Recensione a Maurizio Catino, Trovare il colpevole. La costruzione del capro espiatorio nelle organizzazioni, il Mulino, 2022; trad. in inglese: Scapegoating - How organizations assign blame, Cambridge University Press, 2023.
Il pregevole volume del sociologo delle organizzazioni alla Università Milano-Bicocca Maurizio Catino, pubblicato nel 2022 dal Mulino e ora tradotto in inglese per i tipi della Cambridge University Press, ruota attorno al paradigma del capro espiatorio, una costante della storia dell’umanità e dell’interazione sociale, la cui ombra si distende fino alle società odierne che definiamo avanzate, secolarizzate e civilizzate. In effetti, in un’epoca in cui tutto cambia e si trasforma a una velocità che lascia attoniti, l’unica passione che non pare risentire dell’usura del tempo è quella di additare nemici su cui scaricare le frustrazioni collettive, i sentimenti di paura e insicurezza che sovente sfociano in rabbia, risentimento e odio, e che riescono a quietarsi solo mediante la ricerca di un facile bersaglio.
Il capro espiatorio, com’è noto, è un topos della letteratura antropologica, sociologica, etnografica, psicoanalitica, filosofica e, inevitabilmente, anche filosofico-giuridica. La stessa dottrina penalistica ha dedicato grande attenzione al tema, a conferma dei nessi che intercorrono tra questa dinamica iscritta nel corredo psico-sociale dell’umanità e le esperienze punitive di ogni tempo e ogni luogo, con il doloroso cascame di ingiustizie che ciò reca con sé[1].
La cifra originale del saggio monografico di Catino sta nel mettere in risalto che la ricetta del capro espiatorio, questo rifuggire dalla complessità a favore della risposta semplificatoria, riguarda non solo intere comunità ma anche e (forse) soprattutto le organizzazioni complesse, microcosmi sociali divenuti una componente fondamentale dell’esistenza umana. Parliamo, ovviamente, di agenti socialmente inseriti e di organizzazioni lecite che fungono da sistemi di cooperazione e coordinamento delle attività individuali[2].
Sotto questo profilo, il volume fornisce una solida base socio-empirica alle riflessioni che da svariati decenni la dottrina penalistica dedica al rispetto dei principi fondamentali, a partire dall’art. 27, comma 1, Cost., nell’imputazione dei fatti che promanano dai contesti organizzati, endemicamente esposti al rischio di “responsabilità da posizione” e “presunzioni di colpevolezza”.
L’interesse che suscita il volume nel giurista dedito allo studio dei delitti e delle pene discende anche dalla scelta dell’Autore di testare le sue tesi mediante una penetrante analisi di vari casi giudiziari di forte impatto (il naufragio della Costa Concordia in particolare, l’alluvione di Genova, Tangentopoli, ecc.). Un esercizio che ben potrebbe essere replicato per altre recenti vicende di notevole peso (disastro di Viareggio, Rigopiano, per citare solo alcune delle più note).
Nel fornire qualche indicazione sui tanti snodi argomentativi e gli elementi d’interesse dell’opera in rassegna, partirei, con un certo sforzo di semplificazione, da un dato che mi pare poco controvertibile. I rituali del capro espiatorio in origine erano magico-religiosi-comunitari, non avendo carattere giudiziario[3]; oggi – al termine di una plurimillenaria parabola – hanno assunto prevalente fisionomia mediatico-processuale. Procedimento penale e tribunale mediatico (o come si suole dire: la “gogna mediatica”) sono la tenaglia che stringiamo attorno al collo del capro espiatorio di turno, non più uomo ma maschera dolente.
Potremmo indugiare, ma non è questa la sede, sui dubbi che suscita il ricorso, nel contesto che ci occupa, alla metafora della vittima sacrificale, finanche abusata nella narrazione colloquiale o mediatica. È sufficiente pensare al modello ancestrale di capro espiatorio che – come ci ha insegnato, tra i più celebrati studiosi, René Girard – era per lo più il diverso, l’anormale, l’appartenente a categorie emarginate o mal integrate, ergo “nemicalizzato” proprio per la sua spiccata vulnerabilità. È evidente il solco che separa questa figura dal capro espiatorio organizzativo su cui Catino concentra la sua analisi: non il diverso, ma il simile, non l’outsider ma il “più uguale degli altri” (direbbe Orwell), sovente il più potente in una determinata organizzazione, come l’AD di una grande multinazionale. E difatti l’Autore rimarca che il capro espiatorio organizzativo non è il più fragile ma una persona “credibile” – diremmo il “più credibile” esteriormente – nell’assumere tale veste.
