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  Opinioni  
16 Novembre 2023


Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri o riscrivere i rapporti tra poteri?


1. Parlamento e Ministro della giustizia sembrano muoversi in diverse direzioni. – Mentre sono in corso presso la I Commissione (Affari costituzionali) della Camera dei deputati le audizioni sulle quattro proposte di legge di revisione costituzionale in materia di separazione delle carriere della magistratura giudicante e requirente, presentate da deputati di diversi partiti politici, il Ministro della giustizia in un convegno dichiara che la realizzazione della preannunciata separazione delle carriere sarà “posposta” all’iter dell’altra riforma costituzionale, il premierato elettivo, ed evoca una prospettiva riformatrice molto diversa da quella all’esame del Parlamento, affermando la sua propensione per una legge costituzionale ispirata al sistema britannico dove «il pubblico ministero è indipendente ma è l’avvocato dell’accusa e non ha un potere sulla polizia giudiziaria»[1].

Il minimo comun denominatore delle diverse proposte riformatrici in campo – quella già tradotta nelle proposte di legge di iniziativa parlamentare e quella solo vagamente enunciata, o meglio riesumata, dal Ministro della giustizia – sta nel fatto che entrambe si spingono ben oltre l’obiettivo di divaricare i percorsi professionali di giudici e pubblici ministeri e intendono riscrivere i rapporti tra i poteri dello Stato.

Da un lato, infatti, le proposte di legge costituzionale presentate in Parlamento mirano, come si dirà ampiamente in seguito, a ridefinire, a vantaggio del potere politico, i complessivi equilibri di governo della magistratura, a cancellare la valenza costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e ad annullare il principio per cui i magistrati si distinguono solo in base alle funzioni svolte; con l’effetto di rimettere in discussione le peculiari modalità di attuazione della separazione dei poteri delineate nella Costituzione.   

Dall’altro lato il Ministro Nordio ripropone una formula – quella del pubblico ministero “avvocato dell’accusa” – già contenuta e sviluppata nel disegno di legge presentato il 10 marzo 2009 (A.S. n. 1440) dal Ministro della giustizia del governo Berlusconi, on. le Angelino Alfano.

L’intenzione, ora come allora, è quella di annettere all’esecutivo il concreto esercizio dell’iniziativa penale, riducendo l’ufficio del pubblico ministero a terminale processuale delle forze di polizia, a loro volta sottoposte al comando ed all’impulso dei Ministri dell’Interno, dell’Economia e della Difesa.  

È alla luce di queste attualissime prospettive che va dunque ripercorso e riletto il risalente confronto sulla separazione delle carriere.

 

2. Un confronto irrimediabilmente cristallizzato? – Della separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri si discute nel nostro Paese ormai da decenni; al punto che la contesa tra le diverse e confliggenti opinioni ha finito con l’assumere movenze e caratteri largamente stereotipati.

Nel tempo, infatti, i ragionamenti messi in campo e tante volte ripetuti in favore e contro la scelta “separatista”, hanno acquisito la fissità e la rigidità dei luoghi comuni, divenendo schemi argomentativi pressocchè immutabili ed insensibili tanto ai corposi mutamenti della realtà effettuale nel frattempo intervenuti quanto alle rilevanti novità contenute nelle proposte legislative in tema di separazione delle carriere.

Di qui l’esigenza di un aggiornamento dei termini della discussione e del confronto.

Aggiornamento da compiere ripercorrendo, in estrema sintesi, gli argomenti tradizionali consegnatici dal dibattito del passato per misurarne la validità alla luce delle concrete trasformazioni intervenute nei percorsi professionali di giudici e pubblici ministeri e delle prospettive di modifica delle norme costituzionali in tema di carriere oggi in discussione nelle aule parlamentari.

Una rapida rievocazione della annosa querelle sulla questione delle carriere dei magistrati ci mostra che sono stati tre gli assi principali lungo i quali si è sviluppata una lunga, e spesso accesa, dialettica: la dimensione professionale, gli equilibri e le dinamiche proprie del processo penale, i rapporti tra il giudiziario e le altre istituzioni.

 

2.1.Sul terreno professionale i sostenitori della separazione delle carriere hanno affermato che essa favorirebbe l’utile e necessaria “specializzazione” del pubblico ministero mentre i critici hanno opposto che non è affatto desiderabile una netta differenziazione dei processi formativi e delle conoscenze delle due categorie di magistrati, destinata con ogni probabilità a produrre un giudice privo di una approfondita conoscenza della realtà delle indagini  e un pubblico ministero prevalentemente radicato nella cultura e nelle prassi di polizia.

Al contrario – si è affermato con convinzione – è l’interpretazione di diversi ruoli nel processo ad essere fonte di uno straordinario arricchimento professionale, come dimostrano esperienze storiche, antiche e recenti, nelle quali la circolazione dei ruoli di accusatore, difensore e giudice è stata ed è tuttora regola feconda e preziosa.

In grandi tradizioni giuridiche del passato – come quella romana – o del presente – come quella del pur variegato mondo anglosassone – la circolazione di ruoli tra i diversi attori del giudiziario ha dato risultati positivi, con buona pace di quanti confondono le necessarie specializzazioni nei diversi campi del diritto con la cristallizzazione delle esperienze e dei ruoli nell’ambito del processo.

