Riflessioni e proposte per uscire dall’impasse della riforma Bonafede
1. La riforma della prescrizione del reato è ormai da giorni tema centrale del dibattito politico e dei principali attori della giustizia penale: i magistrati, riunitisi a Genova alcuni giorni fa per il congresso nazionale della Associazione Nazionale Magistrati[1], e gli avvocati penalisti, che attraverso l’Unione delle Camere Penali Italiane hanno indetto una astensione dalle udienze e promosso svariate iniziative per manifestare contro la riforma[2].
Approvata con l. 9 gennaio 2019, n. 3 (nell’ambito della c.d. l. spazza-corrotti), con previsione dell’entrata in vigore differita al 1° gennaio 2020, la riforma, voluta dal Ministro della Giustizia Bonafede, è tanto semplice quanto dirompente, almeno in un sistema, come il nostro, nel quale da sempre la prescrizione del reato è possibile a processo in corso: la l. n. 3/2019 infatti blocca il corso della prescrizione del reato dopo il primo grado di giudizio, quale che ne sia l’esito (condanna o assoluzione). I reati non potranno più prescriversi nei giudizi d’appello o per cassazione.
L’imminenza dell’entrata in vigore della riforma ha riacceso il dibattito che ne ha accompagnato l’approvazione, un anno fa. Pur nell’ambito di posizioni articolate, presenti all’interno dei mondi della magistratura, dell’avvocatura, dell’accademia e della politica, si fronteggiano in sostanza due visioni contrapposte.
Da un lato, chi sostiene la riforma mira a ridurre il numero dei reati che cadono in prescrizione – nei giudizi successivi all’impugnazione – assicurando, quando e se ve ne siano i presupposti, l’affermazione di responsabilità di quanti vengano riconosciuti colpevoli all’esito di un processo già in stato avanzato, che si vuole evitare vada in fumo, assieme alle aspettative di giustizia delle vittime.
Dall’altro lato, chi auspica l’affossamento della riforma paventa un processo “senza fine”: senza la prospettiva della prescrizione del reato – che nella realtà assolve all’improprio ruolo di metronomo del processo – i giudizi d’impugnazione potrebbero durare all’infinito e gli imputati (anche gli assolti in primo grado) potrebbero diventare eterni giudicabili. Ne risulterebbero così calpestati fondamentali principi quali la ragionevole durata del processo, il diritto di difesa, la presunzione d’innocenza e la finalità rieducativa della pena, incapace di realizzare l’obiettivo della risocializzazione quando sia eseguita a eccessiva distanza dal fatto, nei confronti di una persona che, per effetto del decorso del tempo, non è più la stessa[3].
2. In un’epoca in cui siamo assuefatti alla retorica populistica, è forte la tentazione di ridurre le posizioni in campo alla contrapposizione tra giustizialisti e garantisti, che si presenta come una suadente chiave di lettura del dibattito sulla riforma della prescrizione. Senonché a me pare che, pur cogliendo forse alcune sensibilità di fondo, la contrapposizione tra giustizialismo e garantismo semplifica eccessivamente (banalizza), quando non falsifica addirittura le posizioni in campo – quanto meno nel dibattito tra i giuristi –, finendo per lasciare nell’ombra una realtà complessa. Intendo dire, anticipando le mie conclusioni, che come saggezza insegna, “la ragione sta nel mezzo” e non nelle posizioni estreme; la soluzione migliore, tecnicamente e politicamente, va cioè cercata nel punto di equilibrio tra le esigenze, tutte legittime, rappresentate dai c.d. garantisti (i processi non siano infiniti) e dai c.d. giustizialisti (i processi avviati si concludano e non si frustri tanto il lavoro della macchina della giustizia quanto la domanda di giustizia delle vittime). A me pare che un simile punto di equilibrio sia possibile e vada individuato al più presto nell’ambito della mediazione politica, ricorrendo al sapere dei giuristi, teorici e pratici, peraltro già condensato in alcuni progetti di riforma elaborati negli anni passati, che potrebbero essere ripresi in esame (penso ad esempio ai lavori delle commissioni Riccio, Fiorella e Gratteri). Un’ipotesi, che abbozzerò nella parte conclusiva, è di introdurre termini di fase dei giudizi di secondo e terzo grado, agganciati a una prescrizione processuale ma sganciati dal termine di prescrizione del reato, il cui decorso resterebbe bloccato dopo la sentenza di primo grado. Le lancette della prescrizione del reato si fermerebbero, in quel momento, e inizierebbe a decorrere il timer dei giudizi d’impugnazione, che l’ordinamento deve ragionevolmente contenere entro termini certi e ragionevoli.
