Opinioni  
30 Gennaio 2020


Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi: le Sezioni unite ristabiliscono la legalità costituzionale


Giulio Illuminati

Osservazioni a margine di Cass., Sez. un., 28 novembre 2019 (dep. 2 gennaio 2020), n. 50, Pres. Carcano, est. Caputo


1. Con una decisione meditata e molto articolata nella motivazione, le Sezioni unite della Cassazione hanno fissato alcuni punti fermi in materia di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni per i reati non rientranti fra quelli indicati nel decreto di autorizzazione del giudice. Più precisamente, la questione di diritto sollevata riguardava il divieto di utilizzazione in procedimenti diversi previsto dall’art. 270 comma 1 c.p.p. e la sua applicabilità ai reati, non oggetto dell’intercettazione, che fossero emersi nel corso delle operazioni autorizzate. Le Sezioni unite hanno affermato che l’inutilizzabilità non opera solo quando si tratti di reati connessi ex art. 12 c.p.p., e solo se per tali reati l’intercettazione risulti ammissibile (ai sensi degli artt. 266 e 267 c.p.p.).

Senza ripercorrere il risalente dibattito riguardante l’interpretazione dell’art. 270 comma 1 c.p.p. – che trova eco anche sul versante giurisprudenziale, rappresentato esaurientemente nella motivazione della sentenza – si può sinteticamente ricordare che la dottrina è in prevalenza nel senso di un’applicazione rigorosa del divieto e ritiene che le intercettazioni siano utilizzabili esclusivamente per i reati espressamente menzionati nel decreto di autorizzazione (salvi naturalmente i delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, secondo l’eccezione prevista dallo stesso articolo). La giurisprudenza maggioritaria tendeva viceversa ad ampliare il più possibile l’ambito dell’utilizzabilità, argomentando che “diverso procedimento” non corrisponde a “diverso reato” e che pertanto, in caso di indagini unitarie, o semplicemente connesse o collegate, anche se non effettivamente riunite o viceversa suscettibili di separazione, per il nuovo reato scoperto durante l’intercettazione i risultati della stessa fossero sempre utilizzabili come prova.

Si può concordare sul fatto che non sarebbe ragionevole attenersi ad una interpretazione esclusivamente formale dei concetti di diverso reato o di diverso procedimento. Se si può escludere che rilevi la diversità del reato quando ad esempio si tratti di modifica della qualificazione giuridica, o di identificazione successiva di ulteriori autori (le intercettazioni com’è noto non richiedono che gli indizi di reato siano già individualizzati), è anche vero che non si può far dipendere l’utilizzabilità o meno dei risultati da un evento casuale come la riunione o la separazione dei procedimenti, tanto più che nel corso delle indagini essa dipende dalle scelte discrezionali del pubblico ministero.

Tuttavia l’argomento desunto dalla lettera dell’articolo sembra piuttosto debole. La contrapposizione tra reato e procedimento, richiamata anche dalla sentenza in esame, non trova in realtà riscontro nel lessico del codice. Un esempio lo si ricava proprio dall’art. 12 c.p.p., che parla di connessione di procedimenti, ma per definirla non può che fare riferimento ai reati: ad ogni reato infatti corrisponde teoricamente un diverso procedimento anche quando tutti i reati sono attribuiti alla competenza del medesimo giudice, a prescindere dal fatto che poi in sede processuale vengano trattati congiuntamente o separatamente. Che si parli di reati o di procedimenti, dunque, l’unica cosa che dovrebbe rilevare è che dalle intercettazioni sia emerso un fatto nuovo, non contemplato in precedenza.

Secondo la prassi per lo più utilizzata dagli uffici della procura della Repubblica, il divieto di utilizzazione non viene ritenuto efficace quando si tratti del medesimo filone di indagine, o comunque di indagini anche solo collegate: ciò però equivale praticamente a disapplicare l’art. 270 c.p.p., posto che un collegamento delle indagini è sempre in re ipsa, rientrandosi quanto meno nel caso in cui, come correttamente evidenziato dalle Sezioni unite, la prova “deriva, anche in parte, dalla stessa fonte” (art. 371 comma 2 lett. c) c.p.p.). Inoltre i risultati vengono considerati utilizzabili anche per i reati per i quali l’intercettazione non potrebbe essere autorizzata, stando ai limiti previsti in via generale dalla legge. In altre parole, una volta che l’intercettazione sia stata legittimamente autorizzata all’origine, i suoi risultati potrebbero valere per qualunque reato successivamente emerso nel corso delle operazioni, a prescindere dalla specifica presenza dei presupposti per una intercettazione. Si deve rilevare che se invece il divieto fosse applicato l’intercettazione potrebbe essere utilizzata solo come notitia criminis, in base alla quale aprire un’indagine alla ricerca di elementi utili per l’accertamento del diverso reato.