Neppure possiamo soffermarci sulla circostanza che vittima della tentazione sacrificale primordiale era normalmente un innocente, perlomeno se osservato con le lenti moderne (“non ha fatto nulla di male…”), mentre il capro espiatorio organizzativo contemporaneo può ben essere implicato nell’illecito: nelle parole dell’Autore, «è un individuo, o un gruppo di individui, coinvolto in qualche modo in un evento organizzativo negativo, rispetto al quale ha dunque un coefficiente di responsabilità, e che finisce per assumersi le colpe anche di altri soggetti e organizzazioni. In taluni casi il capro espiatorio assume questo ruolo in modo consenziente, per convenienza, in altri no» (p. 8). Del resto, nei popoli antichi – come può ricavarsi anche dalle storie dei patriarchi nella Bibbia – non esisteva il concetto di colpevolezza individuale, dacché la colpa era intrinsecamente collettiva (basti qui rinviare a G.P. Fletcher, Collective Guilt and Collective Punishment, in Theoretical Inquiries in Law, vol. 5, 2004, p. 163 ss.); pertanto, potrebbe arguirsi che neppure il prescelto nel ruolo espiatorio era interamente “puro”, incontaminato. Ma il punto è che la questione innocenza/colpevolezza era totalmente avulsa dall’orizzonte cognitivo della mentalità arcaica che permeava i meccanismi salvifici del capro espiatorio.
Stiamo evocando distinzioni assai complesse e per questo incostanti nella letteratura sul tema, alle quali peraltro Catino non si sottrae, tracciandole con una chiarezza alla portata anche del profano nel primo capitolo dedicato, esattamente, a “Forme e tipi di capro espiatorio”.
Ad ogni modo, la ragione che a nostro avviso legittima appieno l’accostamento tra il capro espiatorio organizzativo e l’archetipo del mondo antico, dunque il tratto di continuità e il fil rouge che connette esperienze assai eterogenee, si riassume in questo: il capro espiatorio dei nostri tempi paga anche per colpe non sue, ma dell’ente pluripersonale a cui appartiene. Il trasferimento di colpe collettive sul singolo svolge, secondo le cadenze abituali, una funzione di stabilizzazione della collettività, di ripristino dell’ordine e della tranquillità interna, di neutralizzazione di tensioni e lacerazioni affinché la societas possa continuare come prima.
Si coglie agevolmente, allora, la nocività di questa pratica perversa nella dimensione attuale della Risikogesellschaft, attesa la capacità delle imprese odierne, in cui si concentra il rischio tecnologico-produttivo, di generare pericoli esponenziali e potenzialmente catastrofici per l’incolumità individuale, la salute collettiva, l’ambiente, gli ecosistemi, il clima ecc. In questo contesto, l’unica prevenzione-precauzione sostenibile, in chiave penalistica, è quella organizzativa; per lo meno se ci si prefigge «un diritto penale dell’economia che faccia economia di diritto penale», in ottica di extrema ratio e di efficacia della tutela di beni fondamentali[4].
Tutt’al contrario, il capro espiatorio quale “strumento di razionalità organizzativa” – come lo definisce Catino (cfr. cap. II) – è utilissimo a fini interni per sedare la fibrillazione che si produce nella compagine sociale a seguito di eventi turbolenti o catastrofici, giocoforza non calcolati. Può sì riportare unità, ripristinare l’operatività dell’ente e salvare il blocco di comando; ma se il sistema riparte come prima, permangono le falle latenti, le carenze sistemiche sfociate nell’evento lesivo, e i pericoli possono continuare a propagarsi.
Al lume di questa breve premessa, può capirsi perché il diritto penale tradizionale, quello ritagliato sulla persona fisica in soul e body sia un formidabile (inconsapevole?) congegno di produzione e riproduzione di capri espiatori organizzativi, una volta applicato ai reati di impresa o in contesto pluripersonale complesso.