Non condivido invece l’opinione di chi propone di sopprimere la riforma[4]; non perché penso che si tratti della migliore delle riforme possibili, ma perché penso che, pur non priva di difetti, rappresenti un’imperdibile occasione per superare un dogma: la normalità della prescrizione del reato a processo in corso e, in particolare, nei giudizi conseguenti all’impugnazione. E sono altresì convinto che il superamento di quel dogma – un autentico cambio di paradigma per il nostro sistema – debba essere accompagnato da interventi normativi volti, da un lato, a garantire la durata ragionevole dei giudizi d’impugnazione (con le modalità alle quali ho accennato), e, dall’altro lato, ad introdurre rimedi compensativi per l’eventuale irragionevole durata del processo, ulteriori rispetto a quello pecuniario previsto dalla legge Pinto. Tutto ciò passa attraverso il superamento di un vero e proprio ostacolo culturale, qual è, nel nostro Paese, quello di considerare la prescrizione del reato un normale fattore di accelerazione del processo penale e un normale rimedio compensativo contro l’irragionevole durata del processo.
3. Proverò di seguito ad articolare meglio il mio pensiero, richiamando per accenni, qui e di seguito, riflessioni che in parte ho già più diffusamente svolto in due contributi pubblicati su Diritto penale contemporaneo[5], in un lavoro pubblicato sulla Rivista italiana di diritto e procedura penale[6] e in una nota che ho redatto per un’audizione parlamentare, nel corso dei lavori preparatori della l. n. 3/2019.
4. Muovo da un punto fermo, che mi pare sia oggi ai margini di un accesso dibattito, tutto incentrato sul problema di un processo che, senza prescrizione (in appello e in Cassazione), sarebbe “senza fine”. Il punto fermo deve essere rappresentato dalla consapevolezza che il sistema penale è affetto da due patologie diverse:
a) l’elevato numero dei reati che cadono in prescrizione a procedimento penale in corso;
b) l’eccessiva durata media del processo penale.
La prima patologia, assicurando l’impunità a un numero indeterminato di colpevoli, mina l’efficacia del sistema, già in chiave preventiva, e, correlativamente, frustra le esigenze di tutela dei beni giuridici e delle vittime dell’offesa (come ci ricordano periodicamente i report di organismi internazionali, ad es. in tema di corruzione, e come è emerso in materia di interessi finanziari dell’U.E. con il caso Taricco).
La seconda patologia, invece, compromette l’efficienza del processo penale: la sua capacità di produrre giustizia (accertare fatti e responsabilità) in tempi ragionevoli, rispettando diritti e garanzie dei soggetti coinvolti: dell’imputato, in primis, ma anche della vittima e dei danneggiati dal reato.
Nel dibattito in corso in questi giorni mi pare che siano rimasti in secondo piano alcuni dati, che qui richiamo.
4.1. I numeri del fenomeno-prescrizione. - Secondo dati relativi al 2017, resi disponibili dal Ministero della Giustizia nel corso dei lavori preparatori della riforma[7], la prescrizione del reato ha rappresentato in quell’anno l’esito del 9,4 % del totale dei procedimenti penali. Ciò significa che in Italia un procedimento penale ogni dieci viene avviato e celebrato inutilmente.
Quanto alle fasi, in circa la metà dei procedimenti la prescrizione è intervenuta durante le indagini preliminari e, comunque, in una fase antecedente al dibattimento di primo grado. In circa un quarto dei procedimenti la prescrizione è maturata durante il giudizio di primo grado. Nel restante quarto dei procedimenti la prescrizione è maturata durante il giudizio di appello e (in minima parte) durante il giudizio di cassazione.
Particolarmente significativi sono i dati relativi all’incidenza della prescrizione del reato nei diversi gradi di giudizio (cioè il rapporto tra i procedimenti definiti con la declaratoria di prescrizione del reato, rispetto al complesso dei procedimenti definiti in altro modo nello stesso grado di giudizio). Quei dati rivelano (ed è un dato costante negli anni precedenti) che l’incidenza maggiore della prescrizione si determina nel grado di appello, dove il 25% dei procedimenti riguarda reati per i quali è sopravvenuta la prescrizione. Mentre l’incidenza della prescrizione del reato in Cassazione è quasi irrilevante (1,2% dei procedimenti), ed è poco significativa nel giudizio di primo grado (8,8% dei procedimenti), nel grado di appello il fenomeno ha dimensioni patologiche: un procedimento ogni quattro si conclude con la declaratoria di prescrizione del reato. Il che significa che un procedimento ogni quattro, per il quale sono state svolte le indagini e si è celebrato l’intero giudizio di primo grado, oltre a una parte del giudizio di secondo grado (magari quasi tutto), risulta di fatto inutilmente celebrato, con dispendio di risorse pubbliche – enorme a fronte di procedimenti penali particolarmente complessi – e mancata affermazione o negazione delle responsabilità accertate (o escluse) nel precedente grado di giudizio. È evidente che il fenomeno segnala un elevato grado di inefficacia del processo di appello e produce ingiustizia, soprattutto per le vittime (gli imputati, infatti, possono rinunciare alla prescrizione del reato, come stabilisce l’art. 157, co. 7 c.p.; le vittime non possono fare altro che subirla).
