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  Recensione  
07 Maggio 2024


Recensione a G. Turone, F. Basile, Il delitto di associazione mafiosa, Giuffrè Francis Lefebvre, 2024


1. Premessa: perché vale la pena ri-leggere questo libro. Chi scrive – un giovane e curioso studioso di diritto – ha trovato il libro Il delitto di associazione mafiosa, scritto dal magistrato Giuliano Turone e revisionato ed aggiornato in questa quarta edizione dal prof. Fabio Basile, una lettura imprescindibile per chi intenda acquisire una approfondita conoscenza del reato di cui all’art. 416-bis c.p.; ma molto probabilmente il testo risulterebbe ugualmente prezioso anche per gli “addetti ai lavori” che vogliano, invece, mantenersi aggiornati sulle novità normative, dottrinali e giurisprudenziali in materia di criminalità organizzata di tipo mafioso.

Come si dirà più in dettaglio nelle prossime pagine, infatti, l’opera in parola, fin dal primo capitolo rivolto a ricostruire la genesi dell’art. 416-bis c.p., risulta capace di intrecciare l’analisi giuridica della fattispecie di “associazione di tipo mafioso” con ricerche e riflessioni di tipo storico, sociologico e antropologico, alle quali vengono opportunamente fatti continui riferimenti e richiami lungo tutta la trattazione. Da tali discipline, infatti, l’interprete non sembra poter prescindere se non a costo di rinunciare ad una completa comprensione della portata e della concreta operatività della norma incriminatrice di cui all’art. 416-bis c.p.

Il prezioso contributo offerto da tali discipline emerge, ad esempio, in sede di illustrazione delle specificità genetiche e comportamentali di ciascuna singola “mafia”: da Cosa Nostra siciliana alla camorra napoletana, dalla ‘ndrangheta calabrese alla Sacra Corona Unita pugliese, fino alle “nuove mafie”, formula con la quale gli Autori fanno riferimento alle mafie “autoctone”, alle mafie “etniche”, nonché alle mafie c.d. “delocalizzate”. Se di mafia si deve, quindi, ormai parlare al plurale, unico e comune a tutte esse risulta, però, l’apparato strumentale di cui le stesse si avvalgono, vale a dire il c.d. metodo mafioso, la cui sussistenza – come ben mette in evidenza il testo – potrebbe risultare relativamente agevole da provare per le mafie tradizionali, e per contro costituire tema ben più impegnativo in relazione alle predette “nuove mafie”.

Una estesa trattazione è riservata dagli Autori anche alla vexata quaestio della configurabilità – nell’an ma anche nel quomododel concorso “esterno” nel reato associativo mafioso, alla luce della giurisprudenza di legittimità e di quella della Corte EDU, oltre che ovviamente dei contributi della dottrina in materia, al fine di verificare la possibilità di superare un (solo apparente, per quanto emerge nel testo) radicale contrasto: da un lato, fornire un’adeguata risposta sanzionatoria nei confronti di chi coopera al  sostentamento o comunque alle attività dell’associazione mafiosa; dall’altro, rispettare i principi di legalità, tassatività e determinatezza in materia penale.

Un altro punto di forza di questa nuova edizione di un testo ormai “classico”, ci sembra risieda, infine, nell’attenzione prestata a taluni recenti interventi legislativi che, pur senza toccare direttamente l’art. 416-bis c.p., hanno inciso su alcune (possibili) ipotesi criminose contigue, come, tra gli altri, la nuova riforma della tormentata fattispecie di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416-ter), o come i provvedimenti introduttivi dei delitti di autoriciclaggio (art. 648-ter.1), di frode in processo penale e depistaggio (art. 375), nonché di agevolazione delle comunicazioni dei detenuti in regime di cd. carcere duro (art. 391-bis).

Ebbene, qui di seguito – nell’impossibilità di render conto, nello spazio di una recensione, di tutti gli argomenti affrontati nell’opera in commento con ampiezza di riflessioni e di riferimenti dottrinali e giurisprudenziali – ci soffermeremo solo sui temi sopra accennati, i quali maggiormente hanno richiamato l’attenzione del suddetto giovane e curioso studioso di diritto.   