Nei processi per gli illeciti a matrice organizzativa si cerca di identificare – non di rado con notevole sforzo probatorio – i colpevoli all’interno dell’organigramma. Proprio la congenita difficoltà di selezionare i responsabili rende il tema dei “soggetti” il capitolo cardine della c.d. parte generale del diritto penale dell’impresa. Ma questo letto di Procuste della potestà punitiva classica è anche la cartina di tornasole della sua intrinseca “abilità” nel fabbricare capri espiatori all’interno di organizzazioni.
Il problema, infatti, è che sussiste sempre uno scarto insanabile, un’asimmetria profonda tra genesi del crimine organizzativo e colpa che imputiamo a singoli individui. Chi entra nel radar della macchina investigativa e giudiziaria (spesso plurimi soggetti, per la bulimica pratica delle imputazioni “a raggiera”), paga con processi interminabili e talvolta condanne esemplari colpe che sovrastano le personali capacità e possibilità di incidere su processi decisionali, sfere di rischio e disfunzioni che attraversano un’intera organizzazione o buona parte di essa. Ciò si evince chiaramente anche dalla minuziosa analisi compiuta da Maurizio Catino, come detto con il collaudo empirico di alcune vicende giudiziarie.
La giurisprudenza più avveduta è consapevole di quanto sia delicato individuare con precisione «aree di competenza pienamente autonome che giustifichino la compartimentazione della responsabilità penale», proprio per assicurare lo «scopo del diritto penale [che è] tentare di governare tali intricati scenari, nella […] prospettiva di ricercare responsabilità e non capri espiatori»![5].
Ma poniamo che l’autorità giudiziaria riesca veramente ad assicurare una «accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale e organizzativa all’interno di ciascun ufficio» (così, nella peculiare materia della pianificazione territoriale, Cass., sez. IV, 16 febbraio 2018, n. 14550, est. Serrao, la quale peraltro ha escluso che l’area applicativa dell’art. 40 cpv. c.p. si riduca a obblighi impeditivi strettamente intesi).
Anche in contingenze probatorie ottimali, residuerebbe il nodo segnalato: nella colpevolizzazione individuale in ambito organizzato c’è sempre un’eccedenza di imputazione, un sovrappiù di blaming.
In che modo è colmato, detto altrimenti “razionalizzato”, il gap tra matrice organizzativa del reato e colpa individuale? Proprio ricorrendo, nascostamente, all’escamotage del capro espiatorio organizzativo, che serve ad assorbire la complessità del tutto plurale nel comportamento individuale.
Abbiamo, invero, un intero arsenale dommatico, una ragnatela di concetti e fili logici intessuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza in più di un secolo di speculazione: il costrutto della posizione di garanzia e il concetto di aree di competenza, le varie declinazioni dommatiche della colpa penale, incluse la colpa generica (una nuvola che cambia forma a ogni soffio di vento…), la culpa levis o levissima e ovviamente quella incosciente, la species onnivora di sintesi del reato omissivo improprio colposo in cui obbligo di garanzia e dovere di diligenza tendono ad essere impropriamente sovrapposti, le varie teorie sulla compartecipazione criminosa, ecc. Non è necessario dilungarsi su temi che ormai occupano intere biblioteche giuridiche, se non per rammentare le tante figure idealizzate e perfette che trovano posto nelle eleganti categorie astratte, per giunta esposte a un processo di flessibilizzazione costante: garanti che si moltiplicano a ogni piè sospinto e che vorremmo carismatici, sapienti e imperturbabili nel guidare uomini e governare eventi anche nelle situazioni-limite (paradigmatica la figura del comandante della nave, che nel nostro immaginario è quella dei romanzi di Joseph Conrad); agenti modello che tutto dovrebbero prevedere ed evitare, anche problemi dalla consistenza nomologica estremamente complessa, con una escalation che talora sconfina nella pretesa precauzionale di dominabilità dell’ignoto. Senza dimenticare il propellente del “senno di poi”, la distorsione cognitiva nota come hindsight bias: dopo che l’evento si è verificato è sempre agevole dire che qualcosa di diverso poteva farsi per impedirlo! Del resto, «come dice un antico proverbio – notò anche il Manzoni – del senno di poi ne son piene le fosse».