Se la prescrizione del reato ha dimensioni patologiche, è per via di disfunzioni del sistema penale e del procedimento penale. Un conto è la prescrizione che si verifica perché i reati non vengono mai accertati (la relativa cifra è oscura) o vengono scoperti a distanza di anni, quando non è più possibile, proprio per effetto della prescrizione, avviare un procedimento penale. In questi casi, il tempo dell’oblio è trascorso ed è venuto meno l’interesse dello Stato, e della società, a perseguire fatti lontani nel tempo, commessi da persone che non avrebbe senso punire perché non sono più le stesse e che incontrerebbero d’altra parte enormi difficoltà a raccogliere elementi utili per difendersi, a distanza di anni. Un altro conto è invece la prescrizione del reato che si verifica quando la notitia criminis è stata tempestivamente acquisita, a seguito di una denuncia o di una querela, e un procedimento penale è in corso, magari prossimo alla conclusione. In questo secondo caso la prescrizione ha per lo più il sapore dell’ingiustizia (talora della vera e propria beffa) e, come ha ricordato in questi giorni un noto magistrato[8], può dar luogo a disparità di trattamento tra gli imputati: “Una condanna in primo grado, frutto di laboriosa istruttoria, può cadere nel nulla solo per il dilatarsi dei tempi nel processo di appello. Le sorti di un imputato finiscono per sganciarsi dalle sue responsabilità e per dipendere dalle evenienze più disparate. Ad esempio: l’espletamento di una nuova perizia; il numero dei coimputati; la presenza di avvocati più abili a formulare impugnazioni pretestuose o richieste ostruzionistiche; la designazione di un giudice con un maggiore carico di lavoro o che non ha organizzato a dovere la sua attività. Insomma, chi vuole lasciare le cose come stanno, accetta una casualità foriera di odiose diseguaglianze. E limitarsi a dire che la prescrizione è il “farmaco” per la malattia cronica del processo (la sua lentezza), rischia di suonare come un alibi”.
I dati che ho riportato ci dicono che massima è l’incidenza della prescrizione del reato nella fase delle indagini preliminari. Le procure italiane sono letteralmente ingolfate e la prescrizione del reato – ad onta del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale – rappresenta nei fatti un improprio strumento per sfoltire il carico dei procedimenti, destinando alla morte i fascicoli che rimangono negli armadi. Significativa è anche l’incidenza della prescrizione nel giudizio di primo grado, mentre patologica è l’incidenza del fenomeno nel giudizio di appello. La riforma Bonafede non risolverebbe il problema in radice: impedendo la prescrizione in appello taglierebbe il numero dei reati che ogni anno si prescrivono di circa il 25%, eliminando la patologia nella fase processuale in cui presenta la maggiore incidenza. La riforma produrrebbe nei giudizi di secondo e di terzo grado effetti ulteriori rispetto a quelli (che nessuno ad oggi ha stimato) realizzati dalla riforma Orlando del 2017, che attraverso il meccanismo della sospensione per fase ha dato 3 anni in più di tempo per celebrare quei giudizi. Hanno ragione i critici della riforma a dire che non risolverebbe il problema; contribuirebbe però in misura significativa a farlo e, come tornerò a dire, avrebbe effetti positivi sulla riduzione del numero delle impugnazioni (che non potrebbero più avere di mira la prescrizione del reato) e sulla scelta dei riti alternativi (ben più appetibili in essenza della prospettiva di una prescrizione del reato a processo in corso), con complessivi effetti benefici sul sistema nel suo complesso, in chiave di deflazione e quindi anche e proprio in rapporto alla durata del processo.
4.2. I numeri del fenomeno-lentezza del processo. – Nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi anni, a livello tanto normativo (ad es., depenalizzazione, sospensione del procedimento con messa alla prova, esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, estinzione del reato per condotte riparatorie), quanto di riorganizzazione degli uffici giudiziari (penso ad es. al modello della Corte d’Appello di Milano o a quello della Corte di cassazione), i procedimenti penali continuano ad essere troppi, in rapporto alla capacità di gestione del carico giudiziario, e continuano ad essere di durata media eccessivamente lunga. L’ultimo monitoraggio della giustizia penale, pubblicato dal Ministero della Giustizia e relativo al I semestre del 2019, ci dice che i procedimenti penali pendenti, a livello nazionale, sono circa un milione e mezzo; ed è lo stesso dato rilevato dieci anni fa.
Sempre secondo i dati del Ministero della Giustizia[9], nel 2017 la durata media del processo penale è stata nel giudizio di appello pari a 901 giorni (due anni e mezzo!) mentre, nel giudizio di primo grado, ha oscillato tra i 707 giorni in caso di rito collegiale e i 534 giorni in caso di rito monocratico.
Che il nostro sistema della giustizia penale debba fronteggiare un serio problema di lentezza del processo è d’altra parte confermato dall’ultimo report della Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (CEPEJ), costituita nell’ambito del Consiglio d’Europa[10]. Il giudizio penale di primo grado dura in Italia più che in ogni altro paese (la media europea è di 138 giorni). Il giudizio penale d’appello solo a Malta dura di più, a fronte di una media europea di 143 giorni[11].
Sono dati imbarazzanti: evidenziano un serio problema di durata del processo penale nel nostro sistema, che mostra peraltro segni di particolare efficienza solo in alcuni distretti di Corte d’Appello – come a Milano, dove nel 2017 la durata dei processi in appello (450 giorni) è stata pari alla metà rispetto alla media nazionale registrata nell’anno precedente, ed è scesa a attorno ai 110 giorni (meno della media europea) nei processi con detenuti[12] – e in Cassazione, dove la durata media del processo, nel 2018, è stata di soli 180 giorni (la più bassa, nel giudizio di terzo grado, dal 2008 ad oggi)[13].