Nel dramma, o se si vuole nella commedia del processo, quanti più parti si interpretano, quanti più ruoli si giocano, tanto più si apprende, si impara e ci si affina.

Ne erano consapevoli i Romani presso quali i grandi difensori erano soliti esordire con un’orazione d’accusa (si pensi al Contra Verrem di Cicerone), mentre il mondo anglosassone ci offre più moderni esempi di scambio e di osmosi di ruoli professionali fra persone che hanno una cultura e una formazione giuridica comune.

Così che, in particolare negli Stati Uniti, si può esordire come assistenti nell’ufficio del Procuratore, lavorare successivamente come avvocati e giungere, a coronamento della carriera, alla posizione, magari meno remunerata ma ambita e prestigiosa, di giudice.

 

2.2. Sul versante degli equilibri propri del processo penale i fautori della separazione hanno costantemente posto l’accento sulla necessità di recidere il rapporto di colleganza tra giudici e pubblici ministeri.

Solo grazie a questa cesura – si afferma – il giudice potrebbe essere pienamente indipendente rispetto al pubblico ministero e verrebbe scongiurato ogni rischio di un suo pregiudizio favorevole o di subalternità rispetto all’ufficio dell’accusa.

In quest’ottica la separazione delle carriere è vista come il naturale corollario dei principi di imparzialità e terzietà del giudice e di parità delle parti del processo contenuti nell’art. 111, secondo comma, della Costituzione. 

Dal canto loro i difensori dell’unicità delle carriere replicano che, nell’attuale contesto storico, non c’è alcuna evidenza né di un “pregiudizio favorevole” né dell’asserita “subalternità” e, per smentire la tesi avversaria, fanno appello sia ad un dato “quantitativo” – la percentuale di assoluzioni nei processi penali[2] – sia al dato “qualitativo” degli esiti sfavorevoli per il pubblico ministero di processi di eccezionale rilievo su cui grandi Procure avevano molto investito in termini di energie investigative e di immagine.

Terzietà e imparzialità del giudice e parità delle parti nel processo sarebbero caratteri consustanziali al processo penale non intaccati, ed anzi meglio garantiti, dalla presenza di un pubblico ministero pienamente indipendente dal potere politico e tenuto per legge a comportarsi come parte imparziale.

 

2.3. Infine, sul piano delle relazioni del giudiziario con altri poteri ed altre istituzioni, la separazione delle carriere viene rivendicata come indispensabile garanzia contro invasioni di campo e straripamenti di potere delle Procure della Repubblica.

Garanzia ritenuta tanto più necessaria in quanto il venir meno della immunità parlamentare avrebbe accresciuto il rischio di indebiti attriti tra politica e magistratura mentre nell’ambito degli uffici del pubblico ministero non mancherebbero figure di crusading prosecutor, inclini ad interpretare il loro ruolo nella chiave impropria di tutori della morale pubblica. 

Di qui la necessità di rafforzare una “cultura del limite” dell’intervento giudiziario, incarnata da un giudice separato dal pubblico ministero e sottratto ad ogni sua influenza.  

Sull’altro fronte si ribatte che, se vi è bisogno dell’affermarsi di una cultura del limite della giurisdizione penale[3], questa deve essere una cultura “comune” a giudici e pubblici ministeri, giacché un atteggiamento di salutare self-restraint degli attori della giustizia penale non può che scaturire dal costante confronto di esperienze e punti di vista all’interno del corpo della magistratura oltre che con i mondi dell’università e dell’avvocatura .

Del resto, si aggiunge, nel contesto italiano non c’è solo – né è prevalente, anche se annovera qualche ciarliero esemplare – il magistrato del pubblico ministero inquisitore-moralizzatore ma vi è anche un pubblico ministero che si concepisce ed opera come primo garante dei diritti dell’indagato e come partecipe, a pieno titolo, della cultura della giurisdizione: e si tratta di un modello condiviso da una parte ampia della magistratura giudicante e requirente.

Una volta attuata una netta separazione delle carriere, con due organi di governo autonomo differenziati, è difficile prevedere se prevarrebbe il modello più liberale e più aperto di pubblico ministero o quello che si identifica tout court con le polizie che dovrebbe orientare e controllare, ispirandosi apertamente ad una cultura del risultato.

 

2.4. Sullo sfondo di ogni discussione aleggia, comunque, la prospettiva – dagli uni negata, dagli altri insistentemente evocata – dell’assorbimento nella sfera dell’esecutivo di un pubblico ministero separato dal giudice.

Assorbimento che molti degli attuali fautori della separazione delle carriere dicono di non auspicare ma che certo non potrebbe essere escluso a seguito di un distacco dei pubblici ministeri dai giudici, la cui indipendenza è indiscussa e indiscutibile nei moderni Stati di diritto.

È infatti realistico prevedere che alle prime difficoltà, ai primi attriti, al primo casus belli (e il giudiziario conosce inevitabilmente tali momenti) i duemila “samurai senza padrone” che comporrebbero il corpo separato dei pubblici ministeri potrebbero essere presentati come una entità da ricondurre sotto la responsabilità del potere politico al pari di quanto avviene negli Stati nei quali le carriere sono distinte.

 

3. Nel corso dell’annosa querelle il paesaggio istituzionale è profondamente mutato. – Se questa sintesi – pur parziale ed incompleta – è in qualche misura fedele nel rappresentare le argomentazioni contrastanti che sono state ripetutamente spese negli anni nel corso del lungo confronto dialettico sulle carriere dei magistrati,[4] se ne deve dedurre che siamo di fronte ad uno scenario immobile, ad un paesaggio pietrificato?