 

2. Il metodo mafioso tra “vecchie” e “nuove” mafie. Come ben mette in evidenza il testo, è con la legge Rognoni-La Torre (n. 646 del 13 settembre 1982), introduttiva dell’art. 416-bis all’interno del nostro codice penale, che si è posto definitivamente fine all’annosa questione circa la controversa applicazione del reato di associazione per delinquere “semplice” al fenomeno mafioso.

Dagli atti preparatori di tale legge[1] risulta, infatti, evidente la presa di coscienza da parte del legislatore dell’epoca in merito all’inadeguatezza dell’art. 416 c.p. a far fronte alle realtà associative di tipo mafioso. Grande merito della legge Rognoni-La Torre è, d’altra parte, anche l’aver superato un approccio meramente regionalistico, concentrato solo su Cosa Nostra siciliana, per adottare, invece, una prospettiva più ampia, riconoscendo l’associazione di tipo mafioso anche in gruppi limitati di persone, e anche se operanti su territori (o entro settori) circoscritti, come conferma anche la previsione dell’ultimo comma dell’art. 416-bis, ai sensi del quale «le disposizioni del presente articolo si applicano (…) alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso».

Il vero fulcro dell’incriminazione risiede, infatti, nel metodo mafioso, individuato dalla legge (e individuabile dal giudice) attraverso tre parametri caratterizzanti: la forza di intimidazione del vincolo associativo, la condizione di assoggettamento e la condizione di omertà.

Tre parametri che, come si anticipava prima, devono costituire oggetto di rigorosa prova quando sulla scena compaiano le c.d. “nuove” mafie, si tratti di mafie “delocalizzate”, “etniche” o “autoctone”.

Per quanto riguarda la prima categoria – vale a dire quella delle mafie che, quali propaggini o distaccamenti delle mafie tradizionali, si sono insediate in territori tradizionalmente refrattari all’influenza mafiosa – la soluzione, nonostante il mancato pronunciamento delle Sezioni Unite sul punto[2], sembra consistere, secondo gli Autori, nel verificare se tali associazioni abbiano maturato una autonoma forza intimidatrice, attuale ed effettiva.

Per le mafie autoctone, invece, il problema dell’accertamento del metodo mafioso (e quindi della loro riconducibilità alla fattispecie di cui all’art. 416-bis) si pone in termini solo apparentemente diversi, poiché tali associazioni, pur prive di significativi legami genetici con le mafie tradizionali, hanno mutuato da queste ultime il loro modus operandi. Ecco allora che anche per formazioni criminali, come ad esempio quelle della “banda della Magliana”, della “mala del Brenta” o di “Mafia Capitale”, «la tipicità della fattispecie associativa mafiosa è sempre la stessa (…) piccole o grandi che siano»[3].

Infine, anche in relazione alle c.d. mafie etniche – vale a dire quei gruppi criminali formati da stranieri, operanti in Italia – la Cassazione, come ben mettono in evidenza gli Autori, ha da sempre affermato la possibilità di riconoscerne il carattere mafioso[4], a prescindere dal numero dei propri membri e dal controllo, da parte delle stesse, di un territorio in senso fisico.

 

3. Lo stato dell’arte sul concorso esterno nel reato associativo mafioso. Un ampio e approfondito capitolo del libro qui recensito ci guida nella complessa tematica del concorso esterno.

Seguendo l’impostazione adottata dagli Autori può, quindi, anzitutto ricordarsi come la prima sentenza di legittimità favorevole al riconoscimento di tale concorso risalga già al 1987[5], in linea, del resto, con una giurisprudenza ben consolidata che, ben già prima del 1982, ammetteva il concorso di persone nei reati associativi.

Negli anni successivi giungono, nondimeno, gli interventi chiarificatori delle Sezioni Unite, con la c.d. sentenza Demitry del 1994 e poi con la c.d. prima sentenza Mannino del 1995[6].