È del tutto conseguente che, secondo i più recenti dati del Ministero della Giustizia, i processi “a rischio Pinto”, cioè a rischio di irragionevole durata, sanzionata dalla nota Legge, con pesanti costi per il Paese e corrispondente violazione di diritti per i cittadini, è del 39,4% nel giudizio di appello, del 19% nel giudizio di primo grado, mentre è solo del 1,3% in Cassazione[14]. La stima è realizzata calcolando, sul numero dei procedimenti pendenti nei diversi gradi di giudizio, quelli che non sono stati definiti entro i termini previsti dalla legge e per i quali i soggetti interessati potrebbero richiedere allo Stato un risarcimento per “non ragionevole” durata. I termini di ragionevole durata, per fase, sono individuati dall’art. 2 della c.d. legge Pinto (l. 24 marzo 2001, n. 89) e sono pari a 3 anni per il giudizio di primo grado, due anni per il giudizio di appello e un anno per il giudizio per cassazione. Complessivamente, ai sensi dell’art. 2, co. 2 ter l. n. 89/2001, “si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni”.
La situazione ora descritta, si noti, è maturata in un contesto in cui la prescrizione del reato contribuisce in misura rilevante allo sfoltimento dei procedimenti pendenti. Sicché potrebbe paventarsi – come in effetti fanno molti dei critici della riforma Bonafede – un peggioramento della situazione a fronte di una prescrizione bloccata dopo il primo grado di giudizio. Senonché, non necessariamente la durata ragionevole del processo è determinata dal rischio della prescrizione del reato. Basti pensare alla realtà della Germania, un paese in cui la prescrizione, tanto in caso di condanna quanto in caso di assoluzione, è bloccata dopo il primo grado di giudizio, proprio come prevede la riforma Bonafede. Ebbene, in quel paese, tenuto, al pari del nostro, al rispetto del vincolo della ragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 6 Cedu, la durata media del processo d’appello è stata nel 2016 pari a 127 giorni, contro un dato italiano pari a 876 giorni, cioè a quasi sette volte tanto! È la dimostrazione che la ragionevole durata del processo ben può e deve essere assicurata attraverso interventi strutturali e di sistema: non già facendo leva sulla patologia della prescrizione del reato. D’altra parte, va ricordato che esistono nel nostro ordinamento reati imprescrittibili (quelli puniti con l’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti: art. 157, ult. co.), i cui procedimenti penali sono insensibili al fattore-prescrizione: non mi risulta, tuttavia, che rispetto ad essi si sia mai parlato di processi “senza fine” e siano stati sollevati dubbi di legittimità costituzionale come quelli prospettati in rapporto alla riforma Bonafede. E va ricordato altresì, per considerazioni analoghe, che esistono reati che possono essere imprescrittibili di fatto, non ponendo la legge in rapporto ad essi alcun limite al prolungamento del tempo necessario a prescrivere in presenza di atti interruttivi (ai sensi dell’art. 161, co. 2 c.p., si tratta dei reati di cui all’art. 51, co. 3 bis e 3 quater c.p.p.).
5. Le posizioni contrapposte, nel dibattito sulla riforma della prescrizione, mettono in evidenza esigenze che a mio avviso hanno pari dignità: quella di consentire che i processi avviati si concludano, senza inutile dispendio di risorse, in modo da accertare fatti e responsabilità, in funzione della tutela dei beni giuridici e delle vittime che ne portano il peso dell’offesa; quella di non rinunciare alle garanzie del processo penale, a partire dalla sua ragionevole durata. La dialettica tra i c.d. giustizialisti e i c.d. garantisti – insisto solo come espediente retorico a ricorrere a questa semplificazione – è a ben vedere la dialettica tra chi mette in primo piano l’effettività e l’efficacia del diritto e del processo penale, inteso come luogo dell’accertamento delle responsabilità, da un lato, e chi, dall’altro lato, guarda al processo penale come luogo delle garanzie per l’imputato, rispetto alle quali le ragioni di efficienza e di efficacia della macchina giudiziaria sono in secondo piano.
A me pare, come anticipavo, che la ragione vada cercata nel mezzo. Il processo penale ha una valenza necessariamente ancipite: nel nostro sistema costituzionale, è luogo dell’accertamento dei fatti e delle responsabilità – condizione per l’esercizio della potestà punitiva da parte dello Stato –, ed è allo stesso tempo – deve essere – luogo delle garanzie per l’imputato. Il processo non può essere senza fine e l’imputato non può essere eterno giudicabile. Lo impone chiaramente la Costituzione, attraverso l’enunciazione del principio della ragionevole durata (art. 111, co. 2), che accorda a chi vi è sottoposto una fondamentale garanzia, assurta al rango di diritto fondamentale nell’art. 6 Cedu. Il processo deve essere efficace (capace di produrre giustizia), ma mai a detrimento delle fondamentali garanzie di chi vi è sottoposto. Su questo non si può essere in disaccordo: il processo penale oltre che efficace deve essere efficiente (anche nell’interesse delle vittime), e l’efficienza va commisurata, tra l’altro, alla sua durata.
