Recensione  
06 Marzo 2020


D. Piva, Le componenti impulsive della condotta. Tra imputabilità, (pre)colpevolezza e pena, Jovene, 2020


Roberto Bartoli

1. In una fase storica in cui dalla politica in primis, come anche dalla società, non senza qualche condivisione da parte della scienza giuridica e della magistratura, il diritto penale viene fortemente orientato nel senso della punitività (si è parlato del “punire come passione”[1], di “giustizia penale infinita”[2], di “diritto penale no limits[3]); e in una fase storica in cui i margini per restringere la responsabilità si giocano soprattutto – per non dire soltanto – sul piano della categoria della punibilità/non punibilità, vale a dire sul piano della mera opportunità letta spesso oltretutto in chiave meramente deflattiva[4]; ebbene, in un fase storica così caratterizzata, il volume di Daniele Piva, Le componenti impulsive della condotta tra imputabilità, (pre)colpevolezza e pena, si muove coraggiosamente in una direzione che non esistiamo a definire opposta e, come sostiene nella Prefazione il Prof. Palazzo, “di frontiera”. Non solo in una prospettiva di contenimento del punitivo attraverso l’implementazione delle garanzie, ma anche in una prospettiva di forte personalizzazione della responsabilità, concentrandosi, con analisi di ampio spessore dogmatico e comparatistico dai fondamentali risvolti in termini di politica criminale, sul tema più delicato dei principi sostanziali e della teoria generale del reato: la colpevolezza (nei suoi presupposti e nei suoi elementi positivi come negativi).

Più precisamente, oggetto dello studio è il cuore della colpevolezza, e cioè lo stesso procedimento motivazionale[5], in un’ottica così personalizzante della responsabilità da spingersi – per usare un’espressione felice dello stesso Piva – verso un’“umanizzazione” del diritto penale, intesa come attenzione all’uomo nella sua complessità, nonché come “comprensione” dell’uomo, fino addirittura alla “compassione” verso di esso, da intendersi nel senso etimologico del termine come “condivisione dello stesso destino”.

 

2. In estrema sintesi, si può dire che il volume di Piva parte da due domande implicite. Da un lato, ci si chiede come sia possibile che agli impulsi, così determinanti e significativi nell’agire umano e soprattutto nell’agire umano criminoso, si attribuisca rilevanza prevalentemente in sede di commisurazione della pena e non anche in ordine all’an della responsabilità. In particolare, il capitolo I (par. 1 e 2) è dedicato alla dimostrazione della tendenziale liquidazione delle alterazioni impulsive nel mero rinvio alla tematica della gradazione sanzionatoria, legislativa o giudiziale che sia. In particolare, l’autore evidenzia limiti e contraddizioni del case made law volto a ripiegare sulla concessione di attenuanti (per lo più generiche) nei confronti di soggetto che, sebbene risulti aver perso le capacità di autocontrollo, si considera sempre e comunque imputabile e colpevole, non perché cosi è ma perché così deve essere: una soluzione, in cui, senza mezzi termini, l’autore ravvisa un mero escamotage dietro il quale si cela un non liquet inaccettabile con cui, anziché risolvere il problema di eventuali situazioni di non imputabilità o scusanti “mascherate”, si tende semplicemente a rimuoverlo.

Dall’altro lato, riconosciuto che anche all’interno della colpevolezza si riproduce la tensione tra garanzia e prevenzione, ci si domanda come sia possibile che non soltanto il legislatore, ma anche la giurisprudenza, operino mediante vere e proprie finzioni ritenendo la colpevolezza sussistente nonostante l’incidenza di fattori che nella sostanza la escludono. Esempio paradigmatico è l’art. 90 c.p. definito dall’autore come una “norma di sbarramento” a effetto propulsivo per lo più dal carattere tautologico, riconducendosi ad essa un divieto assoluto di considerare non meglio definiti “stati emotivi o passionali” non solo ai fini della sussistenza della capacità di intendere e di volere, ma anche come potenziale causa di esclusione della colpevolezza.

