Recensione  
12 Luglio 2025


L’amore in gabbia, intorno all’affettività e alle sue prigioni


Fabio Gianfilippi

Recensione a Donatella Stasio, L'amore in gabbia. La ricerca della libertà di un reduce dal carcere, Castelvecchi, 2025


Donatella Stasio ha appena pubblicato per Castelvecchi “L’Amore in gabbia”. Nel sottotitolo leggiamo che si tratta della “ricerca della libertà di un reduce dal carcere”. È la storia, raccontata attraverso il fitto dialogo con l’autrice, di Gianluca, che ha conosciuto a lungo la detenzione nel nostro Paese e che, ora che ce l’ha alle spalle, come “uno che ce l’ha fatta”, può raccontarci non solo quello che ha provato vivendola, ma quello che ne è rimasto, quando a libertà riacquistata ha compreso che il cammino per ottenerla davvero cominciava, in un certo senso, soltanto allora.

Luglio 1975. Nasce Gianluca, nella periferia di una Milano in crescita. Conosce presto un senso di emarginazione che è insieme sociale e personale. Incontra la droga. Poi il carcere, minorile e per adulti. La sua storia è eccezionale, come ogni storia personale sa esserlo. E come ogni storia può farsi esempio di tante altre. Un padre morto troppo presto e una madre che, oppressa dalla necessità di crescere i suoi figli, sviluppa una infinita difficoltà ad entrare in relazione emotiva con loro. Un figlio, Gianluca, per il quale l’incontro con il carcere si rivela per troppo tempo occasione per introdursi con più capacità nel mondo del crimine e per cristallizzare le carenze emotive vissute, in un guscio di impermeabilità ai sentimenti. Poi avviene l’incontro con il carcere di Milano “Bollate”, e uno stile di relazione tra operatori penitenziari e persone detenute in grado di stimolare prima, e intercettare poi, segnali di apertura, primi timidi passi fuori dal carapace di immobilismo che spesso è la casa di chi è privato della libertà. Una esperienza che si consolida in un programma esterno e poi in una libertà fatta di lavoro e di impegno positivo nel contesto sociale. Ciò che siamo stati, la penombra che abbiamo attraversato (Lalla Romano) nell’infanzia, le luci abbacinanti e il nero assoluto della nostra adolescenza, una maturità guadagnata e sdrucita, è quel che l’oggi di ciascuno si porta dietro. Gianluca se lo porta nelle sue relazioni, nella difficoltà di vivere in spazi chiusi che, anche lontanamente, ricordino il carcere, nel rovello di una affettività che ha dovuto spingersi al limite per compensare il dolore, e che fa fatica a liberarsi. Una storia, quindi, che priva di qualsiasi “vissero felici e contenti” si fa vicinissima e vera, con i punti di forza ben in vista, ma uno sguardo onesto alle conseguenze, durature, di una lunga sottrazione alla libertà degli affetti.

Luglio 1975. È legge l’ordinamento penitenziario. Con un ritardo di ventisette anni dall’entrata in vigore della Costituzione e preceduta da importanti pronunce della Corte costituzionale, che avviavano il percorso, tortuoso e fondamentale, per far emergere il “volto costituzionale” delle pene. Si andava finalmente oltre i retaggi di un carcere vecchio, eredità, non solo edilizia, dei decenni del fascismo. Diveniva legge una riforma organica destinata a dare centralità alla persona detenuta e alle sue libertà residue nei confronti dell’amministrazione penitenziaria, tenuta ad una individualizzata offerta trattamentale e a rispettare la dignità di chi le è affidato in custodia. Nel cinquantenario di quella data, molti momenti di incontro stanno consentendo in questi mesi un bilancio, che è inevitabilmente di luci e ombre. Riconosciuta la centrale importanza del mantenimento delle relazioni familiari per poter sviluppare veri percorsi risocializzanti, la legge penitenziaria del ’75 restava però chiusa alla possibilità di incontri affettivi intimi, privi del controllo a vista del personale, che consentissero l’esercizio di una affettività fatta anche di corpi, di sessualità e di tenerezza.