6. Come ho cercato di mostrare in altra sede, ragionare in termini di esigenza di efficacia e di efficienza del processo penale è particolarmente utile per inquadrare le questioni oggi al centro del dibattito sulla prescrizione[15]. Quel dibattito è infatti viziato da un equivoco di fondo: la sovrapposizione e la confusione di problemi diversi quali la prescrizione del reato, da un lato, e la ragionevole durata del processo, dall’altro lato. Chi oggi auspica che il decorso della prescrizione non si blocchi dopo il primo grado del giudizio, paventando un processo “senza fine”, manifesta una preoccupazione certamente non infondata ma finisce, a me pare, per assegnare alla prescrizione del reato un ruolo determinante – di sistema – per garantire la ragionevole durata del processo. Senonché la prescrizione del reato (alla quale, nessuno lo ricorda, si può rinunciare) è istituto che ha una ratio affatto diversa e che, a processo in corso, altro non è se non una patologia del sistema, come lo è la lentezza del processo. Un male non può rappresentare la cura di un altro male. Se la prescrizione del reato agisce di fatto come metronomo del processo, determinandone i tempi (mi riferisco anche solo alla fissazione delle udienze), è dovuto a una disfunzionalità del sistema.
Le rationes della prescrizione del reato attengono d’altra parte a tutt’altro che all’impropria funzione di metronomo del processo penale. Riguardano l’affievolirsi delle esigenze che giustificano la punizione e rendono possibile il perseguimento del fine della rieducazione, trascorso un certo tempo dalla commissione del reato (il c.d. tempo dell’oblio, che non arriva mai per i reati imprescrittibili). Hanno a che vedere con le difficoltà di ricostruzione probatoria del fatto, a distanza di tempo, con ripercussioni negative sul diritto di difesa. Si tratta di rationes plausibili se riferite al lasso di tempo che va dalla commissione del fatto all’attivarsi della pretesa punitiva dello Stato; non anche se riferite a un tempo successivo a quello del rinvio a giudizio dell’imputato[16]. Che il decorso della prescrizione continui anche a processo in corso, quando attraverso il procedimento penale lo Stato manifesta il suo interesse ad accertare fatti e responsabilità, e il tempo dell’oblio non è maturato, è altamente discutibile. Tanto è vero che esistono paesi, del tutto civili, nei quali ciò non avviene (è il caso della Germania, dopo il giudizio di primo grado). D’altra parte, è del tutto intuibile perché la rinuncia della pretesa punitiva dello Stato sia socialmente accettata a fronte di un reato che si scopre solo a distanza di molti anni, quando l’autore è una persona diversa, e non anche in relazione a un reato che l’autorità giudiziaria sta accertando, essendosi già pronunciata in un primo grado di giudizio. L’impugnazione della decisione resa all’esito del primo grado di giudizio si giustifica per la verifica della sua correttezza e, a fronte delle rationes di cui si è detto, non può ragionevolmente avere nulla a che fare con le lancette della prescrizione.
Che dire, d’altra parte, dei reati imprescrittibili (quelli puniti con l’ergastolo, anche per effetto di circostanze aggravanti)? Forse la relativa previsione è incostituzionale per violazione dei principi oggi invocati da chi paventa il processo “senza fine” con il blocco della prescrizione dopo il primo grado? E che dire dei reati di cui all’art. 51 co. 3 bis e 3 quater c.p.p., di fatto imprescrittibili (art. 161, co. 2 c.p.), per i quali il decorso della prescrizione non incontra limiti massimi, a seguito di effetti interruttivi? Anche in questi casi siamo già, de iure condito, di fronte ad altrettanti processi “senza fine”?
Ancora, come non riconoscere che, con una prescrizione possibile nei giudizi successivi a quello di primo grado, un certo numero di impugnazioni è strumentale ad ottenere la prescrizione del reato e finisce per ingolfare la macchina giudiziaria incidendo negativamente sulla complessiva speditezza del processo penale? E come non riconoscere altresì che la prospettiva della prescrizione del reato, a processo in corso, abbia rappresentato un forte disincentivo all’accesso ai riti alternativi, sui quali il codice del 1988 così tanto aveva puntato? Perché mai dovrei patteggiare la pena se posso fare affidamento sulla prescrizione del reato, in appello o in Cassazione?
7. A me pare che l’enfasi posta anche in questi giorni sul ruolo nefasto del blocco della prescrizione dopo il primo grado, per quanto animata dalla nobile intenzione di mettere in guardia contro il pericolo di processi irragionevolmente lunghi, rischi di santificare la prescrizione del reato, che invece è e resta un male: con le parole impiegate alcuni anni fa da Giorgio Marinucci, all’epoca della legge ex Cirielli, è “un cancro che si diffonde anno dopo anno nel corpo del sistema penale italiano”[17]. Un cancro che va arginato per non dare l’impressione di un sistema penale che produce in buona misura certezza d’impunità (specie per i reati dei colletti bianchi) e offrire così il destro a chi, ai tempi del populismo penale, proponga riforme volte a irrigidire ulteriormente il sistema, allontanandolo dall’ideale dell’extrema ratio. Non è un caso che la riforma di cui parliamo sia stata inserita in una legge chiamata…spazza-corrotti!