Nella sentenza Demitry si rimarca la differenza tra la tipicità della condotta di partecipazione e l’atipicità della condotta del concorrente eventuale. Quest’ultimo, infatti, come opportunamente si evidenzia nel testo, non è «coautore della stabile permanenza del vincolo associativo», ma si limita a fornire un contributo atipico a favore di coloro che sono invece stabilmente membri dell’associazione.

La successiva sentenza Mannino del 1995 è divenuta, forse suo malgrado, celebre soprattutto per la c.d. “teoria della fibrillazione, elaborata dalla Corte a mo’ di esemplificazione, ma rimasta scolpita nella relativa massima giurisprudenziale come principio di diritto, con spostamento (invero eccessivo) del baricentro del ragionamento complessivo delle Sezioni Unite sulla fase di “emergenza” che l’associazione mafiosa dovrebbe necessariamente attraversare affinché si crei lo spazio per la configurabilità di un concorso esterno.

Con la sentenza Carnevale del 2002[7] le Sezioni Unite, nel confermare la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa, si soffermano, invece, tra l’altro, sulla necessaria rilevanza causale della condotta del concorrente esterno, rilevanza causale che la successiva seconda sentenza Mannino del 2005[8] chiarisce dover essere oggetto di una verifica probatoria ex post, per evitare di violare i principi di legalità, tassatività e determinatezza in materia penale.

Sempre seguendo l’impostazione adottata da Turone e Basile, conviene a questo punto ricordare la nota sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, ricorso n. 66655/13, sul c.d. caso Contrada, che avrebbe, almeno apparentemente, messo in crisi il sopradescritto “stato dell’arte” della giurisprudenza di legittimità sul concorso esterno. In questa sentenza, infatti, la Corte di Strasburgo ravvisa una violazione dell’art. 7 CEDU (nullum crimen, nulla poena sine previa lege) nella condanna per concorso esterno inflitta a Contrada prima che la giurisprudenza delle Sezioni Unite stabilizzasse in maniera definitiva il riconoscimento di tale forma di responsabilità.

Tuttavia, come ricordano gli Autori, sia la Corte di Cassazione[9], sia la Corte costituzionale[10], a pochi mesi di distanza dalla sentenza della Corte EDU sul caso Contrada, hanno avuto modo di confermare che la fattispecie di concorso esterno scaturisce, nel pieno rispetto dei principi costituzionali, dalla combinazione dell’art. 110 c.p. con la norma incriminatrice di cui all’art. 416-bis c.p., e non rappresenta, quindi, un “reato di creazione giurisprudenziale” (espressione “infelice”, secondo gli Autori, utilizzata, invece, dalla Corte EDU).

In conclusione, gli Autori ritengono senz’altro condivisibile (sia pur con tutto il rigore necessario e le opportune verifiche) l’orientamento a favore della configurabilità del concorso esterno, da intendersi quale contributo che «accede — in chiave di supporto — alle condotte dei membri interni, non già nel senso di favorire personalmente taluno di essi, bensì nel senso che i rispettivi contributi interagiscono sinergicamente (così si esprime la sentenza Mannino del 2005) “concorrendo” alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative dell’associazione».

 

4. Le più recenti riforme in tema di reati di “contiguità minore” alla mafia. Come si è segnalato nella premessa, nella quarta edizione de Il delitto di associazione mafiosa uno specifico spazio è dedicato ai recenti interventi legislativi in tema di reati di “contiguità minore” alla mafia (“minore” rispetto alla contiguità espressa col concorso esterno), indicati nel libro anche come delitti satellite, in quanto essi gravitano intorno al reato associativo mafioso vero e proprio.

A questo proposito, tra le varie novità legislative illustrate nel libro, possiamo qui segnalare la legge n. 43 del 2019 – “dagli esiti deludenti” secondo gli Autori – relativa al delitto di scambio elettorale politico-mafioso, con la quale, tra l’altro, si è voluta ripristinare l’equiparazione della cornice di pena prevista dall’art. 416-ter con quella della condotta di partecipazione di cui al co. 1 dell’art. 416-bis: un’equiparazione che rischia, però, di far risorgere, secondo Turone e Basile, gravi difficoltà nel distinguere, in modo chiaro e preciso, l’ambito di applicazione dell’art. 416-ter con quello del reato associativo mafioso.