Tutt’altro.

Ciò che attiene al processo penale ed ai suoi attori è materia in equilibrio instabile e in perenne movimento.

Sotto la crosta spessa e pressoché immutabile delle affermazioni tralatizie ha continuato a scorrere un magma fluido composto di materiali diversi: l’introduzione di norme ordinamentali sempre più limitative dei cambi di funzione, lo svolgimento dell’attività professionale in contesti organizzativi diversi, il radicarsi di diverse aspettative, aspirazioni ed etiche professionali.

Ne è stata rimodellata la fisionomia delle figure del giudice e del pubblico ministero e sono stati ridisegnati i loro rapporti.

 

3.1. In primo luogo, è stata la normativa di ordinamento giudiziario a determinare un allontanamento ed un distacco tra le carriere attraverso due successivi interventi normativi – la riforma Castelli e la riforma Cartabia – che hanno progressivamente ridotto, fin quasi ad azzerarla, la possibilità di passare dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa.

Come è noto, infatti, il decreto legislativo n. 160 del 2006, emesso in attuazione della legge delega 25 luglio 2005, n. 150, nota come riforma Castelli[5] – entrato in vigore nella versione temperata derivante dagli interventi abrogativi  della legge n. 11 del 2007 [6]vietava il passaggio delle funzioni all’interno dello stesso distretto e dei distretti della stessa regione nonché all’interno del distretto di corte di appello competente ai sensi dell’art. 11 del codice di procedura penale ad accertare la responsabilità penale dei magistrati del distretto nel quale il magistrato interessato prestava servizio all’atto del mutamento di funzioni[7].

Inoltre, ai cambi di funzione nel corso della carriera del magistrato era posto il limite massimo di quattro ed era previsto che ogni passaggio fosse preceduto da un periodo di permanenza minimo di un quinquennio nelle funzioni che si chiedeva di mutare.

A sua volta la recente legge n. 71 del 2022 recante la delega di riforma dell’ordinamento giudiziario, nota come riforma Cartabia, ha ulteriormente accentuato il processo di interna divisione del corpo della magistratura, procedendo oltre i già rigidi steccati eretti dalla riforma Castelli e realizzando il massimo di separazione possibile tra giudici e pubblici ministeri a Costituzione invariata. 

L’art. 12 della legge delega ha infatti modificato l’art. 13 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, stabilendo la regola generale che il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa può essere effettuato una sola volta nel corso della carriera, entro 9 anni dalla prima assegnazione delle funzioni.

Trascorso tale periodo è ancora consentito, per una sola volta:

a) il passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, a condizione che l’interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali;

b) il passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro, in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, purché il magistrato non si trovi, neanche in qualità di sostituto, a svolgere funzioni giudicanti penali o miste[8].

È dunque divenuto evidente che tanto la regola generale dettata dalla legge Cartabia quanto i due ulteriori spiragli lasciati aperti per il mutamento di funzioni ora ricordati costituiscono solo modestissimi e parziali temperamenti di una divaricazione pressoché totale dei percorsi professionali di giudici e pubblici ministeri.  

Un dato, questo, che risulta confermato dal numero già molto ridotto di passaggi di funzione registrati negli ultimi anni[9] (che dimostrano come il mutamento di funzioni abbia assunto ormai un carattere del tutto marginale e meramente residuale), numero che è destinato ad assottigliarsi ulteriormente a seguito della nuova disciplina dei cambi di funzioni dettata dalla legge 71 del 2022.

 

3.2. A segnare il processo di distanziamento tra le figure professionali di giudici e pubblici ministeri hanno concorso anche le regole di organizzazione e direzione degli uffici nei quali operano i magistrati delle due categorie.

Se all’esito di una lungo percorso evolutivo, di carattere normativo ed organizzativo, l’indipendenza interna dei giudici può dirsi piena ed indiscussa, i magistrati del pubblico ministero operano in uffici nei quali vige un regime di gerarchia temperata, da ultimo rimodellato dalla legge n. 71 del 2022.

Regime nel quale i Procuratori sono titolari di un potere organizzativo esercitato secondo procedure partecipate e di un potere gerarchico il cui esercizio deve essere sorretto e giustificato da adeguate motivazioni, mentre i sostituti sono chiamati a concorrere alla realizzazione degli obiettivi collettivi dell’ufficio (la ragionevole durata del processo, anche nella fase delle investigazioni, e il puntuale e uniforme esercizio dell’azione penale) uniformando la loro attività al programma organizzativo ed alle indicazioni del capo dell’ufficio, a pena di revoca motivata della delega da parte del Procuratore, che dal canto suo non può imporre ai sostituti obblighi di facere.

 

3.3. Anche sul piano dell’etica professionale il fondamentale imperativo dell’imparzialità, che accomuna giudici e pubblici ministeri, assume per le due categorie declinazioni diverse.

Ai giudici, infatti, si chiede di tendersi consapevolmente verso l’imparzialità dal primo sino all’ultimo momento dei giudizi nei quali sono chiamati a pronunciarsi.

Più complessa è la condotta professionale richiesta al magistrato del pubblico ministero.  