 

2. La soluzione corretta va individuata facendo riferimento alla ratio del divieto di utilizzazione. Lo statuto costituzionale delle intercettazioni richiede la predeterminazione tassativa dei presupposti di legge e un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria; nonché ulteriori “garanzie”, volte a minimizzare la lesione del diritto inviolabile. Circoscrivere l’utilizzabilità dei risultati è una garanzia destinata ad evitare che gli effetti dell’interferenza si moltiplichino al di là di quanto strettamente necessario. Il divieto di cui all’art. 270 comma 1 c.p.p. ha dunque lo scopo di mantenere costante il collegamento con le circostanze che giustificano la violazione del segreto e con i motivi addotti nell’autorizzazione del giudice, che includono, oltre all’accertamento degli indizi di un reato fra quelli previsti dalla legge, anche la valutazione dell’assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini. La rottura di tale legame consentirebbe in sostanza l’utilizzazione dei risultati di intercettazioni che nessuno ha realmente autorizzato. Si deve fra l’altro notare che secondo la legge (art. 267 comma 3 c.p.p.) il controllo sulla persistenza dei presupposti è, almeno sulla carta, previsto come necessario anche per ogni proroga dell’intercettazione già autorizzata per un determinato reato: ciò sembrerebbe confermare l’inutilizzabilità delle intercettazioni in assenza di un’autorizzazione specifica.

Il divieto di utilizzazione tuttavia viene meno quando si scoprono delitti diversi per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. È un caso tipicamente eccezionale: attraverso il rinvio ad una norma dettata ad altri fini (che comporta una generalizzazione forse in parte discutibile) ci si riferisce sinteticamente ad un catalogo di reati considerati di maggiore allarme sociale. La scelta non ha altra logica che quella dettata dalle esigenze di politica criminale, che si è ritenuto sarebbero eccessivamente sacrificate qualora dall’intercettazione si ricavasse la prova di un reato particolarmente grave senza che si potesse farne uso se non come notitia criminis.

A chi eccepisce l’incongruità della ridotta utilizzabilità dei risultati (peraltro considerata un ragionevole punto di equilibrio dalla Corte costituzionale) si può obiettare che la presenza di limiti edittali è di per sé garanzia contro gli abusi, ed è intrinseca alla disciplina stessa delle intercettazioni, che infatti sono del tutto vietate per i reati che non superano una certa soglia di gravità. Salve alcune ipotesi particolari, infatti, non ci sarebbe in teoria alcuna ragione tecnica per ammettere o escludere il ricorso alle intercettazioni a seconda del tipo di reato: ma ovviamente la scelta al riguardo, che rientra nella discrezionalità del legislatore ordinario, ha il solo scopo di contenere il potere dell’autorità pubblica di limitare un diritto costituzionale.

Correttamente ricostruita, sotto il profilo in esame la disciplina delle intercettazioni corrisponde nel migliore dei modi al quadro previsto dalla Costituzione. Si deve ricordare che la Corte costituzionale, fin dal suo primo intervento del 1973 sul codice abrogato, ha evidenziato la necessità del bilanciamento fra l’interesse a prevenire e reprimere i reati e quello alla libertà e segretezza delle comunicazioni, che spetta al giudice di volta in volta contemperare, allo scopo di evitare che il diritto individuale sia “sproporzionatamente” sacrificato. Il richiamo al principio di proporzionalità, che è venuto progressivamente assumendo un ruolo centrale nella giurisprudenza costituzionale e soprattutto europea, consente di individuare dei limiti precisi alle interferenze nella vita privata consentite: ben al di là della semplice riserva di legge, che pure deve tradursi in regole chiare e dettagliate, che escludano ogni discrezionalità incontrollata. Secondo l’opinione consolidata, il principio di proporzionalità si articola nella idoneità della misura restrittiva ad ottenere il risultato investigativo previsto; nella necessità della stessa, vale a dire l’impossibilità di perseguire l’obiettivo dichiarato con mezzi meno intrusivi; e nella proporzionalità in senso stretto, da commisurare alla natura e alla gravità del reato.

Si comprende subito che parametri di questo genere richiederebbero sempre una valutazione ex ante, da esporre nella motivazione del provvedimento del giudice. In particolare, l’accertamento della gravità del reato, anche se opportunamente predeterminata dal legislatore, rappresenta un criterio imprescindibile, precisamente per evitare che, ex post, l’intercettazione vada ad incidere sul segreto di comunicazioni per le quali, in mancanza dei presupposti specifici, non dovrebbe essere consentita.

 

3. Le Sezioni unite hanno optato per una soluzione intermedia. Si sono fatte carico del problema concernente l’identità o la diversità dei procedimenti, ma hanno concluso che all’autorizzazione iniziale devono ritenersi riconducibili anche quei fatti di reato che si trovino in un rapporto di connessione sostanziale con quello per il quale l’intercettazione era stata disposta. Il legame, cioè, sarebbe in tal caso originario e indipendente dallo specifico procedimento, in quanto di carattere oggettivo e predeterminato. La connessione ai sensi dell’art. 12 c.p.p. giustificherebbe pertanto l’utilizzazione dei risultati dell’intercettazione anche per i reati non espressamente contemplati nell’autorizzazione.