Non posso fare a meno di nascondere un po’ di stupore confrontando il clima di questi giorni con quello che abbiamo respirato all’indomani di declaratorie di prescrizione del reato nell’ambito di processi di particolare rilievo pubblico e mediatico (penso ad es. al caso Eternit e al caso del disastro di Viareggio); oppure con le analisi che hanno accompagnato la pubblicazione di report di organismi internazionali che (come nel caso della corruzione), hanno denunciato anche nel recente passato l’ineffettività della tutela penale apprestata in Italia nei confronti di questo o quell’interesse, in ragione degli elevati indici di prescrizione del reato, che negli anni 90’ falcidiarono i processi di Tangentopoli[18]. Lo stupore è però ancor maggiore se si confronta il clima di questi giorni con il clima che accompagnò il varo della riforma della prescrizione del reato realizzata con la legge ex Cirielli. All’epoca, segnata da leggi ad personam e dalla morte del falso in bilancio, destinato alcuni anni prima a prescrizione certa attraverso la mitigazione del trattamento sanzionatorio, muovevo i primi passi nell’accademia e ho il ricordo chiaro del clima di unanime condanna del mondo accademico nei confronti della prescrizione del reato a processo in corso, facilitata da una riforma che ha fortemente ridotto i termini della prescrizione. Mi limito a ricordare quel che scrissero i miei maestri (sideralmente lontani da ogni forma di giustizialismo o di populismo penale). Giorgio Marinucci, promuovendo alcuni anni dopo un appello contro la “prescrizione breve”, firmato da cento professori e pubblicato su Diritto penale contemporaneo, ricordò che giuristi del calibro di Giuliano Vassalli – non populisti dell’ultim’ora – sottolineavano come alla domanda di “certezza della pena”, da parte dell’opinione pubblica, la legge ex Cirielli aveva risposto offrendo “certezza d’impunità”[19]. Emilio Dolcini così commentava la ex Cirielli: “rischia di rappresentare una vera e propria pietra tombale sull'auspicato recupero di certezza della pena: ai potenziali autori di reati la nuova legge trasmette infatti una rassicurante promessa di impunità”[20].
8. Se siamo arrivati alla legge blocca-prescrizione, è perché la prognosi che la dottrina fece dopo la legge ex Cirielli è stata corretta, e movimenti di protesta, che hanno ottenuto nelle ultime elezioni politiche un largo consenso, hanno voluto rispondere in qualche modo alla domanda di recupero di effettività del sistema penale, diffusa nell’opinione pubblica. È una domanda legittima, alla quale la legge 3/2019 fornisce una risposta: non la migliore delle risposte (la maggior parte dei reati cade in prescrizione prima che sia concluso il giudizio di primo grado), ma pur sempre una risposta, più radicale di quella data con la riforma Orlando del 2017, che pure era animata dal medesimo obiettivo: ridurre l’incidenza della prescrizione dopo il primo grado (attraverso il meccanismo della sospensione, che a ben vedere finisce per allungarne la durata del processo).
D’altra parte, il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio non è un’eresia: è previsto in Germania (§ 78b, co. 3 StGB), è stato proposto nel 2014 dalla Commissione Gratteri, nominata all’epoca del Governo Renzi, è notoriamente una proposta storica della A.N.M.[21]. Se diventasse realtà, tra qualche giorno, produrrebbe nel breve-medio termine ricadute positive sul sistema, riducendo il numero delle impugnazioni e incrementando l’accesso ai riti speciali o ai procedimenti alternativi, quali la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato. Bloccare la prescrizione dopo il grado significa infatti allontanare di molto, in molti casi escludendola, la prospettiva della prescrizione del reato a procedimento penale avviato.
La prospettiva di processi “senza fine”, nei giudizi conseguenti all’impugnazione, nasce da una preoccupazione di cui non disconosco il fondamento, per quanto chi se ne fa portatore non sembra considerare (o comunque sottovaluta il fatto) che il numero dei procedimenti pendenti in secondo e in terzo grado è destinato a ridursi, senza la prospettiva della prescrizione del reato, a beneficio della speditezza del processo.
9. Nell’immediato, a fronte dell’impasse politico che si è determinato, una risposta equilibrata al problema posto dal blocco della prescrizione va opportunamente e prontamente cercata sul piano tecnico, rivalutando le diverse proposte di riforma della prescrizione e del processo penale avanzate negli ultimi anni da parte di esponenti della magistratura, dell’avvocatura e dell’accademia, ovvero proposte nuove, come quelle, tra loro diverse, che proprio sulle pagine di questa Rivista abbozziamo oggi Roberto Bartoli ed io. È fuor di dubbio che sarebbe stato opportuno farlo prima dell’ormai prossima entrata in vigore della riforma – questa essendo la ragione del suo differimento –; ciò non toglie che lo si possa e lo si debba ancora fare, se la legge, come sembra, entrerà in vigore il 1° gennaio 2020.