Il tema diventa allora come sia possibile attribuire rilevanza a questi fattori, non solo e non tanto per incidere sul trattamento sanzionatorio, ma prima ancora per escludere la responsabilità. Anche perché, proprio di recente, il legislatore ha attribuito rilevanza a questi fattori nel momento in cui è stata prevista la scusante della “paura” come ipotesi di eccesso nella difesa legittima (art. 55 cpv. c.p.): tema su cui, come si dirà, pure si sofferma a lungo l’autore.

 

3. Le idee di fondo della riflessione di Piva possono essere così sintetizzate. Anzitutto, indispensabile è un’analisi del procedimento motivazionale e del modo di operare degli impulsi. E qui il contributo offerto è inedito e molto significativo, potendosi apprezzare e direi anche acquisire non solo la fondamentale distinzione tra “compulsivo” e “impulsivo” ovvero tra “costrizione” e “causazione”, ma anche e direi soprattutto tra impulsi “irresistibili” (impulsi da terrore o spavento, pulsioni inconsce, impulsi sottostanti a decisioni immediate) e impulsi “problematici” (reazioni abnormi ad avvenimenti a forte carica emotiva, da ruminazione mentale, a emozione compressa), nonché tra impulsi stenici e astenici, ab interno e ab externo, motivazionali o modali, positivi o negativi, a contenuto cognitivo vero e o falso. In tal modo, nel primo capitolo l’autore getta le basi dello studio prospettando, con ricorso a una terminologia del tutto nuova nel panorama giuridico, una tassonomia degli impulsi (par. 3) fondata su una classificazione per origine, contenuti ed effetti sull’agire umano che, nei confronti del giudice, postula un approccio integrato con le neuroscienze (par. 5), gli studi di psicologia giuridica e di teoria cognitiva (par. 7), anche sulla base dei modelli desumibili da standard internazionali (par. 7.1), quale criterio di razionalità di una decisione (par. 6)  il cui compito non è soltanto quello di fornire una spiegazione della realtà ma anche e soprattutto quello di garantire che l’eventuale pena irrogata risulti giustificata. A tale scopo, mutuando da recenti studi filosofici, viene persino esaltato il ruolo euristico dei concetti di simpatia, antipatia e ragione ai fini della decisione giudiziaria dovendosi valorizzare condizioni e motivazioni del reo filtrate nell’esercizio di una discrezionalità dotata, essa stessa, di appropriata emotività e capace di comprendere le ragioni del crimine (par. 4). Ed è qui che si disvela lo scopo di fondare una vera e propria teoria di quelle che, già nel titolo dell’opera, vengono definite, per la prima volta, come “componenti impulsive della condotta” per segnarne, da un lato, i confini con quelle compulsive connesse a infermità mentali o disturbi della personalità e, dall’altro, l’intrinseco carattere di dinamicità relativo all’attivazione, improvvisa o meno, di spinte, stimoli o forze predominanti sulle altre attività psichiche.

 

4. In secondo luogo, la riflessione di Piva si concentra sull’incidenza degli impulsi sulla imputabilità e più precisamente sulla stessa capacità di controllo della condotta (Capitolo II), divenendo concetto chiave quello di “grave anomalia”, volto ad indicare la divergenza, sia pur episodica, da una situazione di normalità, inclusiva dell’insieme delle qualità psichiche dell’agente al momento del fatto, in modo da garantire che la condotta ne esprima davvero la personalità, come reazione unica e irripetibile a una serie di stimoli endogeni ed esogeni.

Un esempio paradigmatico di questa ricostruzione si ha nella distinzione tra quei delitti in cui viene in gioco un disturbo psichico o della personalità, tra i quali rientrano tipicamente i comportamenti aggressivi connessi a situazioni degenerate o a rapporti lunghi e travagliati tra autore e vittima di reati a sfondo violento e i delitti dovuti invece alla perdita di controllo non medicalmente diagnosticabile e a sfogo tendenzialmente improvviso o repentino che possono capitare a tutti in quanto connessi a comuni stati di panico, paura, provocazione, turbamento e rispetto ai quali può esservi solo una congenita predisposizione ma non certo un vero e proprio disturbo psichico.

