Il volume di Stefano Cavallini, magistrato presso il Tribunale di Monza e dottore di ricerca in diritto penale presso l'Università di Pavia, si apre con una prefazione dei proff. Sergio Seminara e Francesco Mucciarelli e già nel titolo offre al lettore il punto di partenza e di arrivo della monografia. Lo studio, infatti, si concentra sulle fattispecie di bancarotta patrimoniale prefallimentare, alla svolta – ad oggi rimandata dalla pandemia – dalla legge fallimentare al codice della crisi e dell’insolvenza, e prova ad offrire al lettore una rinnovata razionalità di sistema, facendo perno sul disvalore di contesto e sulla capacità delle soluzioni negoziali della crisi di illuminare la funzione politico-criminale della risposta del vecchio gendarme in materia.
L’opera si apre con una ricognizione delle principali criticità del diritto vivente. Il primo capitolo, in particolare, è dedicato alle questioni di carattere più trasversale alle incriminazioni, individuate (a) nella rarefazione dell’oggetto materiale, (b) nel ricorso a presunzioni di responsabilità spesso malamente mascherate dietro a massime d’esperienza, (c) nel sindacato giudiziale sulle scelte imprenditoriali, con conseguente riconduzione di cattive decisioni gestorie nell’alveo delle ipotesi di bancarotta patrimoniale fraudolenta e, infine, (d) nelle scorciatoie probatorie utilizzate dalla giurisprudenza per ritenere integrati gli illeciti dolosi contestati in forma omissiva agli amministratori di fatto o privi di delega. Secondo l’A., già da questa prima analisi, si evince che «l’approccio giurisprudenziale a diversi snodi di sistema del diritto penale dell’insolvenza è improntato, almeno tendenzialmente, alla massimizzazione dell’effettività delle fattispecie incriminatrici» (53), tanto da sconfinare in una “iper-effettività”.
Il secondo capitolo è poi dedicato a quelli che – a parere dell’A. – sono i campioni dell’iper-effettività, ovvero, le condotte di distrazione e di operazioni dolose. In particolare, la bancarotta distrattiva patrimoniale avrebbe sottratto spazi di incriminazione ad altre fattispecie, punite meno severamente o che richiedono un accertamento processuale assai più complesso; a titolo esemplificativo, alla prima ipotesi l’A. riconduce il caso dei pagamenti autoliquidati degli amministratori dei propri compensi, più correttamente sussumibili nella bancarotta preferenziale; nella seconda casistica si annovera, invece, la riconduzione di operazioni complesse di scissione che, proprio per il loro svilupparsi in una pluralità di atti, dovrebbero essere vagliate alla luce del tipo delle operazioni dolose, che, come noto, differentemente dalla bancarotta patrimoniale distrattiva, è reato d’evento.
Identificate tali questioni applicative, l’A. compie nel terzo capitolo un cambio di prospettiva, passando, per usare le espressioni dell’opera, dal diritto vivente al dato normativo positivo: «se con il primo – si legge – si è sperimentata l’iper-effettività del sistema, quest’ultimo contribuisce a rivelare il profondo tasso di irrazionalità delle risposte punitive comminate dal legislatore: non solo sul terreno della formulazione dei singoli tipi delittuosi, ma anche rispetto alle opzioni politico-criminali globali del diritto penale concorsuale» (88). Segnatamente, l’analisi mira a verificare la ragionevolezza delle cornici edittali a fronte dei nuclei di disvalore che caratterizzano ciascuna fattispecie ed ha buon gioco l’A. nell’evidenziare, ad esempio, quali profonde disarmonie segnino l’art. 223 l. fall., che attribuisce un’identica risposta sanzionatoria a fattispecie di pericolo concreto dolose (i.e. la bancarotta patrimoniale distrattiva pre-fallimentare) e di evento dolose (i.e. la bancarotta da reato societario). Qui si salda l’analisi critica svolta tra “diritto vivente” e “dato normativo positivo”: tutto considerato, «non stupisce, allora, il risultato empirico, ovvero la tendenza all’impiego, nella prassi, delle figure più malleabili [i.e. la bancarotta distrattiva e per operazioni dolose, n.d.r.], in aggiunta a (o a discapito di) quelle più ricche sul piano descrittivo e, in tesi, più confacenti alla sussunzione del caso concreto», a fronte, peraltro, della medesima risposta sanzionatoria (tendenzialmente draconiana).
