Recensione a G. Fiandaca, Punizione, Il Mulino, 2024
Leggendo il titolo dell’ultimo libro di Giovanni Fiandaca si potrebbe pensare di trovarsi di fronte a un contributo “classico” della penalistica accademica: il tema della punizione è dissodato da una letteratura sconfinata, per quanto destinata a essere, data la complessità dei problemi in gioco, mai esaustiva. Il recente contributo dell’autorevole studioso appare tuttavia come un prodotto peculiare, poiché non è semplicemente proiettato a indagare le diverse estrinsecazioni giuridiche del punire, ma si compone di una riflessione problematizzante che, con taglio di divulgazione colta, analizza strati di senso e proiezioni di significato dell’immenso concetto, interrogandosi sulla supremazia culturale della pena quale risposta a problemi di regolamentazione della convivenza.
Fin qui, si potrebbe ancora osservare, nihil sub sole novi; se non fosse che tale analisi viene elaborata da una prospettiva inusuale agli stilemi della letteratura giuridica in senso stretto, ossia rivolgendo uno sguardo alla punizione da un angolo visuale non tecnicistico, ma più profondo e discorsivo: non come giurista positivo “tecnocratico”, ma come intellettuale che osserva la fenomenologia punitiva quale atteggiamento psicosociale e istituzionale di reazione alla trasgressione di precetti, e come studioso che arricchisce la propria riflessione di un’esperienza esistenziale e culturale vissuta in prima persona (la carica di Garante dei detenuti), durante la quale ha potuto oltrepassare l’etereo mondo delle teorizzazioni e dei concettualismi per venire a contatto con la sofferenza di persone sottoposte a restrizioni di libertà.
Il volume in questione assume dunque rilievo non soltanto sul piano del progresso scientifico, ma è testimonianza di valore storico e culturale da parte di uno dei più autorevoli e influenti intellettuali contemporanei di estrazione giuridica.
Nelle opere della c.d. dottrina giuridica le narrazioni in prima persona e le meditazioni “emotivamente orientate” non rappresentano un habitus stilistico e metodologico, forse anche perché contribuirebbero a indebolire l’illusorio mito della neutralità del giurista. Un mito apparentemente innocuo, tendenzialmente giustificato dell’asserita esigenza di discutere e interpretare materiali normativi in modo il più possibile scevro da precomprensioni etiche e culturali: ma siamo davvero sicuri che questa proclamata “avalutatività”, anche ove realisticamente praticabile, rappresenti un tratto idealmente auspicabile dello studioso di problemi penali?
L’opera in questione solleva, nelle pagine finali, un interrogativo di straordinaria portata etica: è il dubbio se lo studio e l’insegnamento del diritto penale oggi «finisca, per ciò stesso e sia pure senza intenzione, col legittimare in qualche modo e misura il sistema dei reati e delle pene così com’è (p. 169)». Una prospettiva che, in questo senso, desta in Fiandaca più di una perplessità riguardo la funzione sociale e la qualità etica di studi orientati più all’estetica concettuale e al perfezionismo “dogmatico” che a riflessioni spendibili in un circuito di ragione pubblica dialogante con istituzioni e cittadini di tutte le fasce culturali.
L’Autore evidenzia come la letteratura giuridica abbia prodotto sul tema della pena contributi che non hanno inciso in modo rivoluzionario o decisivo rispetto a quanto elaborato nel più ampio orizzonte del pensiero filosofico classico, moderno e contemporaneo. I c.d. giuristi di professione avrebbero «ecceduto in sofisticatezza concettuale, trascurando fin troppo l’esigenza di raccordare le elaborazioni teoriche a tavolino alle concrete dimensioni operative della giustizia penale» (pp. 71 s.), indulgendo a un’autoreferenzialità che ne ha confinato le dispute al ristretto circuito accademico, magari trincerate nella esoterica gergalità del “giuridichese”, e che in definitiva non ha portato a un reale dialogo con la società in una prospettiva di contributo al miglioramento della qualità del dibattito pubblico.