Ebbene, anche queste ultime situazioni possono portare ad escludere la responsabilità se si traducono in reazioni abnormi connesse alla particolare intensità ovvero alla portata distruttiva e paralizzante dell’impulso psicologico riconducibili al concetto di grave anomalia psichica, sempre che il soggetto non possa muoversi alcun rimprovero in termini di evitabilità (precolpevolezza, di cui diremo a breve).

In particolare, mutuando dall’esperienza anglosassone ora dell’irresistible impulse test ora di prior fault, cui fa da pendant quella francese di contrainte morale, l’autore propone un modello di accertamento per “induzione-abduzione” a tre fasi incentrato su un reasonable test di reazione, sulla inesigibilità del controllo e sulla causalità motivazionale dell’impulso, puntualmente analizzato nei diversi momenti della sua percezione, identificazione, comprensione e gestione (par. 3).

In questa prospettiva va da sé che, passando dalla teoria alla prassi, l’accertamento della causa di esclusione della colpevolezza risulta fortemente debitore del sapere scientifico (persino neuropsicologico o di genetica comportamentale come si accenna nel par. 3.3.2), tanto è vero che l’Autore apre notevolmente alla perizia psicologica auspicando il superamento del divieto di cui all’art. 220, comma 2, c.p.p. non senza proporre specifici criteri per l’individuazione del perito, dell’oggetto, del tempo e del metodo d’indagine. D’altra parte, nella piena consapevolezza di quanto sia complesso compiere una valutazione in merito alla “resistibilità” rispetto a un impulso,  evidenziati i tratti distintivi, anche in termini di criteri di accertamento, della neo definita “causalità impulsiva” rispetto al genus di quella psichica (capitolo V, par.1 e 2), Piva giunge a prospettare possibili “indicatori” dell’impulso irresistibile da sottoporre comunque a verifica nel caso concreto (capitolo V, par. 3), dando particolare risalto, per qualità ed intensità, alla paura (Capitolo V, par. 3.1).

Se quindi nella spiegazione scientifica degli eventi la componente valutativa del giudice si concentra esclusivamente sul piano probatorio essenzialmente affidato a massime di esperienza, nella selezione degli impulsi scusanti la componente valutativa del giudice entra a formare lo stesso concetto di irresistibile. In sostanza, quest’ultimo sembra strutturarsi su due livelli: uno scientifico e uno normativo e ciò in virtù del fatto che i fatti psichici sono di per sé irripetibili. Detto diversamente, la stessa scienza psichiatrica risulta aperta a considerazioni valutative rispetto alle quali sembra poter giocare un ruolo significativo la prospettiva normativa del giudice attraverso il suggerimento della selezione degli indici fattuali cui attribuire rilevanza.

 

5. In terzo luogo, la riflessione sugli impulsi non può che avere ad oggetto le scusanti. Il problema attiene, in tal caso, non solo alla rilevanza da attribuire ad un determinato impulso, ma anche alla tipizzazione di situazioni che si ritengono essere tali da alterare il procedimento motivazionale. E di particolare rilevanza risulta la distinzione - sulla base della quale l’autore fonda una concezione non più ontologica ma giocoforza assiologica del cd. “poter agire diversamente” (Anderschandelnkönnen) - tra giudizio di colpa (Schuld) e di responsabilità (Verantwortung) e tra cause di esclusione della colpevolezza in senso stretto (Schuldausschließungsgründe) e mere scusanti (Entschuldigungsgründe) in corrispondenza delle quali l’impulso, rispettivamente, debba (per necessità) o possa (per opportunità) produrre un’efficacia scusante. Il Capitolo III viene così suddiviso in due articolate Sezioni. La prima avente ad oggetto gli impulsi che contribuiscono a menomare ab origine le funzioni della coscienza e volontà di cui all’art. 42 c.p.; quelli attivati da una situazione di costrizione (per difesa o per necessità); quelli che escludono con riguardo ai delitti solo dolosi, la componente volontaristica richiesta o, in quelli colposi, l’esigibilità della condotta doverosa; quelli che alterano la cognizione del fatto (per difetto di attenzione o giudizio) ovvero la materiale esecuzione di una reazione (in termini di eccesso). La seconda dedicata invece agli impulsi d’ira dovuta a provocazione, di cui si avverte anzi l’esigenza di una lettura in chiave più impulsiva che compensativa, nonché alle situazioni particolari di necessità “imperfetta” derivante dal contrasto di coscienza o di doveri, ovvero presunta in meri vincoli di affectio parentalis.