Il suggello finale agli istinti pulsionali a costruire il capro espiatorio è fornito dal processo penale e, in parallelo e anzi anticipatamente, dal tritacarne del giudizio mediatico, quello officiato nelle tivù, sui giornali e nella no man’s land – per quanto concerne il rispetto della dignità umana e della reputazione della persona – che è divenuta la rete internet, vero luogo di barbarie comunicativa che miete quotidianamente le sue vittime[6].
Foro giudiziario e sensazionalismo mediatico assurgono, così, a duplice teatro della spettacolarizzazione del dolore e dell’asserita immoralità dell’essere umano coinvolto, prima degradato e poi dato in pasto all’opinione pubblica (i casi trattati da Catino, e le “cerimonie degradanti” ivi illustrate, docent). Parafrasando una fulminante considerazione di Nietzsche circa i supplizi di un tempo, potremmo dire che nel processo mediatico-giudiziario si respira un’aria di festa!
Dinanzi a un quadro così sconfortante, può comprendersi perché la responsabilità “da reato” dell’ente collettivo (d.lgs. n. 231/2001) abbia suscitato qualche speranza tra gli studiosi del diritto penale applicato alle attività economiche. Secondo questo nuovo congegno, punitivo e preventivo allo stesso tempo, l’ente sociale non potrà più nascondere le carenze sistemiche sotto il tappeto della condanna individuale, il difetto organizzativo dietro la cortina di fumo della colpa individuale. In altre parole, il nuovo paradigma punitivo non consente più di aggirare agilmente, tramite l’espediente del capro espiatorio, i nodi del cambiamento di sistema. Il singolo potrà certo continuare a rispondere delle sue colpe, ove accertate “oltre ogni ragionevole dubbio”, ma non per colpe che sovrastano il suo agire od omettere. Il fine del d.lgs. n. 231/2001 è, infatti, promuovere il cambiamento organizzativo, favorendo la compliance preventiva o, a reato commesso, la riparazione-riorganizzazione ex post.
È stata una rivoluzione epistemologico-giuridica, ma – come una sinfonia schubertiana – essa appare ancora incompiuta, per tante ragioni, ma soprattutto per quelle che non possiamo fare a meno di rimarcare in questa sede.
Anzitutto, la svolta epocale presupponeva – e tuttora richiede – un radicale cambio di mentalità negli operatori. E invece si continua a ragionare con le lenti “riduzionistiche” del diritto penale antropocentrico. Nel caso Costa Concordia, ad esempio, dopo il patteggiamento della compagnia, è presto scesa una coltre di silenzio sull’errore di sistema, sugli elementi situazionali e sulle criticità strutturali della navigazione marittima, come la tolleranza prima riservata alla futile pratica degli “inchini” in occasione dei passaggi radenti alla costa delle navi; sotto i riflettori è rimasta solo la figura del comandante, il gesto sconsiderato, lo scavo morboso nell’asserita immoralità del personaggio.
Certo, l’innovazione della corporate criminal liability ha costretto il giurista ad andare “a scuola di organizzazione”. Abbiamo finalmente scoperto struttura e dinamiche, pregi e difetti, potenziale criminogeno e al contempo prevenzionistico dell’organizzazione. Come sono lontani i tempi delle geometrie bilaterali scandite dalla delega di funzioni, pluridecennale regina del diritto penale dell’impresa! Ma per il giurista è ostico colmare le carenze formative in tema di organizzazione aziendale e sociologia delle organizzazioni, che partono dall’università e di norma proseguono nel corso della vita professionale. Anche ciò concorre a spiegare perché la responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001 sia stata finora poco applicata.
Quasi tutti i casi di capro espiatorio organizzativo a cui fa riferimento Catino gravitano nell’orbita della criminalità colposa, dove gli eccessi della panpenalizzazione sono sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, l’anelito a un riequilibrio della responsabilità individuale appare, al momento, completamente frustrato. Anche quando la leva della responsabilità meta-individuale viene azionata, pressoché mai si tiene conto, nel valutare la colpevolezza del singolo, delle ripercussioni del difetto organizzativo eventualmente accertato.
