’occasione per correggere questa situazione, eliminando quelle aggravanti dall’art. 577 c.p., se la relazione affettiva è già valorizzata nella nuova figura del femminicidio e non si ritiene necessario mantenerla in vita nella versione attuale, oppure ripensandone i contorni.

 

[1] Le citazioni sono tratte da sentenze di condanna pronunciate dal Tribunale di Milano nell’anno 2022. La loro consultazione è stata resa possibile dal dott. Fabio Roia, oggi Presidente del Tribunale di Milano, che si ringrazia per la disponibilità e la costante collaborazione.