*La recensione che segue è già stata pubblicata su Giustizia consensuale (n. 1/2022). La pubblichiamo nuovamente con il consenso dell'Editore, che ringraziamo.
Una giustizia che è “altra” e, allo stesso tempo, “alta”.
Sono queste le parole chiave del pensiero che Maria Martello tesse in questa nuova Opera dedicata alla mediazione: no, non solo alla mediazione; soprattutto: alla vita dei conflitti. Nascono, si sviluppano, si rafforzano, feriscono: durano. Poi, muoiono. Le ceneri dei conflitti sono, tuttavia, piene di scintille, di mozziconi di sentimenti sparsi lì a caso: pronti ad ardere di nuovo, e riaccendersi. La “perfetta liturgia giudiziaria” stenta a governarli: la sentenza in sé definisce il giudizio ma non compone il conflitto. Chiude il processo ma non risolve il dilemma alla base della lite. Per molti (troppi) casi, la sola giurisdizione non fa altro che “riassestare” la posizione dei litiganti, cercando di offrire un equilibrio tra di loro: l’uno di fronte all’altro. Ma senza composizione del conflitto, l’equilibrio è spesso precario perché, ognuno dei contendenti è pronto, all’occasione, a sferrare la mossa del kuzushi: quella che serve a sbilanciare l’avversario per riportarlo nel vivo della lite: e, dunque, il processo. Di nuovo. Maria Martello muove la linea della sua penna proprio da questo punto principale ossia la differenza tra “conflitto” e “contenzioso legale”, aprendo la propria “lectio magistralis” con insegnamenti che riposano su un forte coraggio alimentato da grande esperienza: «il giudizio danneggia le relazioni». La giustizia “del processo e nel processo” vive di proprie regole che non ci conciliano con le esigenze soggettive dei suoi protagonisti: e ciò che è paradossale sta nella sensazione di sconfitta che residua finanche nel vincitore. Gli esempi di Maria Martello non mancano: non ipotesi astratte ma scene di vita vissuta. Come la signora vittima di un furto che davanti al giudice freme per raccontare la propria sofferenza e resta delusa al cospetto della domanda del magistrato: “di che colore era il cappellino del ragazzo che l’ha rapinata?”. Ma quel tribunale ha necessità di raccogliere le prove della colpevolezza dell’imputato: e la sofferenza della signora non è oggetto del procedimento. Maria Martello dipinge le scene di vita processuale con l’abilità di una ritrattista: è questa la fisiologia delle aule di udienze. Tutte le parti in causa, tutti i protagonisti del processo, vogliono sentirsi “narratori del proprio conflitto” e lo fanno davanti a una rete a maglie strettissime che filtra solo gli elementi utili e necessari per la decisione: c’è tanto spazio per il Diritto e non ci sono mai sufficienti posti liberi per i sentimenti. Processo e Conflitto diventano le moderne facce opposte di Giano bifronte, destinati ad essere così vicini e, allo stesso tempo, così distanti.
