1. Se è inconfutabile che, in materia di responsabilità ex crimine degli enti, “il cantiere della dommatica rimane aperto” (Paliero, 2018), la monografia di Vincenzo Mongillo pare destinata a rappresentare una delle più stabili fondamenta sulle quali proseguire l’opera di edificazione di questo nuovo sottosistema punitivo. Del resto, che l’identificazione “di principi, valori e scopi” mediante i quali (ri)ordinare tale microcosmo normativo costituisca la meta cui tende l’indagine lo rivela lo stesso Autore, tanto nella Premessa quanto nel Capitolo conclusivo (pp. XVII e 427), evidenziando la necessità che anche in questo ambito la dogmatica recuperi “il ruolo che, soprattutto a partire dall’Ottocento, ha svolto per il progresso del diritto penale individuale” (p. 427).
L’opera, dall'impianto considerevole, si sviluppa mediante una riflessione equilibrata, che progredisce con cadenza regolare e consapevole, snodandosi attraverso misurate acquisizioni sostanziali e processuali funzionali al disvelamento e alla rimeditazione dei pilastri concettuali sui quali si fonda il sistema italiano di responsabilità amministrativa da reato degli enti. La profondità dell’indagine si apprezza anche nella prospettiva adottata dall’Autore, che osserva le trame principali del microcosmo punitivo delle persone collettive dal punto di vista di “un’inedita e complessa questione allocativa” (p. XV) la quale gli consente di elaborare considerazioni e proposte innovative.
2. Esaurite queste brevi note introduttive, occorre più nel dettaglio osservare la struttura dell’opera e rilevare come l’Autore abbia scelto di svolgere il suo studio lungo due distinte traiettorie di indagine, le quali gli consentono di ripercorrere tutte le questioni di maggiore attualità nel dibattito in materia di responsabilità ex crimine degli enti: il riparto delle responsabilità tra l’individuo e l’organizzazione (Capitoli da I a V) e i criteri di connessione tra il “fatto-reato base” e “l’illecito corporativo” (Capitolo VI). Tali due itinerari di riflessione, paralleli, si congiungono nell’ultima parte della monografia (Capitolo VII), ove l’Autore delinea alcuni orizzonti di riforma in cui le soluzioni di dettaglio, puntuali e ponderate, scaturiscono da una più ampia rimeditazione dei principi fondamentali in materia di responsabilità ex crimine degli enti.
Peraltro, il primo percorso di studio, ossia quello riguardante la c.d. “questione allocativa”, è maggiormente sviluppato rispetto all’altro: è da tale prospettiva, infatti, che l’Autore osserva le radici filosofico-culturali (Capitoli I e III) e storiche (Capitolo II) della responsabilità corporativa. Sul piano del metodo, pertanto, si rileva la consapevolezza della necessità di fondare un’indagine così complessa su un adeguato apparato epistemologico, contraddistinto dall’ambizione di operare “una sintesi feconda tra saperi sia all’interno del mondo giuridico e delle scienze criminali (normative ed empiriche), che al loro esterno” (p. 3) nonché dalla volontà di “volgere gli occhi al passato” “per comprendere il presente e progettare il futuro” (p. 49). A livello metodologico, inoltre, nevralgico è il raffronto con altri ordinamenti giuridici (europei, nordamericani e, talora, sudamericani), il quale rappresenta il sangue pulsante nelle vene dell’indagine, la quale è vivificata e resa originale da un uso appropriato della comparazione: l’affermazione secondo la quale “il comparatista è tenuto non solo a ricercare regole e funzioni, ma soprattutto ad analizzare i contesti in cui tali regole operano e quali problemi ne scaturiscono” (p. 177) non è una mera petitio principii, quanto un imperativo scientifico osservato durante tutto lo svolgimento dello studio. La comparazione risulta proficua anche nell’indagine in ordine alla dimensione processuale della ripartizione delle responsabilità ex crimine tra individuo ed ente (in particolare, Capitolo V): anche in questo contesto, peraltro, il metodo impiegato dall’Autore si rivela avveduto, mostrando egli di essere consapevole di come il penalista non possa in alcun caso prescindere dall’analisi della dinamica processuale, la quale è (non più “servo muto”, ma) “socio tiranno” della struttura sostanziale del Sanktionenrecht (Padovani, 1992).