Al di là di queste distinzioni, il problema che si è sempre posto rispetto alle scusanti è se la presenza oggettiva della situazione scusante esaurisca l’accertamento da parte del giudice o se si debba andare a scandagliare anche la tipologia di impulso che la situazione viene a determinare. E sul punto la posizione di Piva è netta nel senso della seconda prospettiva: non è sufficiente l’accertamento della situazione oggettiva da cui scaturisce il movente, ma è necessario anche il movente.

In questa prospettiva, di particolare interesse anche per l’attualità del tema, è la riflessione sulla recente riforma dell’eccesso nella difesa legittima di cui, pur condividendosi la ratio di fondo attesa l’inadeguatezza financo paradossale di un giudizio di colpa frigido pacatoque animo relativamente a presupposti e limiti della scriminante (Sez. I, par. 5.2), nel prendere in considerazione le diverse opzioni di tecnica normativa e di politica criminale (sez. I, par. 5.3 e 5.4) in campo, l’autore non omette di segnalare deficit di formulazione e problemi di coordinamento (sez. I, par. 5.5): sia per quanto riguarda il riferimento generico al turbamento di cui risultano mancare anche i parametri della gravità nonché l’indicazione della sua natura stenica; sia per quanto riguarda la mancata richiesta di un rapporto di necessaria derivazione dell’impulso dalla situazione; sia per quanto riguarda, infine, la descrizione della situazione oggettiva, non potendosi non osservare, in coerenza con le premesse esposte dallo stesso autore, come l’accertamento dell’impulso dipenda comunque dal contesto dei fattori oggettivi (tempo, luogo, modalità dell’agire), alla fine interamente rimessi alla discrezionalità giudiziale.

Né, infine, Piva omette di ipotizzare, sia pur rilevando la diversità della situazione, che l’effetto scusante debba riguardare anche i casi di erronea supposizione della situazione oggettiva, e ciò per la semplice ragione che l’impulso della paura è destinato ad agire già sulla rappresentazione o, per dirla con l’autore, sull’attenzione spaziale e selettiva (sulla base, ad esempio, del weapon o del mood congruity effect), prima ancora che sulla condotta che da essa derivi.

 

6. Nel Capitolo IV, tornando alle origini del lavoro, l’autore affronta i riflessi sulla pena con riguardo sia alle diverse circostanze aggravanti e attenuanti previste dagli artt. 61 e 62 c.p. in cui, in corrispondenza del rispettivo grado di colpevolezza, è proprio l’effetto di impulsi psicologici che conduce a valorizzare particolari motivi (par. 2.1) o modalità (par. 2.2) della condotta, sia ai criteri di commisurazione giudiziale indicati nell’art. 133 c.p. per lo più connessi a modalità dell’azione, motivi o carattere del reo.

In ciò Piva intravede la conferma dell’implicita adesione a quella prospettiva personalistico-liberale che, all’esito dell’innegabile declino delle impostazioni meramente retribuzioniste, vieta di sacrificare sull’altare della prevenzione generale qualsiasi rilevanza delle componenti impulsive della condotta o, tanto più, avallare quella concezione emotiva - di cui si avvertono oggi i segnali proprio dinanzi ai casi di cronaca riguardanti fenomeni borderline di raptus violento -  che vede nella pena uno strumento, dal sapore persino vendicativo, col quale mantenere intatta la coesione sociale a fronte dello sconvolgimento dei suoi valori radicati e condivisi (par. 1.1).

Nel contempo, però, l’autore segnala una duplice esigenza (par. 3).  Da un lato, quella di evitare il rischio di doppie valutazioni, persino contra reum, in contrasto col ne bis in idem, attuando un equilibrato raccordo tra le due fasi del procedimento di determinazione della pena in concreto. Dall’altro, quella di chiarire il ruolo degli indici di rimproverabilità per il fatto nella commisurazione giudiziale oscillante tra quello di mero limite (massimo) o di vero e proprio fondamento della pena nell’ottica di una concezione orientata più sulla prevenzione o sulla punizione: ciò che, stante il vuoto di fini dell’art. 133 c.p., presuppone di ricostruire una teoria della discrezionalità giudiziaria di cui ancora si avverte la mancanza.