Nell’ambito di un’accurata trattazione delle possibili intersecazioni tra associazioni mafiose e attività di riciclaggio lato sensu intese, gli Autori analizzano, altresì, le recenti modifiche che hanno riguardato il delitto di riciclaggio (art. 648-bis) e il delitto di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648-ter) ad opera del d.lgs. 8 novembre 2021, n. 195, di attuazione della Direttiva europea 2018/1673/UE sulla lotta al riciclaggio mediante diritto penale. È di matrice giurisprudenziale[11], invece, la novità riguardante il delitto di autoriciclaggio di cui all’art. 648-ter.1, il quale, in base a tale giurisprudenza, può concorrere con il delitto di associazione mafiosa.

Un cenno, infine, si può fare all’illustrazione, offerta dal libro, dell’«ultima in ordine di tempo tra le fattispecie incriminatrici coniate dal legislatore per punire specifiche condotte di “contiguità minore”»: è il delitto di agevolazione delle comunicazione dei detenuti in regime di c.d. carcere duro (art. 391-bis), il quale, tuttavia, sembrerebbe finora essere giunto all’attenzione della giurisprudenza di legittimità in un solo caso[12], nonostante le cronache giudiziarie di questi anni forniscano una casistica estremamente variegata delle modalità attraverso le quali i detenuti hanno eluso tale regime detentivo speciale (gesti e linguaggi cifrati utilizzati durante i colloqui in carcere; trasmissione di pizzini all’interno dell’istituto penitenziario; messaggi fatti pervenire al detenuto all’interno del cibo o nelle fodere dei vestiti consegnati dai familiari o fatti uscire dai detenuti all’interno della biancheria sporca; messaggi trasmessi al difensore durante i colloqui; consegna al detenuto di strumenti di comunicazione non consentiti, come un telefonino, un computer o addirittura un fax).

 

5. Conclusioni. Nel libro di Turone-Basile troviamo, insomma, un equilibrato amalgama di saperi giuridici ed extragiuridici (questi ultimi attinti dalle ricerche di storici, sociologi e antropologi), che veicola una approfondita conoscenza del delitto di associazione mafiosa e, al contempo, una riflessione pacata ma rigorosa sulla insidiosità e pervicacia del fenomeno mafioso.

Fin dalle prime pagine del libro, del resto, l’attento lettore non può che percepire l’intento di questa importante opera: è solo attraverso una corretta e completa conoscenza del delitto di associazione mafiosa che si può ambire, per lo meno in ambito giuridico, a fronteggiare adeguatamente – senza eccessi ma anche senza improvvidi arretramenti – le associazioni di tipo mafioso.

 

 

 

[1] Atti preparatori della legge n. 646 del 1982, in Cons. Sup. Mag., 1982, n. 3, pag. 243.

[2] Si vedano le ordinanze Cass., sez. II, 25 marzo 2015, n. 15807 e 15808, e Cass., sez. I, 15 marzo 2019, n. 15768, con cui era stato sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite.

[3] Così gli Autori, riprendendo Cass., sez. VI, 22 ottobre 2019, n. 18125, CED 255073.

[4] Tra le prime pronunce in tal senso, v. Cass., sez. VI, 13 dicembre 1995, n. 4864, CED 204148.

[5] Cass., sez. I, 13 giugno 1987, CED 177889.

[6] Rispettivamente Cass., Sez. Un., 5 ottobre 1994, CED 199386, e Cass., Sez. Un., 14 dicembre 1995, CED 202904.

[7] Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2002, CED 224181.

[8] Cass., Sez. Un., 12 luglio 2005, CED 231670.

[9] Cass., sez. II, 30 aprile 2015, CED 264624; Cass., sez. II, 13 aprile 2016, CED 266908.

[10] Corte cost., sentenza 26 marzo 2015, n. 48.

[11] Cass., sez. II, 8 marzo 2018, n. 24916.

[12] Cass., sez. II, 20 luglio 2018, CED 276281.