Nella fase delle indagini egli è tenuto a svolgere «accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini» (art. 358 c.p.p.); e ciò non solo perché deve essere spassionatamente orientato a ricercare la verità ma anche perché è interessato a verificare la validità della sua ipotesi accusatoria misurandosi in concreto con i “fatti” e le “circostanze” che possono dimostrarne la fallacia. 

Nel dibattimento, invece, il pubblico ministero è chiamato dapprima ad interpretare con rigore il ruolo di parte – al fine di garantire che il contraddittorio sia effettivo ed assolva pienamente la sua funzione di conoscenza e di ricerca della verità – per recuperare poi, al momento della formulazione delle conclusioni, l’abito di disinteresse personale e di imparzialità, che si addice alla parte pubblica.

Su questa realtà si fonda l’immagine del pubblico ministero come “parte imparziale”, che alcuni ritengono la più adeguata rappresentazione della natura e della funzione dell’organo nel nostro sistema processuale ed altri continuano a guardare con scetticismo.

In termini particolarmente incisivi questo scetticismo è stato espresso da Glauco Giostra che, dopo aver distinto l’imparzialità istituzionale del pubblico ministero dalla sua parzialità funzionale, sostiene che l’imparzialità istituzionale «tramonta al nascere di una ipotesi investigativa»[10]. Così che l’organo dell’accusa «formula un’ipotesi per cercare la verità, ma sovente finisce per cercare la verità della sua ipotesi» in quanto la sua visione sarebbe selettiva: «una visione monoculare, parziale, della realtà»[11].

Sebbene queste osservazioni contengano una parte di verità e sebbene non siano mancati e non manchino casi di scorretta interpretazione del ruolo del pubblico ministero (purtroppo quasi mai oggetto di critiche interna da parte della stessa magistratura), esse divengono discutibili quando sconfinano nel fatalismo, senza riconoscere quanto spazio vi sia nell’ordinaria attività della maggioranza dei magistrati del pubblico ministero per il dubbio, il ripensamento, il controllo dell’ipotesi accusatoria , che rappresentano i tratti propri della professionalità di questo magistrato.

Dalle osservazioni svolte deriva una prima parziale conclusione.

Se per “separazione delle carriere” dei giudici e dei pubblici ministeri si intende una netta divaricazione dei percorsi professionali di giudici e pubblici ministeri, il diverso grado di indipendenza interna delle due categorie di magistrati nonché differenti declinazioni dell’imperativo dell’imparzialità, allora bisogna prendere atto che una separazione di natura “professionale” si è in larga misura già prodotta.

 

4. Le proposte di revisione costituzionale: dividere le carriere o incrinare il principio di separazione dei poteri? In realtà sotto la formula della “separazione delle carriere” vengono oggi proposti nuovi contenuti che vanno ben al di là della finalità dichiarata del riequilibrio tra le parti del processo, per investire la complessiva fisionomia del giudiziario e le sue relazioni con altri poteri ed istituzioni.

Le quattro proposte di legge di revisione costituzionale presentate in questa legislatura alla Camera dei deputati ed in discussione dal 6 settembre di quest’anno, e quella presentata in Senato, pur formalmente intitolate alla “separazione delle carriere”[12], si spingono infatti oltre la creazione di due itinerari professionali differenti con diversi accessi e distinti “governi” delle professioni.

Esse, come si è accennato in esordio, puntano a ridefinire, a vantaggio del potere politico, i complessivi equilibri di governo della magistratura, a cancellare la valenza costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e ad annullare il principio per cui i magistrati si distinguono solo in base alle funzioni svolte. Rimettendo così in discussione le modalità di attuazione del principio della separazione dei poteri delineate nella Costituzione.

È ben vero che, nel suo impianto complessivo, la nostra Costituzione è connotata dal pluralismo e dal coordinamento dei poteri e dalla moltiplicazione di meccanismi idonei a garantire contro esorbitazioni dell’azione dei vari organi costituzionali[13] ; così che in essa la divisione dei poteri non si è tradotta nella classica tripartizione ma in architetture istituzionali miranti ad evitare forme di eccessiva concentrazione di potere nei diversi soggetti istituzionali.

Ma vi è un ambito nel quale il legislatore costituente ha inteso attuare il principio della separazione dei poteri nella sua versione più tradizionale: quello dell’indipendenza della magistratura e dell’alterità del potere giudiziario rispetto agli altri poteri sovrani[14].

L’esigenza «che la magistratura fosse sottratta alla influenza del governo era chiaramente intesa» dai Costituenti «come una conquista della democrazia»[15]; e non si esitava a considerare la magistratura un potere «anche se» scriveva Ruini «non si adopera questo termine neppure per gli altri poteri, per evitare gli equivoci e gli inconvenienti cui può dar luogo una ripartizione teorica, ove sia interpretata meccanicamente»[16].

Il complesso di scelte compiute nel configurare il CSM – dall’attribuzione della presidenza al capo dello Stato a quella di una presenza significativa ma “minoritaria” dei membri laici – dimostra quanto i Costituenti fossero interessati a garantire la libertà da forme di soggezione esterna dell’organo di governo autonomo della magistratura e ad assicurare l’indipendenza dei singoli magistrati dai condizionamenti derivanti da altri poteri.   