Penso anzitutto alla previsione di rimedi compensativi per l’irragionevole durata del processo, in caso di condanna, diversi dal mero risarcimento pecuniario, secondo il modello tedesco, seguito dalla Commissione Gratteri. Il processo è di per sé una pena, sicché la sua irragionevole durata rappresenta una sorta di pre-sofferto valutabile in termini di riduzioni di pena[22].
Penso anche a ulteriori interventi strutturali, necessari per affrontare in radice la patologica lentezza del processo: più risorse umane (magistrati e ausiliari), migliore organizzazione degli uffici giudiziari, informatizzazione, semplificazione delle notificazioni, riduzione del numero complessivo dei procedimenti penali attraverso interventi mirati di depenalizzazione, ampliamento delle ipotesi di procedibilità a querela e dell’accesso alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, e a molto altro ancora.
Penso infine – e potrebbe essere questa a ben vedere la soluzione di compromesso – all’introduzione di termini di fase per i giudizi di appello e di cassazione, che potrebbero essere di non molto superiori (ad es., di un anno) a quelli previsti dalla legge Pinto per la ragionevole durata di quei gradi di giudizio (lo ricordo: due anni per il giudizio di appello e un anno per il giudizio di cassazione). L’introduzione di una prescrizione processuale – idea rilanciata in questi giorni, tra gli altri, da Edmondo Bruti Liberati[23] – rappresenterebbe, da un lato, una risposta soddisfacente per quanti paventano il rischio di processi “senza fine” e, dall’altro lato, consentirebbe di azzerare le lancette della prescrizione, all’inizio del secondo grado di giudizio, grazie al meccanismo originario della legge Bonafede, dando tempo e modo all’autorità giudiziaria di organizzarsi per concludere il processo entro tempi che dovrebbero essere prossimi a quelli (ragionevoli) previsti dalla legge Pinto.
Si potrebbe ad esempio proporre un termine di tre anni per l’appello e di due anni per il giudizio per cassazione. La prima sanzione per l’irragionevole durata colpirebbe il sistema sub specie di risarcimento pecuniario e, volendo, di riduzione della pena in caso di condanna, come nel modello tedesco; la seconda sanzione, processuale, sarebbe in progressione cronologica (al terzo anno, in appello, e al secondo anno, in Cassazione) e determinerebbe l’improcedibilità.
Se fosse questa la soluzione, si dovrebbe scommettere e investire sulla capacità del sistema di organizzarsi in modo tale da gestire in tempo il carico giudiziario, replicando ad esempio modelli sviluppati nel recente passato presso la Corte di cassazione e presso alcune corti d’appello: modelli che testimoniano come, negli uffici giudiziari, il fattore-organizzazione abbia un ruolo e un peso decisivo. E solo se la scommessa risulterà vinta, si potrà nondimeno ottenere l’effetto utile cercato dalla l. n. 3/2019, rappresentato dal disincentivo alle impugnazioni pretestuose (che avrebbero di mira non più la prescrizione del reato, ma la prescrizione del processo) e dall’incentivo ai riti alternativi.
10. Prima di concludere, un’ultima considerazione: a me pare che la polemica in corso tra le posizioni antagoniste stia lasciando in secondo piano un profilo importante, nella prospettiva più generale della politica del diritto penale. Piaccia o meno, il Parlamento ha approvato un anno fa la riforma della prescrizione del reato, con una legge che è stata promulgata dal Presidente della Repubblica dopo averne vagliato la non manifesta contrarietà a principi costituzionali. Inopinatamente, tuttavia, la legge ha differito di un anno l’entrata in vigore della riforma; e lo ha fatto, come è noto, per effetto di un compromesso politico che allora fu decisivo e che oggi, a maggioranza parlamentare e di governo cambiata, è inattuale e deve essere ridiscusso. Differire l’entrata in vigore di riforme destinate a incidere così fortemente sulla giustizia penale – sui beni, sui diritti e sulle garanzie in essa coinvolti – è altamente inopportuno: è una lezione che, a me pare, si deve trarre dalla riforma della prescrizione del reato, quale che ne sarà l’esito. Quale sarà l’assetto della disciplina della prescrizione del reato, tra poco meno di un mese, è oggi incerto, il che non mi sembra francamente accettabile.
Il differimento di un anno della riforma fu come è noto imposto dalla Lega al Movimento 5 Stelle per incassare subito l’approvazione della legge sulla legittima difesa, salvo poi dare avvio alla crisi di Governo e al conseguente cambio della maggioranza parlamentare. E il differimento fu motivato in ragione della necessità di realizzare, nelle more dell’entrata in vigore della riforma, un non meglio precisato set di riforme del processo penale, volte a garantirne la ragionevole durata pur dopo il blocco della prescrizione in appello e nel giudizio per cassazione. Senonché, la rottura dell’accordo politico e, in generale, il mutato quadro politico, non hanno consentito di addivenire in tempo ad alcuna riforma del processo penale, nonostante alcuni tavoli di confronto siano stati aperti e alcune proposte, anche articolate, risultino essere state presentate dai rappresentanti della magistratura e dell’avvocatura nell’interlocuzione politica avviata con il Ministero della Giustizia.