Tra le tante considerazioni del libro di Catino che richiederebbero ampio spazio di riflessione, ce n’è una che giova riportare per esteso: «Affinché possa esservi un agente modello deve esserci un’organizzazione modello all’interno della quale l’operatore si trova ad agire. In assenza di procedure chiare e di un’organizzazione esemplare l’agente modello rischia di essere soltanto un capro espiatorio, con uno slittamento dalla responsabilità personale alla responsabilità oggettiva legata al ruolo ricoperto» (p. 53).
Va riconosciuto che la giurisprudenza di legittimità più recente (e mi riferisco in primis a quella più avanzata della IV sezione della Cassazione) sta cercando di ridimensionare o finanche accantonare la formuletta-vessillo – astratta, discrezionale e talvolta spietata – dell’“agente modello”, che Catino giustamente taccia come l’anticamera del capro espiatorio e un autorevole linguista, attento alle questioni giuridiche, ha di recente definito una “sineddoche pericolosa”, una metafora debole con cui trasferiamo su soggetti singolari caratteristiche esemplari, proprie di una proiezione ideale del “tutto”, che occulta l’ineluttabile faglia che divide il “modello impeccabile” e “l’agente concreto”[7]. Solo l’identificazione della regola cautelare che l’autore avrebbe dovuto osservare può consentire un reale contraddittorio tra le parti, purché essa fosse realmente riconoscibile ex ante. Altrimenti, certe seduzioni mentali ben possono perpetuarsi dietro nuovi rivestimenti esteriori.
Il dato saliente del nesso tra agente modello e organizzazione modello sta nell’evocare il grande tema della esigibilità della condotta conforme al dovere in un contesto collettivo, detto brevemente, la “colpevolezza colposa in organizzazione”. Perché il “gestore di un rischio” possa adempiere in modo ottimale ai suoi doveri, esaudendo le aspettative ordinamentali, occorre un ambiente organizzativo parimenti ottimale. E tuttavia agli elementi situazionali, organizzativi e sistemici dell’evento la dottrina ha prestato sinora poca attenzione e forse ancor meno la giurisprudenza al di là di sparute eccezioni[8].
Il novum sulla responsabilità “da reato” dell’ente dovrebbe permetterci di recuperare questo convitato di pietra del diritto penale dell’impresa: non solo il modello di organizzazione come fattore di imputazione colposa all’ente del reato-evento, ma l’organizzazione-modello quale precondizione dell’adeguata osservanza individuale.
Tirando le fila di queste brevi riflessioni, si può osservare che il diritto penale è tuttora una macchina che rulla senza posa nel costruire capri espiatori nelle organizzazioni. Cosa fare allora? Mi limito, in conclusione, a un caveat e qualche spunto di riflessione.
Anzitutto, occorre fare attenzione a che la stessa compliance penale, questa grande idea di rinnovamento dei meccanismi di controllo dei rischi aziendali, anziché contenere le tendenze che fanno proliferare i capri espiatori ne divenga un ulteriore volano. Penso, ad esempio, ad alcune insidie delle c.d. internal investigation, oggi tanto à la page, che potrebbero fomentare ciò che alcuni studiosi nordamericani hanno denominato reverse whistleblowing, il discarico delle responsabilità sui livelli medio-bassi da parte della corporation per ottenere benefici premiali[9]. Il modello statunitense dell’ente societario che indaga al suo interno, scopre gli artefici di reati aziendali e li consegna alle autorità di enforcement, potrebbe perpetuare l’idea che, dopo tutto, il fatto penalmente rilevante possa trovare spiegazione nel comportamento deviante di una bad apple.
Per arginare le derive del capro espiatorio, il penalista potrebbe limitarsi a dire: “Custodiamo e anzi potenziamo le garanzie!”. La trama è nota e rispecchia varie tappe di civiltà giuridica: legalità, offensività, personalità della responsabilità penale, ragionevolezza-proporzionalità, finalità rieducativa, presunzione di non colpevolezza e accertamento della responsabilità penale oltre ogni ragionevole dubbio, giusto processo, ne bis in idem, ecc.
Ma è possibile osare qualcosa di più e di diverso anche sul piano delle tecniche e dei limiti dell’intervento statale.