Terminata la pars destruens, con il quarto capitolo l’A. inizia ad offrire al lettore la propria ipotesi di lavoro per recuperare – per quanto possibile – razionalità al sistema. Il punto di partenza non poteva che essere la bancarotta distrattiva pre-fallimentare, ovvero le figura identificata come più controversa sul piano della giustificazione razionale della risposta sanzionatoria a fronte del disvalore complessivo del reato ed individuata come assoluta protagonista del diritto vivente. Due sono i vettori del cambiamento, finalizzato ad una definitiva consacrazione dell’illecito penale in parola quale reato di pericolo concreto rispetto alla garanzia per i creditori: il primo, cui è dedicato il quarto capitolo, è la corretta esegesi della sentenza dichiarativa di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità intrinseca. Per addivenire a tale conclusione, l’A. analizza in chiave critica le diverse posizioni espresse in dottrina e in giurisprudenza, valorizzando la necessità di ricercare un’esegesi costituzionalmente rispettosa dei principi di offensività e colpevolezza che non si traduca, tuttavia, nel tradimento del dato normativo. In sintesi, per l’A., «la declaratoria giudiziale si atteggia a spia del bisogno di pena, determinando una restrizione dell’area del punibile (in relazione a fatti di per sé già meritevoli di sanzione) non implicante alcun vulnus al principio di colpevolezza: l’alternativa tra l’incriminazione immediata del fatto-base di bancarotta e la subordinazione della punibilità ad un quid pluris a esso esterno, in altre parole, viene risolta nel senso della postergazione dell’intervento penale, onde evitare conseguenze traumatiche e distorsive» (182).
La definitiva consacrazione della bancarotta distrattiva quale reato di pericolo concreto, tuttavia, si realizza anche attraverso un secondo fondamentale vettore, oggetto di analisi nel successivo quinto capitolo, ovvero l’influenza della disciplina civilistica sulle fattispecie incriminatrici. Sul punto l’A. compendia il lungo percorso di riforme che dal 2005 fino al codice della crisi e dell’insolvenza ha segnato un cambiamento radicale nella logica di fondo del diritto civile, passato, appunto, dall’essere “diritto fallimentare” a “diritto della crisi e dell’insolvenza”. Questa trasformazione ha indirettamente, ma profondamente, cambiato la ratio di sistema, sempre più orientato a conservare fin dove possibile il valore dell’impresa, lasciando alle soluzioni liquidatorie la scomoda posizione di ultima ed extrema ratio, esito disvoluto dall’ordinamento che offre all’imprenditore e ai creditori un ampio ventaglio di soluzioni negoziali, finalizzate a non disperdere il valore dell’organizzazione unitariamente intesa. Tale rivoluzione copernicana ha trovato una epifania penalistica limitata, ma pur tuttavia significativa, secondo l’A., nell’incriminazione disegnata dall’art. 236-bis l. fall., diretta – si perdoni la semplificazione necessaria ai presenti fini – a proteggere il corretto svolgimento delle soluzioni negoziali, oltre che nell’esenzioni da responsabilità contenute nell’art. 217-bis, norma scriminante che cristallizza (pur con alcuni difetti di formulazione) l’opzione legislativa a favore della conservazione dell’impresa, anche ove passi da operazioni economiche che ex post possano aggravare il dissesto o favorire alcuni creditori a danno di altri.
Partendo dalle innovazioni extra-penalistiche l’A. espone la propria tesi centrale nel successivo capitolo sesto, addivenendo alla conclusione che di fronte alla crisi d’impresa (di cui viene tracciata una proposta definitoria) l’imprenditore o l’amministratore si trovi davanti ad un bivio; (i) accedere alle soluzioni negoziali della crisi, godendo delle “esenzioni” garantite dall’art. 217-bis l. fall.; (ii) gestire la crisi al di fuori di tali istituti. Proprio tale seconda modalità – si potrebbe dire autarchica – di gestione della crisi rappresenta l’habitat – unico ed ideale – della bancarotta distrattiva pre-fallimentare: l’insufficienza – attuale o prossima – della garanzia per i creditori, gestita al di fuori delle soluzioni procedimentalizzate dal legislatore, costituisce l’imprescindibile disvalore di contesto richiesto per l’integrazione del tipo delittuoso.