La lezione che ne possiamo trarre, a me pare, è la seguente: il differimento dell’entrata in vigore di leggi penali va guardato con sospetto tanto per l’incertezza cui dà luogo – in un’epoca caratterizzata da una più accentuata instabilità politica – quanto, come nel caso di specie, per il fatto di poter celare riforme incomplete. Delle due l’una: o c’è l’accordo per modificare il sistema penale, attraverso scelte consapevoli e condivise, o quell’accordo manca: la via di mezzo – approvare una riforma parziale per incassare subito un risultato politico dal valore simbolico, può sì pagare in termini di consenso elettorale ma è difficilmente compatibile con una politica criminale conforme al canone della ragionevolezza e ai principi del sistema. Riforme destinate a incidere sulla punibilità non possono generare incertezza e pregiudicare tra l’altro, come nel caso di specie, la prevedibilità della disciplina più sfavorevole, che è notoriamente esigenza correlata al principio di irretroattività della legge penale.
Il grado di maturazione (non solo politica, ma anche tecnica) e di completezza di riforme destinate a incidere profondamente sulla giustizia penale deve essere ben diverso. L’auspicio è che ciò sia di lezione, anche per la politica.
[1] Per un estratto della Relazione del Presidente della ANM, relativo al tema della riforma della prescrizione del reato, cfr. L. Poniz, Il “nodo della prescrizione”, in questa Rivista, 2 dicembre 2019.
[2] La delibera dell’UCPI, che il 6 novembre 2019 ha proclamato l’astensione dalle udienze, può leggersi in questa Rivista, 2 dicembre 2019.
[3] Per quest’ultima prospettiva cfr., in particolare, D. Pulitanò, La giustizia penale e il tempo, in questa Rivista, 2 dicembre 2019.
[4] Come si è segnalato sulle pagine di questa Rivista, è l’obiettivo del disegno di legge n. A.C. 2059 (Costa).
[5] Cfr. G.L. Gatta, Una riforma dirompente: stop alla prescrizione del reato nei giudizi di appello e di cassazione, in Dir. pen. cont., 21 gennaio 2019; Id., Prescrizione bloccata dopo il primo grado: una proposta di riforma improvvisa ma non del tutto improvvisata, in Dir. pen. cont., 5 novembre 2018.
[6] Cfr. G.L. Gatta, Sulla riforma della prescrizione del reato, bloccata dopo il giudizio di primo grado, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 2345 s.
[7] I dati riportati nel testo sono richiamati anche in un parere del C.S.M. del 18 dicembre 2018, che può leggersi a questo link.
[8] Cfr. P. Morosini, La prescrizione crea disuguaglianze, Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2014.
[9] Cfr. Monitoraggio della giustizia penale – 2018, in www.giustizia.it, 25 maggio 2018.
[10] Cfr. European Judicial Systems Efficiency and Quality of Justice, CEPJ Studies No. 26, 2018, p. 312.
[11] Cfr. European Judicial Systems Efficiency and Quality of Justice, CEPJ Studies No. 26, 2018, p. 328.
[12] Cfr. la Relazione sull’Amministrazione della Giustizia nel Distretto della Corte d’Appello di Milano, presentata dalla Presidente della Corte d’Appello di Milano, Dott.ssa Marina Anna Tavassi, il 27 gennaio 2018, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un incremento della durata media dei processi (pari a 491 giorni) è stato peraltro registrato nella Relazione presentata il 26 gennaio 2019.
[13] Cfr. l’Annuario statistico 2018 della Corte di Cassazione (tab. 5.1).
[14] Cfr. il Monitoraggio della giustizia penale – 2019 – I semestre, in www.giustizia.it.
[15] Cfr. G.L. Gatta, Sulla riforma della prescrizione del reato, bloccata dopo il giudizio di primo grado, cit., p. 2345 s.
[16] Cfr. F. Viganò, Riflessioni de lege lata e ferenda su prescrizione e tutela della ragionevole durata del processo, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., 2013, n. 3, p. 26; G.L. Gatta, Sulla riforma della prescrizione del reato, bloccata dopo il giudizio di primo grado, cit., p. 2354.
[17] G. Marinucci, La prescrizione riformata, ovvero dell’abolizione del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 976.
[18] Ancora attuale è l’analisi di G. Mannozzi, P. Davigo, La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Laterza, 2007.
[19] Cfr. G. Marinucci, Appello contro la prescrizione ‘breve’: ennesima certezza d'impunità, in Dir. pen. cont., 15 aprile 2011.
[20] Cfr. E. Dolcini, Le due anime della legge “ex Cirielli”, in Corr. Merito, 2006, p. 55 s.
[21] Cfr. L. Poniz, Il “nodo della prescrizione”, cit.
[22] Cfr. F. Viganò, Riflessioni de lege lata e ferenda su prescrizione e tutela della ragionevole durata del processo, cit., p. 34 s.; G.L. Gatta, Sulla riforma della prescrizione, cit., p. 2356 s.
[23] Cfr. l’intervista a D. Milella (“No alla riforma Bonafede, serva una prescrizione per ogni grado del processo”), in www.repubblica.it, 30 novembre 2019.