3. Dopo questa breve ricognizione della struttura e del metodo dell’indagine, si può ora muovere a una sintetica illustrazione dei contenuti dell’opera. Nel Capitolo I, come accennato, l’Autore, coerentemente con l’ideale della scienza penale integrata (la “gesamte Strafrechtswissenschaft” teorizzata da von Liszt, 1881) cui pare implicitamente ispirarsi, approfondisce le radici filosofico-culturali della c.d. “questione allocativa”, osservando in particolare la contrapposizione tra “visione individualistica” e “visione olistica”. Il tema è approfondito nella sua declinazione “metodologica”, in quanto nitida è la consapevolezza secondo la quale “non spetta al penalista dirimere controversie ontologiche” (p. 5). Dopo un’accurata didascalia del pensiero dei principali esponenti dei due paradigmi di pensiero, l’Autore adotta “un’impostazione metodologica individualistica” (p. 40) e ciò, in definitiva, in quanto le suggestioni olistiche sono, a suo avviso, non solo empiricamente indimostrabili (e quindi processualmente inservibili), ma anche ultronee rispetto allo scopo di affermare l’assoggettabilità degli enti a sanzioni afflittive e, addirittura, controproducenti.
Nel capitolo II, invece, le due prospettive dell’individualismo e dell’olismo nel diritto punitivo vengono colte nel loro sviluppo diacronico, con un’approfondita ricostruzione dei modelli, che è sovente “difficile isolare con nettezza” (p. 51), succedutisi dalle società primitive sino a quelle moderne. L’indagine è interessante, soprattutto negli esiti cui giunge quando rileva l’attuale “ravvicinamento a parti invertite” tra sistemi di civil law e sistemi di common law (p. 96), con i primi che hanno progressivamente riconosciuto “nella persona giuridica un centro a sé stante di imputazione penale” (p. 97) e con i secondi che, di converso, hanno visto prevalere “l’esigenza opposta di un recupero di efficacia deterrente del diritto penale nei confronti delle persone fisiche” (p. 98).
La conclusione cui l’Autore perviene, secondo la quale “dal punto di vista comparatistico, in generale, all’armonizzazione globale ormai raggiunta sul piano dell’an della punibilità degli enti collettivi per fatti di reato, non si accompagna un’analoga concordanza di modelli sul piano dell’imputazione della responsabilità” (p. 101), dischiude allo studio delle diverse soluzioni adottate negli ordinamenti giuridici moderni. Tuttavia, prima di svolgere una disamina approfondita di tali soluzioni, l’Autore torna a soffermarsi sulle matrici teoriche della responsabilità ex crimine degli enti e, in particolare, sulle riflessioni sviluppate in una prospettiva endogiuridica (rectius, endopenalistica) al fine di giustificare la punibilità delle organizzazioni e, pertanto, il principio del cumulo delle responsabilità. Si ripercorre, pertanto, il pensiero di autorevoli giuristi quali Otto von Gierke, Franz von Liszt, Achille Mestre e altri. L’esito cui l’Autore perviene consiste nella critica del modello dell’immedesimazione organica (e degli altri paradigmi olistici), ritenuto un mero escamotage, “fallace e inadeguato sia sul piano empirico-criminologico che sul piano dommatico-costituzionale” (p. 127) a fondare la responsabilità delle persone collettive. Al contrario, egli ritiene che la punibilità degli enti debba essere fondata su “requisiti realmente autonomi” (p. 134), dovendosi ambire a “edificare un sistema più evoluto dal punto di vista della logica ascrittiva, che preveda una reale ‘personalizzazione’ e ‘soggettivizzazione’ dell’addebito rivolto alla societas e consenta, così, di sceverare […] il ‘fatto proprio’ e la ‘colpevolezza’ corporative da quelli individuali” (p. 135). È in questa sede che l’Autore anticipa quali dovrebbero essere, a suo avviso, i due pilastri normativi sui quali si dovrebbe fondare una responsabilità propria dell’ente: utilizzando in modo “simmetrico-funzionale” le categorie imputative del diritto