In questa prospettiva, secondo l’A., si perviene a distinguere nitidamente le fattispecie di pericolo e quelle di danno: «se le ipotesi del comma I [art. 223 l. fall.] tipizzano le diminuzioni patrimoniali, concretamente pericolose per la garanzia tenute in costanza di crisi/insolvenza, le fattispecie descritte nel capoverso potrebbero prestarsi, piuttosto, a incriminare condotte direttamente causative del dissesto, dunque, serbate in un contesto di impresa in bonis» (328). Per l’A., il tentativo di ridare razionalità al sistema attraverso la ricostruzione prospettata deve passare da una necessaria e ulteriore “verificazione” e “falsificazione” della tesi, che guardi specificamente alle fattispecie causali d’evento. Il momento di verificazione della tesi attiene alla possibilità di superare l’irrazionalità punitiva che segna l’art. 223 l. fall., già analizzata nel IV cap., ovvero la parificazione sanzionatoria tra reati di pericolo (I comma) e di danno (II comma), di cui epigone prasseologica è la relazione tra bancarotta distrattiva e da reato societario (i.e. infedeltà patrimoniale): secondo l’A., «attraverso la valorizzazione del disvalore di contesto, il sistema sembra riacquistare una sua coerenza di fondo, con l’”arretramento” della ricerca di tratti di bancarotta nei comportamenti dei vertici societari anteriori al manifestarsi della crisi ”compensato” (anche in punto di determinatezza) dalla più specifica caratterizzazione del segmento iniziale (almeno quanto ai reati societari) e di quello finale delle fattispecie dell’art. 223 cpv.» (341). Per tale via, prosegue l’A., risulta confermato «il consistente riallineamento dei nuclei di disvalore delle diverse figure, la cui comparazione, altrimenti dagli esiti largamente deficitari, assume contorni di maggiore ragionevolezza, essendo il più accentuato disvalore di contesto dell’art. 223, comma I incaricato di sopperire al surplus di lesività offerto dalla polarizzazione sull’evento-danno delle figure limitrofe» (p. 341).
Il test di “falsificazione” mira, invece, a saggiare il verificarsi di un possibile effetto iatrogeno dell’esegesi prospettata, ovvero il rischio che i delitti d’evento e, in particolare, la bancarotta per operazioni dolose, divengano un luogo di sindacato giudiziale delle scelte imprenditoriali, magari ex post rivelatasi non vantaggiose, ma pur sempre lecitamente assunte. L’A. evidenzia che tale rischio è scongiurato dalla corretta delimitazione del perimetro di tipicità dell’incriminazione, giacché «le operazioni dolose si prestano infatti ad attrarre le situazioni (non contemplate, appunto, dalle residue ipotesi, donde la funzione residuale) di perseguimento “deviato”, “anomalo” dell’interesse sociale, di curvatura patologica nella ricerca del profitto»; più specificamente, a tale modalità di aggressione – sempre secondo l’A. – sono da ricondurre «non solo i reati comuni commessi (…) in danno della società (e, di rimbalzo, nell’ottica del sopraggiunto dissesto, dei creditori sociali: tipico l’esempio dell’appropriazione indebita, laddove non sussumibile già nella causazione dolosa del dissesto), ma anche i casi in cui l’immediato conseguimento di benefici patrimoniali per l’ente inneschi, per le modalità illecite che lo hanno caratterizzato, lo sbocco concorsuale (…) [come] i casi della raccolta del risparmio tra il pubblico in assenza di autorizzazione e la conseguente concessione di credito senza preventiva verifica del merito dei debitori beneficiari, ovvero dello sconto bancario di crediti in realtà inesistenti» (pp. 251-252).
Nelle brevi conclusioni l’A. riannoda i fili della ricerca e sottolinea la necessità di un profondo intervento di riforma del sistema penale dell’insolvenza, licenziandosi con l’invito (forse più con il monito) di Giorgio Marinucci[1] a «continuare a pensare e lavorare in termini progettuali (…), [per non] abdica[re] ai nostri doveri culturali e politici».
[1] G. Marinucci, Relazione di sintesi, in A.M. Stile (a cura di), Bene giuridico e riforma della parte speciale, Napoli, 1985, p. 364.