Ma è questa la giustizia che vogliamo? Soprattutto, utilizzando le parole di Maria Martello: questa “Giustizia garantisce un servizio alla persona?” Se non limitiamo il senso del servizio alla pronuncia della decisione finale che “distribuisce i torti e le ragioni”, forse allora no: se “Giustizia” è anche il “risanamento delle relazioni delle parti” allora assistiamo allo spettacolo di una giustizia con un copione perfetto ma un finale mai appagante. Da qui la visione propositiva di Maria Martello nel senso di “pensare” a una forma di giustizia “diversa” e perciò “altra”, intesa come alternativa offerta ai litiganti in occasione del processo, somministrata come una prima dose di quel vaccino che può curare il conflitto, senza – ebbene sì! - bisogno del giudice. Una giustizia di “plurimi servizi” «all’interno del processo» e «al di fuori del processo». Maria Martello offre una lettura della “nuova giustizia al servizio della persona” che non è più soltanto “idea”, bensì diritto positivo. L’Italia, infatti, dirige lo sguardo del processo sempre più verso una fabbrica di servizi ove inclusa, in modo consistente, quella “giustizia altra” che può raggiungere l’obiettivo finale: comporre il conflitto piuttosto che chiudere il processo. Si trova qui un rapporto che non è bilaterale: perché se chiudi il processo e non componi il conflitto, al contrario, se componi il conflitto certamente chiudi il processo. Tracce evidenti di questo percorso del Legislatore si rinvengono, da ultimo, nella cd. riforma Cartabia, ossia la delega legislativa contenuta nella legge n. 206 dello scorso dicembre che, tra l’altro, punta alla “revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie”. Diversi i settori di “promozione” e “investimento” nel settore degli strumenti che partecipano al concetto di “giustizia altra” dove spiccano, in particolare, i ritocchi alla disciplina degli incentivi fiscali per rendere il ricorso agli strumenti di composizione del conflitto più appetibili ed economici, oltre che vantaggiosi dal punto di vista economico. Tra le altre misure, la delega rimanda all’Esecutivo di prevedere: l'incremento della misura dell'esenzione dall'imposta di registro; il riconoscimento di un credito d'imposta commisurato al compenso dell'avvocato che assiste la parte nella procedura di mediazione, nei limiti previsti dai parametri professionali; l'ulteriore riconoscimento di un credito d'imposta commisurato al contributo unificato versato dalle parti nel giudizio che risulti estinto a seguito della conclusione dell'accordo di mediazione; l'estensione del patrocinio a spese dello Stato alle procedure di mediazione e di negoziazione assistita; la previsione di un credito d'imposta in favore degli organismi di mediazione commisurato all'indennità non esigibile dalla parte che si trova nelle condizioni per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato; la riforma delle spese di avvio della procedura di mediazione e delle indennità spettanti agli organismi di mediazione. La riforma – va evidenziato - non guarda solo alla forma ma tanto anche alla sostanza prevedendo, ad esempio che la delega riordini «le disposizioni concernenti lo svolgimento della procedura di mediazione nel senso di favorire la partecipazione personale delle parti, nonché l'effettivo confronto sulle questioni controverse».
L’istituto della mediazione è privilegiato nelle scelte nazionali e questa impostazione merita favore se non altro proprio alla luce della lettura che ne dà, autorevolmente, Maria Martello: “con la mediazione la contrapposizione vincitori/vinti è superata con decisioni creative che fanno pervenire alla sua soluzione”. Certo, va detta una cosa: mediatori non si nasce! Si diventa. Il mediatore è un professionista qualificato, formato, culturalmente attrezzato. La stessa Martello lo ripete più volte: un conto è fare mediazione, un conto è essere mediatore. Perché accada “il miracolo della mediazione” «il mediatore deve saper affrontare le resistenze di un mondo formatosi all’insegna della lotta per la supremazia»: il mediatore deve essere formato. Di ciò è consapevole anche il Legislatore della riforma che sembra quasi raccogliere il monito di Maria Martello invitando l’organo legiferante delegato a “procedere alla revisione della disciplina sulla formazione e sull'aggiornamento dei mediatori, aumentando la durata della stessa, e dei criteri di idoneità per l'accreditamento dei formatori teorici e pratici, prevedendo che coloro che non abbiano conseguito una laurea nelle discipline giuridiche possano essere abilitati a svolgere l'attività di mediatore dopo aver conseguito un'adeguata formazione tramite specifici percorsi di approfondimento giuridico, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. In altri termini: il mediatore ha una sua dignità professionale che deve emergere e solo così può esprimersi; per usare le parole di Maria Martello, la mediazione è «un’arte». Proprio il secondo capitolo (parte prima) dell’Opera della Martello (“L’arte di mediare i conflitti”) è una preziosa fotografia sincera della mediazione: chi è, come opera, cosa fa, come cambia i conflitti. Questo punto è importante ed emerge chiaramente nella didattica esperta della Martello: l’arte del mediatore è quella di trasformare circostanze negative – purtroppo sempre possibili, prima o poi, nella vita di tutti – in eventi dei quali sappiamo cogliere i risvolti nascosti, in una concreta possibilità di indagare il proprio modo di stare al mondo e la natura dell’altro, la “controparte”. La mediazione, frutto di un artigiano capace, deve però poggiare le basi su un terreno fertile, in grado di coglierne valore e importanza: e, qui, la Martello richiama all’esigenza di un percorso culturale, quasi educativo dei cittadini. Impariamo l’importanza del medico non al momento della terapia, ma con l’informazione che riguarda le sue funzioni, il suo operato. Chi ci insegna l’importanza della mediazione? Un dovere civico per Maria Martello.