Su queste premesse Fiandaca, in linea con il proprio stile maieutico/destrutturante, si impegna a dar vita a un’analisi attraverso dubbi “non meramente accademici” sia riguardo il paradigma punitivo e la sua considerazione quale illusoria panacea dei mali della società, sia verso il tipo di approccio, umano e scientifico, a tale riflessione.
La prima parte del volume traccia le coordinate epistemologiche dell’indagine, rimarcando l’esigenza di un metodo interdisciplinare per uno sguardo d’insieme: «il punire è un fenomeno sociogiuridico così complesso e polivalente da richiedere, per una sua comprensione non superficiale, un approccio a carattere multidisciplinare» (p. 14). Una dichiarazione cristallina che chiarisce, grazie anche all’autorevolezza di chi la formula, la “non autosufficienza epistemica del diritto penale” e la necessità di pensare la multidisciplinarietà come metodo costitutivo di indagine, e non come mero corollario ad abundatiam o come orpello di erudizione. Un esercizio nel quale Fiandaca, con grande umiltà, si dichiara “dilettante curioso”, e che riesce a praticare in modo sincero ed efficace nelle prime pagine del volume, sporgendosi non solo verso i consueti orizzonti filosofico e sociocriminologico, ma anche nella prospettiva psicopedagogica, molto meno esplorata ma essenziale per la riflessione sul rapporto tra sanzione e prospettiva (ri)educativa.
In questo senso l’Autore contribuisce a “istituzionalizzare” il pensiero di studiosi “non giuristi”, suggellandone, ove ve ne fosse ancora il bisogno, la consustanzialità rispetto alle riflessioni dei c.d. giuristi di professione in senso stretto: una trattazione paritaria, che risuona anche come monito per la dottrina penalistica, nel cui ambito l’approccio multidisciplinare e un po’ “borderline” (come l’Autore stesso si definisce a pag. 19) inizia sì a riscuotere un’adesione più convinta, ma ancora non del tutto immune da “sguardi torvi”.
Conclusa l’ampia panoramica finalizzata a delineare le radici filosofiche e culturali del concetto di punizione, il focus si incentra sull’orizzonte della giustizia penale contemporanea: un territorio più abituale per i giuristi di professione, e che Fiandaca ripercorre a partire dal dibattito dottrinario sulle teorie della pena. L’arretramento dell’idea retributiva pare aver lasciato il campo al modello della prevenzione, in particolare della prevenzione speciale/rieducazione, ma è proprio riguardo a tale vastissimo concetto che emerge oggi la necessità di una nuova problematizzazione che tenga conto del profondo iato tra le teorizzazioni professorali e il mondo della giustizia penale: territorio riguardo il quale l’analisi dell’Autore si fa assai penetrante, forte di un’esperienza vissuta a contatto col complesso, e per certi versi inquietante, universo penitenziario.
Fiandaca si sofferma sul concetto cardine della responsabilità penale costituzionalmente orientata: “rieducazione” è un termine retoricamente appagante, talvolta illusoriamente risolutivo di problemi che invece affiorano nel momento in cui gli operatori giudiziari devono dare una dimensione pratica a tale ambizioso progetto relazionale e sociale: si tratta di un percorso che deve portare all’acquisizione, da parte del condannato, di disposizioni comportamentali rispettose delle regole di convivenza (c.d. “legalità esteriore”), o l’obiettivo dovrebbe essere quello di indurre il reo a una nuova etica individuale, all’adesione a valori prima respinti, e dunque a un vero e proprio cambiamento personale?
Un simile interrogativo, ove rivolto a cittadini “non addetti ai lavori” troverebbe risposta, con buona probabilità, nella seconda alternativa, sostenuta da un più o meno benintenzionato e rassicurante paternalismo. Ma la sfida dell’intellettuale è proprio quella di mostrare come una simile prospettiva, al di là dell’aura irenistica e da “lieto fine”, celi in sé profili autoritari e di emenda morale coattiva, i quali, anche ove empiricamente realizzabili, non paiono in perfetta armonia col valore, costituzionalmente riconosciuto, dell’autonomia morale della persona.