penale individuale, egli sostiene che l’illecito corporativo dovrebbe costruirsi attorno al “contributo agevolativo” dell’ente al reato commesso nel suo interesse o vantaggio dall’individuo sotto forma di “omesso apprestamento di misure preventive ragionevoli, proporzionate e sistematicamente calibrate sul rischio-reato” (tale sarebbe “il fatto colposo in senso oggettivo dell’ente”), nonché attorno alla “esigibilità soggettiva di un assetto organizzativo conforme ai parametri di diligenza oggettiva” (tale sarebbe “la colpevolezza-responsabilità del soggetto metaindividuale”) (p. 135 e 136). Dopo aver illustrato i contenuti di queste due componenti essenziali della responsabilità ex crimine degli enti, l’Autore rileva come, de lege lata, il dettato del d.lgs. 231/2001 sembri ridurre l’illecito corporativo al primo requisito, “la cui cifra è squisitamente oggettiva” (p. 149). Risulta ad ogni modo evidente come egli ritenga giustificato il principio del cumulo delle responsabilità, “il cui fondamento empirico-criminologico si collega,” in definitiva, “all’origine ordinariamente mista - individuale e organizzativa – del corporate crime” (p. 158). Tuttavia, l’Autore rileva anche come “l’afflato garantistico, che animava in origine le istanze di responsabilizzazione penale delle persone giuridiche, si è quasi del tutto spento” poiché persistono tendenze giudiziarie “contraddistinte da un’indiscriminata attribuzione degli illeciti d’impresa a una fitta schiera di soggetti individuali” (p. 167).
4. È sulla scorta di tali considerazioni che l’Autore procede all’indagine comparata dei sistemi europei e nordamericani di responsabilità corporativa, ponendosi dunque nella prospettiva di un ripensamento della “filosofia cumulativa”, la quale, pur imprescindibile, non può essere assolutizzata (p. 169). Il Capitolo IV risulta pertanto centrale nell’economia dell’opera, in quanto ivi vengono ricostruiti i modelli cumulativi e non cumulativi adottati, in maniera talora contestuale, dagli ordinamenti giuridici occidentali (e, in verità, anche sudamericani), l’analisi critica dei quali costituisce il fertile humus in cui germogliano e maturano le proposte tratteggiate dall’Autore nell’ultima parte della ricerca. Una didascalia dettagliata di questa approfondita ricerca non è in questa sede né possibile né opportuna. Basti osservare che, con riferimento ai modelli cumulativi, maggiormente diffusi, ci si sofferma con maggiore attenzione sui sistemi che fondano la responsabilità degli enti “su un’organizzazione interna deficitaria” (p. 192) e, in particolare, sulle diverse soluzioni che possono essere impiegate con riguardo alla tecnica di descrizione di tale difetto strutturale, assimilabili allo schema della “colpa generica” o della “colpa tendenzialmente specifica”: l’Autore propende per quest’ultima impostazione, pur essendo consapevole che “il problema della tassatività-determinatezza della colpa organizzativa non pare interamente risolto, né risolvibile, solo per mezzo dei precetti legislativi” (p. 209). Interessante è anche lo studio dei modelli non cumulativi, i quali vengono identificati in tre categorie: a) casi, invero piuttosto rari, di “decumulo legale delle responsabilità, in cui cioè, in base alla legge, può rispondere un solo soggetto tra l’individuo e l’ente collettivo” (così, a fronte di talune peculiari situazioni, in Francia e Svizzera); b) ipotesi di “decumulo giudiziale necessario della punibilità”, in cui, secondo i criteri valutativi statuiti dalla legge, “è demandata al giudice la scelta del soggetto da punire tra l’individuo e l’ente” (così, in taluni scenari, in Belgio); c) forme di “decumulo giudiziale eventuale della punibilità”, in cui cioè “l’irrogazione della sanzione contro l’ente, e solo di essa, è demandata alla decisione discrezionale del giudice” (così, pur con differenti declinazioni, in Germania, Spagna, Finlandia e Svezia) (p. 215 e 216).