È dunque evidente che, nel momento in cui è questo intero assetto ad essere rimesso in discussione dalle proposte di revisione costituzionale all’esame del parlamento, il confronto non può più limitarsi alla semplice “divisione” delle carriere ma deve investire anche i profili che riguardano il nuovo statuto del giudiziario e le relazioni con gli altri poteri dello Stato. 

 

5. La crescita della presenza politica nei Consigli Superiori “separati”. – È singolare constatare come le relazioni di tutte le proposte di legge prima ricordate dedichino uno spazio molto ampio alle argomentazioni riguardanti la separazione delle carriere ed alla introduzione di due separati Consigli superiori per giudici e pubblici ministeri ma riservino poi considerazioni stringatissime ad una innovazione di grande rilevanza: l’aumento del numero dei membri laici dei Consigli superiori, che diverrebbero la metà delle distinte compagini consiliari

Composizione, questa, che, a detta dei proponenti, garantirebbe un più “corretto equilibrio” degli organi di governo delle magistrature.

Allineate e conformi nel prevedere l’aumento della componente laica, le proposte di legge si differenziano poi sulle modalità di “provvista” di tale componente e sulla presidenza dei due Consigli.

Secondo le proposte Costa, Giachetti e Morrone ed altri – che sul punto ricalcano più da vicino l’attuale assetto costituzionale – dovrebbe spettare al Parlamento in seduta comune la nomina dell’intera componente laica mentre dovrebbe essere ancora il Presidente della Repubblica a presiedere i due Consigli.

Diversa su questi aspetti la proposta Calderone ed altri, che attribuisce la presidenza dei due Consigli rispettivamente al primo presidente della Corte di cassazione ed al procuratore generale presso la Corte, mentre riserva la nomina della metà dei membri “laici” dei Consigli per un quarto al presidente della Repubblica e per un quarto al Parlamento in seduta comune.

Al di là delle loro non irrilevanti diversità il decisivo tratto comune delle diverse iniziative legislative è la volontà di coniugare la separazione delle carriere con l’accresciuta influenza della politica nel governo della magistratura.

Ciò che i proponenti rivendicano con la parificazione, nei due Consigli superiori, della componente laica a quella togata non è affatto l’immissione di maggiore intelligenza e visione politico istituzionale per temperare e correggere possibili miopie corporative dei rappresentanti togati ma solo un peso maggiore nella “gestione” concreta della magistratura.

Che sia così è reso chiaro da un’altra norma presente in tre delle quattro proposte, con la quale si prevede che competenze ulteriori rispetto a quelle strettamente gestionali – assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari – possano essere attribuite ai Consigli solo con legge costituzionale.

Previsione, questa, dettata dalla volontà di precludere ai Consigli stessi l’adozione di atti di indirizzo e l’esercizio di funzioni paranormative che pure si sono rivelati utili nel corso della lunga esperienza del CSM “unitario” per colmare lacune legislative ed orientare l’attività consiliare verso obiettivi di efficienza e trasparenza.

Dunque, maggiore presenza della componente politica nei due Consigli Superiori e, al tempo stesso, depotenziamento della discrezionalità dei due organismi consiliari anche quando esercitata per indirizzare positivamente il complesso dell’attività amministrativa.

 

6. L’obbligatorietà dell’azione penale “nei casi e nei modi previsti dalla legge ordinaria”. – Nelle proposte di legge Costa, Giachetti e Morrone è contenuta un’altra disposizione che sopravanza l’obiettivo della divisione delle carriere.

Al testo attuale dell’art. 112 della Costituzione, che recita: «Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale», si propone infatti di aggiungere «nei casi e nei modi previsti dalla legge ordinaria».

Con tale previsione – scrivono i proponenti – si intende «riportare l’esercizio dell’azione penale, nei fatti ampiamente discrezionale, nell’alveo della previsione legislativa “prevedendo che sia la legge” a stabilire forme e priorità dell’esercizio dell’azione penale».

In realtà più che modulare con legge ordinaria l’obbligatorietà dell’azione penale – come si legge nelle relazioni illustrative – si vuole privare il principio della sua valenza costituzionale.

La decisa virata verso una disciplina del principio di obbligatorietà da attuare con legge ordinaria pone infatti nelle mani delle maggioranze politiche di turno l’an, il quando ed il quomodo dell’esercizio dell’azione penale e sostituisce al canone dell’obbligatorietà quello della piena discrezionalità del legislatore ordinario.

Questi, infatti, in ogni momento potrà rimodellare la direzione ed il corso della giustizia penale, magari sotto l’influenza di spinte emotive e di allarmi contingenti, e perciò in termini scarsamente rispettosi dei canoni di eguaglianza e ragionevolezza.

Che di questo si tratti e non solo di stabilire “forme e priorità dell’azione penale” è dimostrato da una singolare circostanza: nelle tre proposte di legge – tutte presentate “successivamente” alla approvazione della legge delega 27 settembre 2021 n. 134 di riforma della giustizia penale – si ignora che in materia di criteri di esercizio dell’azione penale la legge delega ha già previsto l’adozione di una “legge” ordinaria.

Legge non mirante a depotenziare il principio di obbligatorietà dell’azione penale ma finalizzata ad una sua razionale applicazione, avendo la funzione di fissare i “criteri generali” nel cui ambito dovranno poi essere individuati, nei diversi contesti territoriali, i concreti criteri di priorità dell’azione penale[17].