Non ci riferiamo solo all’auspicabile circoscrizione della misura (oggettiva e soggettiva) della colpa, prevedendo la colpa grave come principale titolo dell’imputazione colposa[10], ma anche all’inedita frontiera della giustizia riparativa, su cui tanto ha scommesso la recente riforma della giustizia penale (d.lgs. n. 150/2022, artt. 42-67), nel tentativo di alleviare una crisi ormai percepita come insostenibile. Essa, in effetti, potrebbe svolgere un ruolo decisivo proprio nel contenere la vis expansiva della responsabilità penale a titolo di colpa, dove principalmente si consumano le iniquità insite nel perenne rito del capro espiatorio. La sete collettiva di castigo si manifesta, non di rado, nei reati colposi con intensità persino maggiore che nei crimini dolosi: come genere umano siamo atavicamente più predisposti a razionalizzare il male che il caso. E la metabolizzazione del “fato” non fa più parte dell’orizzonte mentale contemporaneo.
Oggi si discetta molto di riappropriazione del conflitto da parte della vittima, di giustizia riparativo-conciliativa. Ebbene, di norma, il reato colposo genera intensa sofferenza anche nell’autore, la cui vita è colpita e nei casi più gravi stravolta dall’evento non voluto. I programmi riparativi potrebbero servire a ricomporre la frattura interpersonale, a lenire il dolore delle parti, a versare balsamo sulle ferite. L’assenza di volontà lesiva può agevolarlo[11]. Tutto all’opposto, l’irruzione del paradigma vittimario nella giustizia tradizionale si è rivelato letale, perché si sposa appieno con la “follia antropologica” (G. Forti), la tensione a creare capri espiatori.
Al di là delle ricette giuridiche, riteniamo che una grande partita, forse quella veramente decisiva, si giochi fuori delle mura del diritto e del processo, vale a dire nella società e, per restare al nostro tema, nelle organizzazioni.
Catino invoca al termine del suo volume – in alcune intense e lungimiranti pagine – una diversa “epistemologia civica” che generi conoscenza utile al cambiamento (p. 230 ss.).
Come sempre, dunque, il fattore culturale è quello veramente cruciale, intendendo qui per cultura la visione del mondo e delle relazioni sociali che prevalgono in un certo luogo e momento storico. Il diritto è sovrastruttura che può talvolta guidare il cambiamento, ma il più delle volte lo insegue dandogli forma giuridica.
Non abbiamo ancora fatto seriamente i conti con le derive di una società in cui l’unica misura di ciò che vale è il profitto e la performance. Nell’epoca del trionfo della tecnica[12], anche i rapporti umani nelle organizzazioni non sono più su basi solidali ma competitive: il collega non è più un sodale o un “compagno” ma un rivale e il capo continua a essere percepito come un dominus; ecco tanti potenziali capri espiatori organizzativi il cui sacrificio, quando occorre, è il prezzo da pagare per salvare una macchina viziata.
Ad ogni modo, interessanti segnali di cambiamento e maggiore consapevolezza già si avvertono nel multiforme universo delle organizzazioni. Si pensi a tutte le discussioni sulla necessità che si diffonda una just culture, tema divenuto centrale nelle imprese a più alto rischio tecnologico e nelle c.d. High-Reliability Organizations, che operano in ambienti altamente complessi, anche per effetto di impulsi sovranazionali[13]. É l’unica strada, questa, in grado coniugare standard di affidabilità/sicurezza ed efficacia/efficienza, generare una vera cultura della prevenzione, migliorare l’organizzazione, antivedere e scongiurare risultati nefasti, contrastare anzi la “normalità dei disastri”[14], quei macro-eventi spesso annunciati e che incubano a lungo in criticità di sistema e organizzative, complice la sottovalutazione del rischio da parte degli stessi controllori pubblici, e che quando esplodono in modo tragico spargono lutti e devastazioni. Solo una cultura dell’emersione degli incidenti, dei quasi incidenti (near miss) e di tutti gli errori (anche quando non sfociati in danni) può far aggallare le criticità latenti, consentire l’apprendimento e dunque il miglioramento del sistema organizzativo, cautelando rischi non ancora realizzatisi ma in procinto di esserlo.
Bisogna, in breve, educare all’analisi dei problemi contro l’ebrezza, l’esuberante “festa” della colpevolizzazione.