Nel Capitolo V, i modelli sostanziali precedentemente analizzati vengono calati nella relativa dimensione processuale. Nitida è infatti la consapevolezza di come “il rigore del criterio cumulativo possa stemperarsi considerevolmente” a seconda che esso si collochi in un sistema in cui l’azione penale sia obbligatoria ovvero discrezionale (p. 263). A tal proposito, l’Autore osserva innanzitutto come anche negli ordinamenti caratterizzati dal principio di legalità dell’azione penale vi siano sovente regole peculiari sancite per la responsabilità ex crimine degli enti “che ne ostacolano l’esatto inquadramento” (esemplificativo è, in tal senso, l’art. 58 del d.lgs. 231/2001) (p. 268). Quindi, egli si focalizza con maggiore cura sui sistemi in l’esercizio dell’azione penale risponde a criteri di opportunità, distinguendo quelli in cui la discrezionalità è riconosciuta solo verso “l’ente o la persona fisica” ovvero verso “entrambi i soggetti” (p. 270). L’indagine comparata si rivela approfondita e accorta, come dimostra il ripudio “di una superficiale importazione” dei meccanismi di pretrial diversion statunitensi (p. 286), dei quali, pur riconoscendosi le potenzialità, si rimarcano anche i rischi, molteplici e insidiosi, tra i quali si segnala in particolare quello di “un grave vulnus alla rule of law” (p. 282).
Esaurita in tal modo l’analisi comparata delle soluzioni offerte alla “questione allocativa” dai vari sistemi di diritto e procedura penale occidentali, l’Autore procede, nel Capitolo VI, allo studio dei medesimi ordinamenti “nell’ottica dei criteri di connessione, o non connessione, dell’illecito corporativo con un fatto-reato base” (p. 310). Trattasi di un itinerario di ricerca maggiormente solcato rispetto al precedente, ma non per questo trascurabile: anzi, la riflessione dell’Autore è in questa sede, anche in virtù dei dati già acquisiti, particolarmente feconda. Egli identifica e analizza infatti tre paradigmi fondamentali di responsabilità ex crimine dell’ente: a) quello in cui essa sia “strettamente dipendente dalla commissione di un reato da parte di un individuo” specifico e legato all’ente; b) quello in cui essa sia “autonoma dall’identificazione processuale e/o dalla colpevolezza penale di un determinato individuo”, del quale si debba comunque accertare un fatto (quantomeno) tipico e antigiuridico; c) quello in cui essa sia “del tutto indipendente dal reato e dall’accertamento del suo autore individuale” (p. 311). I diversi modelli di responsabilità dipendente dell’ente (vicaria, per immedesimazione organica e fondata sulla previa persecuzione o condanna della persona fisica) vengono osservati in ottica critica dall’Autore, il quale ne rileva prevalentemente i rispettivi limiti e rischi, basandosi anche sulle osservazioni di taluni organismi transnazionali quali l’OCSE (ad es. p. 326). Lo studio degli schemi di responsabilità autonoma dell’ente costituisce, invece, l’occasione per riflettere approfonditamente sul funzionamento dell’art. 8 del d.lgs. 231/2001, che ne rappresenta un’esemplare tipizzazione: dopo averne considerato criticamente il retroterra criminologico, consistente nel fenomeno della c.d. “irresponsabilità individuale organizzata” (p. 334), l’Autore ne osserva le asperità sul “piano dommatico” (p. 343) e “probatorio” (p. 350). Il riferimento a tale fenomeno è funzionale anche a trattare le questioni afferenti alla compliance aziendale. Egli osserva infatti che “l’ente collettivo da causa del problema può divenirne la principale soluzione: ante delictum, attraverso misure di trasparenza organizzativa; ex post, favorendo la completa ricostruzione dei fatti nel corso delle indagini penali” (p. 370): peraltro, è interessante, con riferimento all’analisi di tale ultimo profilo, l’impiego di concetti inusuali per la letteratura penalistica italiana in materia, quali