Donatella Stasio, in controcanto alla storia di Gianluca, che ha conosciuto un carcere dunque privo di questi spazi, e descritto come in tutto orientato alla negazione della dimensione affettiva delle persone detenute, ricorda la sentenza della Corte costituzionale n. 10/2024, che quel divieto l’ha superato, aprendo lo spazio ai colloqui intimi tra le persone detenute e i propri familiari. Una strada appena aperta, che vede allo stato un solo istituto penitenziario che si è attrezzato con una stanza in cui questi colloqui affettivi possano avvenire. Si interrogano l’autrice e Gianluca sul senso di questa nuova possibilità, e chi è stato reduce da un lungo percorso di dolore, come quello del carcere che conosciamo, non può che rimanere perplesso. Come può un carcere che, strutturalmente e culturalmente, nega i sentimenti, concepire questi spazi di intimità e sessualità? È un quesito decisivo. L’apertura agli incontri intimi, con gli occhi del magistrato di sorveglianza, si traduce in una contraddizione che può far vacillare un paradigma di azione che veda il tempo del carcere come meramente incapacitante. E si fa momento di confronto con la propria dimensione relazionale, in grado di far crescere i propositi e i progetti di reinserimento sociale su basi più ancorate al piano di realtà. Spesso le famiglie, lontane, sono indicate dalle persone detenute come perfette. Il quotidiano di privazione come ciò da cui allontanarsi per far ritorno a loro. Eppure, la realtà è sempre lontana da ogni perfezione, si costruisce in una quotidianità di accettazione dei limiti e di crescita condivisa, di abbracci sghembi, di tentativi di venirsi incontro, e allora ogni istante guadagnato all’intimità può restituire alla persona un frammento della propria dignità e al contesto del carcere una migliore consapevolezza che chi è detenuto non la perde, in nessun caso, perché è finito in quel luogo.  

Mi ha colpito la recente lettura del bel libro di Nicolas Fargues nel quale l’autore riassume i mesi di una sua esperienza di scrittura in carcere in Francia (On est le mauvais garcon qu’on peut, P.O.L. 2024). Quanto somigliano i problemi del carcere parigino di cui si parla a quelli che sperimenta chi conosce il nostro carcere! E lì si citano senza alcuna curiosità i parloirs familiaux, da tempo disponibili, ci si è fatta l’abitudine, e non se ne potrebbe più fare a meno. Non risolve, di certo, tutto ciò che il sovraffollamento carcerario porta con sé in termini di “desertificazione affettiva” e di carenza di programmi di reinserimento individualizzato, ma si pone come pietra di inciampo rispetto all’inevitabile spersonalizzazione che dai grandi numeri deriva.

L’amore in gabbia” si svolge per un ampio tratto in un setting carcerario, che l’autrice padroneggia in modo perfetto, da giornalista che da anni, e in molti modi diversi, si è interrogata su questo mondo e sul suo significato, di fronte al drammatico gap tra altissimi principi costituzionali e l’esistente, sempre marginalizzato nel dibattito pubblico, incompreso e abbandonato alla carenza di risorse, elevata al rango di pena aggiuntiva inevitabile.

Tuttavia, il racconto della storia di Gianluca e il suo percorso attraverso il carcere e dopo, costituiscono, nel libro, soprattutto il banco di prova per affrontare un tema diverso e davvero più ampio: la delicatezza del congegno dell’affettività. Ci coinvolge. Mi viene da dire che è il punto in cui oggi siamo tutte e tutti più scoperti. Trasversale, attuale, irrisolto. Di fronte alla complessità delle relazioni, l’amore appare da un lato sempre in gabbia, e dall’altro sempre alla ricerca di una via d’uscita, di maggior libertà, di più profonda comprensione, di una stabilità che le regole del mondo contemporaneo non contribuiscono più a puntellare dall’esterno e che, perciò, è rimessa alla nostra costruzione personale, e alla sua fragilità. Nel tempo dell’amore liquido (Bauman), della persona che teme di divenire uno scarto, come scarto sono i tanti oggetti che ci circondano, il carcere si fa emblema, e può essere segno della nostra resistenza a buttar via le persone che in qualche modo si sono spezzate. Al contempo le gabbie in cui ci troviamo finiscono per facilitarci, ci giustificano.

In qualche modo la privazione dell’affettività in carcere consente di vagheggiare un altrove, mentre la possibilità di viverla rende inevitabile un confronto con la realtà. Le gabbie cadute del nostro oggi, in cui ci si scopre ogni giorno in balia di una possibile diversa lettura di noi stessi, e del significato delle nostre vite, ci lasciano nudi di fronte all’amore. L’altra persona da guardare, comprendere, accogliere, toccare, custodire nel cambiamento e, a volte, lasciar andare. Un moto che porta fuori da noi stessi e ci restituisce a noi stessi. Un viaggio che facciamo con Stasio e Gianluca fuori e dentro una certa gabbia, ma ci racconta di dignità e sbarre che toccano tutte e tutti i reduci, non solo dal carcere, come nel sottotitolo del libro, ma dal proprio passato.