Nel subordinare ad una legge ordinaria il principio di obbligatorietà i presentatori delle proposte di revisione costituzionale avrebbero perciò dovuto considerare la previsione ed il ruolo della legge di “criteri generali” già introdotta dalla riforma Cartabia.

E ciò o per armonizzare e coordinare le loro proposte con i contenuti della legge delega o per verificare se la riforma Cartabia non avesse già dato risposta alle esigenze di razionalizzazione prospettate nelle relazioni illustrative o anche solo per prevedere norme abrogative del complesso impianto disegnato dalla legge n. 134 del 2021[18].

 

7. Un ulteriore bersaglio: l’eguaglianza tra i magistrati. – Nelle proposte di revisione costituzionale figura un ulteriore bersaglio: la disposizione secondo cui «I magistrati si distinguono tra di loro soltanto per diversità di funzione» prevista dall’art. 107, terzo comma della Costituzione, norma della quale si propone l’abrogazione.

Abrogazione non necessaria al fine di attuare la separazione delle carriere essendo largamente sufficienti a questo scopo le distinzioni introdotte in tema di “definizione” delle due categorie di magistrati, di differenti concorsi di accesso e di Consigli superiori separati, ma destinata invece ad incidere all’interno delle carriere separate sul principio di eguaglianza dei magistrati.

La cancellazione di tale principio apre la strada a “distinzioni” diverse da quelle relative alle funzioni e rappresenta perciò il potenziale preludio della rinascita di gerarchie oltre che di trattamenti economici differenziati all’interno del corpo delle due magistrature giudicanti e requirenti. 

 

8. La separazione dei concorsi di accesso e la prospettiva, abbandonata, di una cultura comune di magistrati e avvocati. – Le modifiche della Costituzione sin qui passate in rassegna rendono evidente che i presentatori delle proposte di revisione costituzionale considerano una assoluta priorità la riscrittura delle regole del governo della magistratura e del regime dell’iniziativa penale.

La dimensione professionale dell’attività svolta da giudici e pubblici ministeri è solo “intendenza”, destinata a seguire il percorso di modifica dell’assetto istituzionale del giudiziario e delle sue relazioni con gli altri poteri.

In questo quadro si iscrive la previsione dei concorsi separati per le due categorie di magistrati.

Rappresentata nelle relazioni illustrative delle proposte di legge come un corollario obbligato della soluzione separatista, la soluzione dei due concorsi è stata criticata da chi ha messo in guardia dalla pericolosa aspirazione a «dividere la conoscenza del diritto, la comprensione delle regole processuali, la comune idea di giustizia che deve essere fatta propria da tutti gli attori del processo, avvocati compresi» ed ha ricordato l’esperienza della Germania «ove è netta la separazione fra giudici e pubblici ministeri, ma è unico il percorso formativo per tutte le professioni legali» [19]

È certamente un dato negativo che nel nostro Paese sia deperita e sia stata sostanzialmente abbandonata la prospettiva alta di una comune formazione e cultura di magistrati e avvocati.

Ma è ancor più discutibile la scelta attuale di muoversi nella direzione esattamente opposta della divisione e della parcellizzazione dei percorsi di formazione in seno alla magistratura ed all’avvocatura. 

Inoltre, nell’assenza di un humus culturale e professionale condiviso, l’ulteriore proposta avanzata di consentire al legislatore di nominare avvocati “a tutti i livelli della magistratura giudicante” sembra destinata a soddisfare modeste rivendicazioni corporative più che a promuovere una feconda osmosi di esperienze e un miglioramento della qualità complessiva della magistratura giudicante.

 

9. Una diversa proposta: trasformare il pubblico ministero in avvocato dell’accusa. – Se il Parlamento si sta muovendo nella direzione sin qui descritta, il Ministro della Giustizia sembra orientato ad imboccare un’altra strada.

In un intervento pronunciato in una sede non ufficiale[20], il Ministro ha affermato di voler realizzare una radicale metamorfosi del magistrato del pubblico ministero, trasformandolo in avvocato dell’accusa, privo di poteri di coordinamento dell’attività degli investigatori nella fase delle indagini preliminari e chiamato a sostenere in giudizio le tesi accusatorie delle forze polizia sulla base delle risultanze delle loro autonome indagini.

La vaghezza con cui questa prospettiva riformatrice è enunciata – vaghezza cui il Ministro ci ha abituato in un anno denso di interviste e interventi nei convegni – non consente una sua approfondita e meditata valutazione critica.

Si può però ricordare che la suggestione attuale ha un corposo precedente nel disegno di legge presentato il 10 marzo 2009 (A.S. n. 1440) dal Ministro della giustizia, on. le Angelino Alfano, che traduceva in termini giuridici un’idea del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi secondo cui la soluzione finale del problema “pubblico ministero” consisteva nella sua conversione in “avvocato della polizia”.

In quel disegno di legge la figura del pubblico ministero veniva completamente ridisegnata ed assumeva tratti che all’epoca furono analiticamente descritti e criticati[21] e che qui è possibile solo rievocare per sintetici cenni.

Nel d.d.l. n. 1440 si delineava la figura di un pubblico ministero “passivo”, perché impossibilitato ad acquisire d’ufficio la notizia di reato ed attivare indagini preliminari anche di fronte a fatti eclatanti e di pubblico dominio e destinato, inoltre, a rimanere a lungo “ignaro” delle indagini, perché non più informato prontamente dei risultati delle investigazioni svolte di propria iniziativa dalla polizia giudiziaria.