In conclusione, il libro di Catino può contribuire alla consapevolezza dei nodi irrisolti nei meccanismi di attribuzione delle responsabilità penali nei contesti organizzati. Può consentire di riscoprire le nozioni di limite ed equilibrio, in ambiti ricolmi di sproporzione e dismisura. Soprattutto, può aiutare a porre fine ai balbettii di una scienza giuridica che sconta anche l’assenza di autentica coesione della conoscenza.
* Le presenti note prendono spunto dalla partecipazione alla sessione del “Festival della Giustizia Penale 2023” dedicata alla presentazione del volume di M. Catino (Modena, 20 maggio 2023).
[1] Si vedano, da ultimo, le profonde riflessioni di G. Forti nel ricco volume collettaneo L’ombra delle ‘colonne infami’. La letteratura e l’ingiustizia del capro espiatorio, Milano, 2022, e nuovamente nel libro scritto assieme all’antropologo-filosofo S. Petrosino, Logiche follie. Sacrifici umani e illusioni della giustizia, Milano, 2022
[2] Sull’importanza delle organizzazioni nella vita dell’uomo contemporaneo, per tutti, M. Catino e L. Tirabeni, Fondamenti di organizzazione, Bologna, 2023, p. 24-27
[3] V. per utili considerazioni, nella letteratura penalistica, M. Papa, Superare il capro espiatorio. Dal sacrificio dell’innocente alla salvezza dei colpevoli, in disCrimen, 27.04.2022
[4] Prendo a prestito una recente efficace espressione di G.M. Flick, Il diritto penale dell’economia tra vizi e vantaggi del passato, problemi del presente e incertezze del futuro, in Giur. Pen. Web, 2023, n. 3, p. 1
[5] In materia antinfortunistica, così la sentenza “spartiacque” della Cass., sez. IV, 21 dicembre 2012, n. 49821, ric. Lovison, che si deve alla fine penna giuridica di R. Blaiotta
[6] Basti leggere i recenti saggi di V. Manes, Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, Bologna, 2022 e P. Triggiani, Informazione e giustizia penale. Dalla cronaca giudiziaria al processo mediatico, Bari, 2022
[7] V. Coletti, L’agente modello: una sineddoche pericolosa, in disCrimen, 25.5.2023, studioso che qualche anno prima aveva dedicato un appassionato saggio alla vicenda giudiziaria dell’alluvione genovese: Genova 2011. Analisi di un processo, Genova, 2020; nella dottrina penalistica cfr., per tutti, F. Giunta, I tormentati rapporti fra colpa e regola cautelare, in Dir. pen. proc., 1999, pp. 1295 ss.; C. Piergallini, voce Colpa (diritto penale), in Enc. dir., Annali, vol. X, 2017, p. 231 ss.
[8] Sia consentito il rinvio, per considerazioni più distese, a V. Mongillo, La responsabilità penale tra individuo ed ente collettivo, Torino, 2018, p. 458 ss.
[9] Cfr. W.S. Laufer, Corporate Prosecution, Cooperation, and Trading of Favors, in Iowa Law Review, vol. 87, 2002, p. 643-667
[10] Tra le nutrite sollecitazioni dottrinali in tal senso, per tutti, M. Donini, L’elemento soggettivo della colpa. Garanzie e sistematica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 124 ss., 154 ss.
[11] Spunti in tal senso in L. Eusebi, Sistema sanzionatorio e reati colposi, in M. Donini (dir.), Enc. dir. I tematici, II, Reato colposo, Milano, 2021, p. 1215; S. Dovere, Colpa e sanzioni: verso un nuovo paradigma?, in Arch. pen., 2022, n. 1, p. 9 ss.
[12] U. Galimberti, Psiche e techne: l’uomo nell’età della tecnica, 10a ed., Milano, 2018; Id., L’età della tecnica e la fine della storia, Nocera inferiore, 2021
[13] V., nel settore dell’aviazione civile, il reg. UE n. 376/2014; nella dottrina, il recente volume di M. Di Giugno e M. Pilia, La ‘Just Culture’ aeronautica nel sistema penale italiano. Una difficile integrazione, Padova, 2022, nonché l’interessante indagine di E. Greco, Profili di responsabilità penale del controllore del traffico aereo. Gestione del rischio e imputazione dell’evento per colpa nei sistemi a interazione complessa, Torino, 2021
[14] F. Centonze, La normalità dei disastri tecnologici. Il problema del congedo dal diritto penale, Milano, 2004