Si può forse ammettere che, pure in mancanza di un preciso riscontro testuale, la norma così interpretata soddisfi la tassatività della riserva di legge prescritta dall’art. 15 Cost. Rimane però, insopprimibile, lo scarto tra la motivazione del provvedimento e la violazione della segretezza riguardante il reato diverso, violazione che si riproduce per ogni notizia sopravvenuta di cui si venga a conoscenza tramite l’intercettazione e che possa successivamente essere utilizzata e divulgata. In particolare, il rispetto del principio di proporzionalità diventa in concreto non verificabile, dato che si tratta di nuovi reati di cui non si aveva contezza al momento dell’autorizzazione, e per ciò stesso sottratti alla valutazione dei gravi indizi e della indispensabilità dell’intercettazione, così come previsto dalla legge.

Anche se restano dubbi sulla soluzione accolta, va tuttavia sottolineato, per altro verso, che è stato posto un importante freno all’orientamento finora troppo largheggiante della giurisprudenza. Infatti, in coerenza con il requisito del legame sostanziale tra i diversi reati, la sentenza ha negato che una relazione occasionale, quale quella derivante dal collegamento delle indagini ai sensi dell’art. 371 c.p.p., o dall’appartenenza ad un medesimo contesto investigativo, sia in grado di escludere che si tratti di procedimenti diversi. In questi casi dunque opera il divieto di cui all’art. 270 comma 1 c.p.p. (salva sempre l’eccezione concernente i delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza).

La precisazione è quanto mai necessaria per scongiurare che si possa procedere ad intercettazione sulla base di una “autorizzazione in bianco”, secondo la definizione della Corte costituzionale, fatta propria dalle Sezioni unite. Senza la predeterminazione vincolante – anche indiretta, come in caso di connessione – del reato o dei reati che possono essere oggetto dell’intercettazione, si lascerebbe aperta la strada alla possibilità di una sorveglianza senza limiti delle comunicazioni di una persona, quando esistano gravi indizi (non necessariamente a suo carico), in attesa che prima o poi commetta un reato e ne fornisca la prova attraverso le sue stesse comunicazioni: e ciò per un tempo, di proroga in proroga, tendenzialmente indeterminato. La riserva di legge e di giurisdizione, per non parlare del principio di proporzionalità, risulterebbero troppo facilmente aggirate.

C’è poco da aggiungere, infine, sulla seconda parte del principio di diritto enunciato: l’utilizzazione dei risultati continua ad essere vietata quando il reato diverso da quello in relazione al quale era stata disposta l’autorizzazione, anche se con questo connesso, non rientra fra quelli per cui l’intercettazione è ammissibile. È una piana applicazione della legge, senza che nemmeno si debba scomodare l’art. 15 Cost., posto che l’art. 266 c.p.p. vieta l’impiego di questo mezzo di indagine per i reati che non superino una soglia minima di gravità. I risultati sono dunque inutilizzabili ai sensi dell’art. 271 c.p.p., poiché non sembra si possa dubitare che derivino da intercettazioni eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge. L’autorizzazione non è un passepartout per disapplicare, una volta che sia stata concessa, i limiti stabiliti in via generale. Il fatto che il segreto delle comunicazioni sia stato legittimamente infranto non implica che ogni forma di tutela sia per ciò stesso venuta meno, e che il diritto inviolabile non necessiti più di essere garantito in relazione agli ulteriori sviluppi dell’indagine.

Se così non fosse, fra l’altro, si potrebbe assistere al paradosso per cui, ove l’intercettazione non abbia fornito gli elementi attesi con riferimento ai reati che la consentivano e per i quali era stata autorizzata (e magari per questo motivo destinati all’archiviazione), i risultati finirebbero con l’essere utilizzabili come prova solo per quei reati occasionalmente scoperti che, di per sé, non avrebbero mai potuto legittimare il ricorso all’intercettazione.

È comprensibile che gli organi inquirenti non vogliano rinunciare nemmeno in parte ad uno strumento così invasivo e tutto sommato di facile impiego. Va però constatato che ciò favorisce una certa pigrizia investigativa perché, piuttosto che dover raccogliere faticosamente e con dispendio di tempo e di risorse materiali e mentali ogni elemento utile per le indagini, è molto più comodo richiedere un’intercettazione, gettando una rete nella quale si spera che qualcosa resti impigliato. Ma proprio per questo motivo la solidità dell’impianto accusatorio basato sulle intercettazioni è spesso solo apparente, dato che il più delle volte dalle comunicazioni captate si ricavano solo prove indiziarie, intrinsecamente equivoche e foriere di dubbi e cattive interpretazioni.

Opportunamente le Sezioni unite non hanno assecondato questa deriva, con una decisione che forse farà discutere, ma che intende dare il giusto riconoscimento alla necessità di tutelare i diritti fondamentali, a partire dalla Costituzione secondo la lettura promossa dalla Corte costituzionale.