Si è discorso, poco fa, di “miracolo della mediazione”: non a caso. Maria Martello promuove una mediazione in termini di “miracolo possibile” a cui accosta una “scuola di miracoli”. Certo una metafora del genere attribuisce ad eventi eccezionali il realizzarsi della mediazione, quasi ad un “deus ex machina” del teatro greco. Così non è. La parte seconda dell’Opera di Maria Martello – con una consapevolezza piena del tessuto normativo e ordinamentale italiano – tocca tutti i punti strategici ed essenziali attraverso cui approdare a una mediazione “possibile”, anche se miracolosa. C’è un “racconto” del conflitto, una “descrizione” del conflitto, una “analisi” del conflitto: e tutto ciò conduce ad un nuovo paradigma per gestirlo (attraverso cinque semplici punti). Maria Martello mettendo bene in risalto il cuore della mediazione - “un giudizio che non giudica” – si dedica, quindi, a una sua lucida e attenta analisi anche nella sua dimensione di “istituto giuridico”, accertando ciò che non c’è, ciò che invece c’è, ciò che potrebbe esserci.
Fin qui si è sempre aggettivata la giustizia che passa attraverso la pacificazione dei conflitti come giustizia “altra”: ma Maria Martello, a conclusione della sua Opera, spiega che essa è anche “alta”, e anzi lo è ancor prima di essere altra. Parafrasando il pensiero di Maria Martello “la mediazione è una risorsa da considerare persino non di esclusiva pertinenza delle liti che sarebbero destinate a finire di fronte a un giudice, ma pratica quotidiana di assoluto rilievo sociale. Dovrebbe essere lo schema interiore che guida il modus operandi di ciascuno a fronte di qualsiasi avversità che si presenti nel quotidiano, comunque e da chiunque generata. A questo avvia la mediazione che, nel contempo, è via per trovare le soluzioni ma anche esperienza, modellabile e ripetibile autonomamente, di un modo nuovo di gestire i conflitti. Un vero percorso di autoformazione per chi ne fruisce!”.
Il carattere nobile dell’ars mediatoria trasuda abbondantemente in ogni pensiero di Maria Martello: conquista, travolge, appassiona. Questo aspetto è già esso testimonianza del potere “trasformativo” dei Mediatori: si, quelli con la “M” maiuscola. Maria Martello, tassello dopo tassello, getta elementi rivelatori della sua idea della mediazione e, ancor più, della figura del «mediatore» e lo fa con parole tanto semplici quanto, ahimè, oggi dimenticate: gentilezza, dolcezza, ascolto. Oggi forse trascuriamo troppo l’importanza del sorriso come strumento per accogliere una persona, l’essenzialità di un linguaggio gentile perché “l’altro” possa sentirsi a suo agio, la forza delle “parole” che possono emozionare ma anche tagliare come la lama di un coltello. E, dimenticandoci di questo – la forza delle cose semplici a disposizioni di tutti noi – restiamo a nostra volta travolti dai conflitti: quelli che si insediano negli animi che smettono di essere aperti all’altro, con una idea positiva delle persone e della capacità di cambiare i contesti in cui ci troviamo. Di fatto, l’Opera di Maria Martello è un tributo all’ottimismo: dopo averla letta, inconsapevolmente, il lettore si rende conto di essere stato egli stesso cambiato. In bene, in meglio: l’epifania della mediazione – che si rivela in tutto il suo aspetto attraverso le parole di Maria Martello – ha una forza che conquista. E, seguendo le ferme parole di Maria Martello ci si rende conto che, ognuno, per sua parte, può far la differenza nei conflitti come nella società: ma questo impone di aprirsi al vento delle soluzioni innovative, del “diverso che può essere meglio” avendo il coraggio, se serve, di cambiare direzione, anche se non è quella che imboccano tutti gli altri.
Non stupirà.
Nessuno ha mai fatto la differenza restando come gli altri.
Ora l’ho capito bene. Grazie, Maria.