Ecco che quindi anche l’eticamente rassicurante prospettiva della rieducazione lascia trasparire dei lati oscuri che Fiandaca riscontra nella prassi della magistratura di sorveglianza: segno di un’intrinseca polifunzionalità della stessa prospettiva rieducativa, la quale non può essere esaustivamente ed assiomaticamente definita nelle sole dissertazioni accademiche, ma trova invece nelle multiformi applicazioni della prassi la cifra problematica della sua essenza, perennemente in bilico tra caute ambizioni di reintegro sociale e ben più problematiche, per quanto benintenzionate, prospettive di (ri)conversione morale.
La riflessione “inquieta” di Fiandaca non risparmia neppure le concezioni post-sanzionatorie della pena e la c.d. giustizia riparativa, verso la quale l’Autore si protende con speranza, ma anche con un pizzico di sana diffidenza, per ragioni che fanno rima con i rilievi precedentemente esposti in relazione alle ideologie della pena e alla rieducazione: anche l’idea di “riparazione” è frutto di un intreccio di prospettive valoriali, in prevalenza affini a concezioni della società «di verosimile matrice religioso comunitarista o in ogni caso di ispirazione umanista, tale per cui assurge a valore prioritario il recupero del legame personale e sociale che il reato avrebbe spezzato» (p. 150). E dunque anche la c.d. giustizia riparativa dovrebbe essere oggetto di particolare attenzione per poter essere attuata nel rispetto sia del principio del pluralismo ideologico e valoriale, sia dell’autonomia morale della persona, soprattutto in virtù delle possibili interazioni con il principio della rieducazione: vi è una rapporto di complementarietà o di consequenzialità? E nel secondo caso, potrebbe la riparazione considerarsi elemento “sintomatico” e dunque precondizione di un’avvenuta rieducazione? Ebbene, anche riguardo tale ultima prospettiva, Fiandaca non manca di rilevare come la giurisprudenza della magistratura di sorveglianza applichi già uno schema logico similare, quando ad esempio nega la liberazione condizionale in assenza di attività riparative.
Sono segnali in base ai quali l’Autore manifesta perplessità, le quali non riguardano la riparazione in sé, quale prospettiva di superamento dell’egemonia culturale del paradigma sanzionatorio, ma l’eventuale accentuazione di profili di emenda morale che potrebbero spingere anche la prospettiva rieducativa verso orizzonti «che trascendono la sobria e laica prospettiva di stretta delimitazione di una legittima offerta rieducativa alla sola sfera della legalità esteriore» (p. 100).
Venendo alle conclusioni, l’opera di Fiandaca è un importante ponte comunicativo verso la società: si fa carico di un compito non facile, poiché il testo è un continuo stimolo a riflettere sulle sfumature e sui lati oscuri di concetti retoricamente efficaci; è un invito a non farsi sedurre da ideologie, penalistiche o meno, e soprattutto a non dare per scontata la “giustizia” della punizione. Da questo punto di vista potremmo definire tale studio quasi come anacronistico o comunque distonico rispetto all’attuale trend politico culturale basato su dicotomie manichee, formule sloganistiche e altre similari forme di antidoto al pensiero critico. Ma proprio in questa riottosa resistenza sta il valore di un’opera che cerca di avvicinare il pubblico a questioni che sono parte della quotidianità di ciascuno: l’esperienza della punizione non è solo quella del carcere e della responsabilità penale, ma si può materializzare in ogni dinamica conflittuale delle relazioni umane.
Parallelamente, l’inquietudine intellettuale di Fiandaca e le sue riflessioni sul ruolo sociale dello studioso di diritto penale incarnano una coscienza critica che cerca di ravvivare la tensione etica legata al compito di chi è chiamato a riflettere su problemi di responsabilità nell’agire umano: chi “maneggia” materiali normativi da cui può dipendere la libertà personale dei cittadini non può accontentarsi di «critiche confinate nei ristretti circuiti accademici e […] contestazioni prevalentemente platoniche» (p. 170).
Il diritto penale è un prodotto culturale, è parte della cultura in cui viviamo: allo studioso di diritto penale spetta il gravoso compito di confrontarsi non solo con norme ma con la cultura che fa loro da sfondo: con gli universi fattuali, sociali e simbolici che formano tale cultura.