 

7. Sul piano dogmatico come di politica criminale, l’aspetto più interessante del lavoro di Piva sembra essere costituito dall’apertura che compie al modello della precolpevolezza (Vorverschulden) come mutuato dalla dottrina tedesca in tema di actio libera in causa[6], scusanti, responsabilità dell’ente e colpa per assunzione, nonché timidamente ripreso anche dalla dottrina italiana (par. 4, 4.1 e 4.2).

Un modo di riconoscere alla figura non solo fondamento dogmatico ma anche una specifica funzione di politica criminale: al netto di comprensibili scetticismi, si tratta infatti di una categoria epurata, nella prospettiva dell’indagine (par. 5.2), dal rischio di un regresso all’infinito in malam partem giacché evocata non tanto per rendere punibile chi oggi non lo sarebbe, quanto piuttosto per valorizzare componenti impulsive i cui effetti tenderebbero altrimenti a rimanere confinati al piano della commisurazione di una pena pressoché scontata.

In altri termini, il punto centrale potrebbe essere così sintentizzato: vero che occorre un equilibrio tra prevenzione e garanzia, è anche vero che questo equilibrio non può essere individuato nella selezione dei fattori che incidono sull’imputabilità (e più in generale sulla colpevolezza). Una selezione del genere è sbilanciata a favore delle esigenze di prevenzione con conseguente violazione dei principi di garanzia. Ne è perfetta dimostrazione, del resto, la sentenza n. 33 del 1970 della Corte costituzionale in tema di actio libera in causa e più precisamente relativa all’art. 92, comma 1 c.p. (“l’ubriachezza non derivata da caso fortuito o da forza maggiore non esclude né diminuisce la imputabilità”) dove si giunge ad affermare che «la ragione della differente normativa tra ubriachezza derivata e ubriachezza non derivata da caso fortuito o da forza maggiore sta nell’intento del legislatore di prevenire e reprimere l’ubriachezza come male sociale e, soprattutto, come situazione che, in certi soggetti, può spingere al delitto. Il che basta a giustificare, sotto il profilo costituzionale, la norma impugnata: l’ubriaco, che abbia commesso un reato, risponde per una condotta antidoverosa, cioè per essersi posto volontariamente o colposamente in condizione di commetterlo».

Piuttosto, l’equilibrio deve essere cercato altrove. Ebbene, Piva ritiene nella sostanza che, dal punto di vista giuridico, occorre verificare se il soggetto era in grado di evitare di collocarsi nella situazione all’interno della quale ha operato il fattore impulsivo. Insomma, è in una fase precedente a quella in cui il soggetto ha agito in presenza di tale fattore che si deve vagliare se il soggetto era in grado di rendersi conto che sarebbe entrato in uno stato soggettivo dominato dagli impulsi, dovendosi oltretutto sempre in questo momento anticipato verificare se il soggetto aveva o meno consapevolezza che avrebbe potuto in futuro tenere comportamenti criminosi.

Non solo, ma una conferma di tutto questo sembra provenire proprio dalle neuroscienze, con cui l’autore dialoga a più riprese, che evidenziano come determinate scelte (consapevoli ma incoscienti, come già rilevato nel Capitolo I, par. 5) siano il frutto più di una lenta e perdurante sedimentazione. Insomma, la vera e propria scelta per il delitto può non collocarsi esattamente al momento del fatto, ma in momenti precedenti. Il procedimento motivazionale opera ben prima del fatto stesso e la responsabilità sembra decidersi allora in presenza della evitabilità del collocarsi nella situazione all’interno della quale l’impulso opera.

Se si decide di investire sull’idea di precolpevolezza, l’intera disciplina dell’imputabilità sembra destinata a trasformarsi. Da un lato, sul piano della incidenza dei fattori impulsivi non sembrano esistere limiti. Inoltre, il tema sembra passare anzitutto dalle mani del perito per poi trovare concretezza e attualità nella decisione razionale del giudice gatekeeper. Nella sostanza si tratta di proseguire sulla scia della sentenza Raso, i cui punti centrali sono non soltanto l’apertura ai fattori che incidono sulla personalità, ma anche la componente della causalità. Dall’altro lato, si pone il giudizio di evitabilità del fattore di discolpa che invece risulta essere interamente nelle mani del giudice.