quelli di “reactive corporate fault” e di “enforcement pyramid”, elaborati dai giuristi australiani Fisse e Braithwaite (p. 377). Dopo aver considerato ulteriori problematiche relative ai modelli di responsabilità autonoma dell’ente, quali ad esempio quella del whistleblowing (p. 380) e quella della c.d. “irresponsabilità individuale strutturale” (p. 396), l’Autore muove allo studio dei meccanismi, “assai rari” (p. 401), di responsabilità corporativa indipendente. Se ne identificano, in particolare, tre esempi: a) “la responsabilità diretta dell’ente per violazione di obblighi di legge” prevista nel Regno Unito (p. 401); b) “il modello dell’aggregazione”, sperimentato talora nella giurisprudenza statunitense (p. 404); c) “i modelli olistici puri”, che prescindono “dall’accertamento di un fatto di reato individuale” (p. 410) e che possono fondarsi o sulla causazione di un evento offensivo riconducibile a un “management failure” (p. 410) oppure, in caso di reati non colposi, sulla presenza di una “corporate culture” criminosa (p. 414). Dopo averli esaminati attentamente, l’Autore rileva come questi ultimi schemi di imputazione dell’ente, pur suggestivi, vadano ripudiati in quanto privi “di solidi ancoraggi” (p. 416), echeggiando così, con notevole congruenza logica, le osservazioni già svolte nel Capitolo introduttivo.
5. L’ampio apparato di considerazioni e riflessioni fin qui sviluppate è funzionale, nell’ultimo Capitolo dell’opera (il VII), ad avanzare delle proposte di riforma del sistema italiano di responsabilità ex crimine degli enti. Tali soluzioni, pur rappresentando il coerente precipitato di quanto in precedenza osservato, sono elaborate dall’Autore con una prospettiva sistematica ab imis, che muove cioè dall’identificazione dei “principi e dei valori fondamentali attorno ai quali può essere ridisegnato” l’illecito corporativo (p. 427), si snoda attraverso l’affermazione dei suoi due “elementi essenziali” (quello oggettivo e quello propriamente soggettivo) (p. 429) e perviene alla configurazione di aggiustamenti normativi puntuali e meditati, quali quello in materia di modelli di organizzazione e gestione (p. 431), quello relativo agli enti di piccole dimensioni (p. 446), quelli relativi al riconoscimento dell’influenza del fattore organizzativo sulla colpa individuale (sino alla previsione di una vera e propria causa di non punibilità nei casi di particolare tenuità dell’azione od omissione colposa rispetto alla elevata magnitudo dell’evento lesivo) (p. 458 e p. 466), quelli relativi alla individuazione di meccanismi di interazione (rectius, bilanciamento) tra le due responsabilità (individuale e corporativa) in sede di commisurazione della pena (con l’introduzione di un vero e proprio principio di compensazione per gli enti di piccole dimensioni) (p. 470 e 481) e, infine, quelli riguardanti il versante processuale, con riferimento ai quali la valorizzazione di istituti già noti è preferita all’importazione di schemi nordamericani (p. 487).
Il prof. Vincenzo Mongillo risolve dunque in tal maniera la “questione allocativa” che ha animato la sua poderosa ricerca, sostenendo la necessità di riequilibrare (e non di abbandonare né di assolutizzare) il principio del cumulo (p. 452). L’opera propone soluzioni misurate e convincenti. Le riflessioni svolte rappresentano, in definitiva, una “cassetta” colma di “attrezzi” concettuali utili a decostruire e ricostruire gli edifici, moderni ma già bisognosi di alcuni consistenti interventi strutturali, della responsabilità ex crimine degli enti, messi a disposizione di chi opera non solo nel “cantiere”, sempre aperto, della “progettazione” dommatica e della “rifinitura” giurisprudenziale, ma anche di chi si impegna in quello, contiguo e probabilmente da riaprire a distanza di vent’anni dalla sua (quasi totale) chiusura, della “costruzione” legislativa.