Ed ancora, un pubblico ministero fortemente “diminuito” nei suoi poteri nei confronti della polizia giudiziaria posta, con la sola eccezione delle Sezioni di polizia giudiziaria, al di fuori di un rapporto di dipendenza funzionale dall’ufficio inquirente e condizionato” perfino sul piano delle scelte processuali perché formalmente obbligato a tenere conto, nelle sue determinazioni sull’esercizio dell’azione penale, “dei risultati delle indagini della polizia giudiziaria” e quindi in difficoltà nel processo tutte le volte che egli maturasse valutazioni finali anche solo parzialmente difformi da quelle della polizia .

In definitiva la figura e il ruolo del pubblico ministero erano riscritti introducendo meccanismi destinati di volta in volta a svuotare, sterilizzare, irrigidire la sua attività e, per altro verso, a dar vita ad una sorta di “procedimento di polizia”, strettamente controllato ed orientato per via gerarchica dai Ministri di riferimento dei diversi apparati di polizia.  

Comunque – al di là del discutibile precedente del d.d.l. Alfano – non si comprende come il Ministro della giustizia possa oggi affermare che sarà “indipendente” un pubblico ministero trasformato in avvocato della polizia, il cui ruolo sarà ridotto a sostenere in giudizio tesi accusatorie maturate negli uffici di polizia. 

Nel composito fronte che intende riformare l’ufficio del pubblico ministero sembra emergere un contrasto tra quanti propongono un pubblico ministero “separato” ma ancora dotato di garanzie di indipendenza di status e funzionale e chi, come il Ministro della giustizia, propugna una trasformazione della natura stessa dell’organo, imperniata su una sua posizione sussidiaria, servente e subalterna alle polizie. 

Prosegue, dunque, arricchendosi di sempre nuovi contenuti, la saga infinita che formalmente reca ancora il nome di “separazione delle carriere” ma che è ormai divenuta la fucina di proposte di complessivo riassetto del giudiziario e di ridefinizione dei rapporti tra i poteri e che perciò richiede analisi che non si adagino sugli schemi ripetitivi dei passati confronti ma si misurino con le inedite prospettive del presente e del prossimo futuro. 

 

 

[1] L’affermazione è riportata da numerosi quotidiani, tra cui Il Giornale ed. on line dell’11 novembre 2023 nell’articolo intitolato Separazione delle carriere subito dopo il premierato. Nordio rimanda la riforma della giustizia. 

[2] Al riguardo va precisato che, negli anni 2019, 2020 e nel primo semestre del 2022, l’effettiva percentuale di assoluzioni supera di poco il 21% del totale delle sentenze; risultato medio che non muta nelle ipotesi di citazione diretta. Un dato certamente significativo anche se inferiore alle elevatissime percentuali di assoluzioni ripetutamente fornite da alcuni organi di stampa, da considerare errate perché computano come assoluzioni forme diverse di estinzione dei processi tra cui i casi di prescrizione, remissione di querela, oblazione, messa alla prova, ipotesi che non escludono la responsabilità e in alcuni casi la presuppongono. Su questi aspetti cfr. le puntuali ed approfondite considerazioni svolte e le statistiche riportate nell’Intervento scritto del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, Giovanni Salvi nell’Assemblea generale per l’inaugurazione dell’anno giudiziario svoltasi il 2022 (pp. 17 e ss.), che si legge nel sito della Corte di cassazione.

[3] Su questo concetto si sofferma G. Azzariti, La separazione delle carriere dei magistrati, in Osservatorio costituzionale Fasc. 2/3 del 2003, p. 9 (Testo dell’audizione svolta presso la I Commissione, Affari costituzionali) della Camera dei deputati il 9 marzo 2023 sulle proposte di legge di revisione costituzionale in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente.

[4] Tra gli scritti più recenti sul tema cfr. A. Spataro, La separazione delle carriere dei magistrati? una riforma da evitare, in Giustizia Insieme, 28 luglio 2016; E. Bruti Liberati, Lo statuto del pubblico ministero nel progetto di legge costituzionale n. 14. Non solo separazione delle carriere, in questa Rivista, 9 marzo 2020; S. Lorusso, Eclettismo giudiziario e processo accusatorio, in questa Rivista,11 ottobre 2023. Mi sia consentito menzionare anche N. Rossi, Oltre la separazione delle carriere di giudici e p.m, in Questione Giustizia, 4 settembre 2023 e Il caso Del Mastro e il ruolo del pubblico ministero: le lezioni americane del governo, in Questione Giustizia, 25 luglio 2023.

[5] Come è noto la legge delega 25 luglio 2005, n. 150 introdusse rilevanti modifiche all’ordinamento giudiziario e fu completata da una serie di decreti legislativi emanati nella prima metà del 2006.

[6] L’art. 2, comma 4, della legge 30 luglio 2007 n. 111 cancellò l’originaria previsione dell’art. 13 del d.lgs. n. 160 del 2006 secondo cui, dopo cinque anni dall’ingresso in magistratura occorreva scegliere definitivamente tra funzioni requirenti o giudicanti.

[7] Inoltre il cambio di funzioni  in un diverso “circondario” ed in una diversa “provincia” rispetto a quelli di provenienza, era possibile anche nel medesimo distretto nel caso in cui il magistrato che chiedeva il passaggio a funzioni requirenti avesse svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro  ovvero nel caso in cui il magistrato chiedesse il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro, in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi  fossero posti vacanti, in una sezione che trattasse esclusivamente affari civili o del lavoro.