Ecco allora che la grande distinzione è tra fattori statici, predefiniti, indipendenti dal contesto e nella sostanza non dominabili dall’uomo, che non possono che escludere la responsabilità, e fattori dinamici, dipendenti dal contesto e dominabili dall’uomo, rispetto ai quali si deve compiere un giudizio di evitabilità nella fase antecedente all’operatività del fattore escludente.

 

7. Un accenno alla responsabilità degli enti cui pure Piva dedica alcune pagine finali del suo libro (cap. V, par. 4.2). Il tema è il tipo di responsabilità che viene in gioco riguardo all’ente: per il singolo reato oppure per la condotta di vita. Piva affronta il dilemma, privilegiando la responsabilità per il singolo reato, e quindi attribuendo ai modelli una funzione cautelare, previo accertamento di un nesso tra l’evento e la loro violazione. D’altra parte, neppure vengono taciute buone ragioni per ritenere che il sistema 231 faccia riferimento ad una prospettiva autenticamente altra rispetto al diritto penale retrospettivo che contraddistingue il “diritto penale umano”. Non solo la componente premiale che si lega perfettamente all’idea di organizzarsi per la legalità, più che per evitare singoli reati; ma anche – e direi soprattutto – la circostanza ancora poco indagata che la personalità dell’ente e il suo procedimento motivazionale è nella sostanza conoscibile in virtù della sua organizzazione, spingono verso un diritto penale autenticamente preventivo. All’ente si rimprovera, più che la realizzazione del reato, la non corretta organizzazione dell’organizzazione, tanto che Piva rintraccia comunque nella precolpevolezza un principio della responsabilità collettiva. Il nodo vero è se vogliamo sciogliere del tutto la responsabilità dal reato, collocandolo come condizione obiettiva di punibilità, ma allora, secondo una concezione che potremmo definire antropomorfa, il difetto organizzativo assume i connotati di vera e propria condotta, con la conseguenza che si rimprovera comunque per un passato: non ti sei organizzato come dovevi; oppure se vogliamo mantenere comunque una certa connessione con il singolo reato, divenendo punto cardine del sistema quello in cui cautelativo e cautelare si toccano e si intrecciano secondo una prospettiva che potremmo definire comunque dualistica, dove l’ente cioè continua ad essere comunque connesso con la persona fisica.

 

In conclusione, leggendo il volume si avverte l’impressione di un ampio lavoro di ricerca, testimoniato anche dalla vasta bibliografia di riferimento, caratterizzato da solidità argomentativa e varietà tematica e da un dialogo, costante e virtuoso, tra scienze empiriche e giuridiche, nonché da un intelligente sforzo di ricostruzione cui corrisponde la puntuale prospettazione di soluzioni, per certi versi, sì avanguardiste, ma solidamente ancorate al diritto positivo (de iure condito ma anche de iure condendo) e soprattutto imposte da un’osservanza del principio di personalità che, per quanto doverosa, non sembra comunque mai eccedere nel paradosso del tout comprendre, tout pardonner.

 

 

[1] D. Fassin, Punire. Una passione contemporanea, Milano, 2018.

[2] D. Pulitanò, Sulle politiche penali in discussione, in www.giurisprudenzapenale.com, p. 1 ss.

[3] V. Manes, Diritto no-limits. garanzie e diritti fondamentali come presidio per la giurisdizione, in Quest. giust., 26 marzo 2019, p. 1 ss.

[4] In argomento cfr. F. Palazzo, La non-punibilità: una buona carta da giocare oculatamente, in Sistema penale, 19 dicembre 2019.

[5] In precedenza, in argomento, P. Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000; E. Venafro, Scusanti, Torino, 2002; nonché, volendo, R. Bartoli, Colpevolezza: tra personalismo e prevenzione, Torino, 2005.

[6] In argomento cfr. anche A. Meneghini, Actio libera in causa, Padova, 2015.