[8] La regola “generale” dell’unico passaggio nella fase iniziale della carriera mira ad evitare che la scelta delle funzioni sia troppo fortemente condizionata dalla posizione del magistrato nella graduatoria del concorso di accesso e da valutazioni compiute nella fase iniziale della vita professionale, lasciando aperta una (sola) porta per una opzione fondata su una più matura vocazione. 

[9] Nello scritto di A. Spataro, La separazione delle carriere, cit., par. 3b, vengono riportati i dati relativi ai cambi di funzioni nel periodo 1° gennaio 2011 – 30 giugno 2016. In tale arco di tempo vi sono stati 101 trasferimenti dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti e 78 trasferimenti dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti. Se ne deduce che nei cinque anni e mezzo presi in considerazione «la percentuale annua dei magistrati trasferiti da una funzione all’altra è stata dello 0,83% per i requirenti e dello 0,21% per i giudicanti». Per ulteriori dati aggiornati sino al 2018 cfr. il dossier, La mobilità della magistratura italiana sul territorio dal 1965 al 2018, nella Sezione Statistiche del sito ufficiale del CSM.

[10] G. Giostra, Prima lezione sulla giustizia penale, Bari-Roma, Laterza, 2020, p. 63.

[11] G. Giostra, op. cit, p. 64

[12] Le proposte presentate alla Camera dei deputati sono nell’ordine: la proposta dell’On.le. Costa, AC n. 23, presentata il 3 ottobre 2022; la proposta dell’On.le Giachetti, A.C. n. 434, presentata il 24 ottobre 2022; la proposta degli On.li Calderone, Cattaneo, Pittalis, Patriarca, A.C. n. 806, presentata il 24 gennaio 2023; la proposta degli On.li Morrone, Bellomo, Bisa, Matone, Sudano, A.C. n. 824 presentata il 26 gennaio 2023.

Le proposte Costa, Giachetti e Morrone ricalcano la proposta di iniziativa legislativa popolare promossa dall’Unione delle camere penali, presentata il 31 ottobre 2017 [12]. E lo stesso può dirsi per il disegno di legge presentato al Senato il 14 febbraio 2023 (A.S. n. 504) dalla senatrice Erika Stefani ed altri (Lega)[12] . Da questo modello si discosta, per alcuni aspetti significativi ma non decisivi, la proposta di legge Calderone ed altri (Forza Italia).

[13] Così, C. Mortati, Raccolta di scritti, II, Milano, Giuffrè, 1972, p. 307.

[14] In questi termini Franco Bassi, Il principio della separazione dei poteri ( evoluzione problematica), in Riv. Trim.Dir.Pubbl, 1965, pp. 17 e ss. 

[15] In questi termini si espresse Meuccio Ruini nella seduta del 25 novembre 1947, AC, 2457 . Nella sua Relazione alla Costituente del 6 febbraio 1947 Ruini aveva sostenuto che se la sovranità appartiene al popolo la divisione e l’equilibrio dei poteri era da considerare essenziale presidio di libertà ed aveva insistito sulla esigenza che la sovranità popolare si esprimesse in una pluralità di forme.

[16] M. Ruini, Relazione, cit. p. 104.

[17] Sul tema cfr. nel fascicolo n. 4/2021 della Trimestrale di Questione GiustiziaLa riforma della giustizia penale, gli scritti di: F. Di Vizio, L’obbligatorietà dell’azione penale efficiente ai tempi del PNRR; N. Rossi, I “criteri di priorità” tra legge cornice e iniziativa delle procure; A. Spataro, La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la legge 27 settembre 2021, n. 134; G. Buonomo, La crescente procedimentalizzazione dell’atto parlamentare di indirizzo politico; S. Panizza, Se l’esercizio dell’azione penale diventa obbligatorio… nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge.

[18] Come è noto nella legge n. 134 del 2021 al legislatore delegato si è assegnato  il compito di  «prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti». Leggendo il testo normativo definitivamente approvato si constata come la griglia di «criteri generali» – che sta a monte della successiva individuazione dei «criteri di priorità» da parte degli uffici di procura – dovrà essere indicata dal «Parlamento con legge». Una legge di cornice, dunque, vincolante per tutti i soggetti che dovranno poi concorrere a definire e verificare l’attuazione dei criteri di priorità, e tendenzialmente stabile, salvo eventuali nuovi interventi legislativi. La sequenza disegnata dalla legge delega prende l’avvio con la legge di criteri generali approvata dal Parlamento, prosegue con la predisposizione, entro tale cornice legislativa, degli specifici criteri di priorità degli uffici di procura e si chiude con il controllo e l’approvazione, da parte del Csm, dei documenti organizzativi sottoposti al suo esame. 

[19] G. Azzariti, La separazione delle carriere, cit., p. 8.

[20] Ci si riferisce all’intervento al Forum della Fondazione Iniziativa Europa 2023 tenutosi a Stresa (Novara) l’11 novembre 2023.

[21] In proposito mi sia consentito rinviare ad un mio scritto, Avvocato della polizia. Storia recente e minacce sul futuro del pubblico ministero, in Questione Giustizia, n. 1/ 2010.