ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Recensione  
01 Marzo 2024


E. Zuffada, Homo œconomicus periculosus. Le misure di prevenzione come strumento di contrasto della criminalità economica. Uno studio della prassi milanese, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2022


1. Com’è noto, le misure di prevenzione ante delictum, fino a qualche decennio fa relegate ai margini del diritto penale, negli ultimi anni hanno assunto un’importanza cruciale nella complessiva strategia messa in campo dal legislatore sul fronte del contrasto delle forme più gravi e allarmanti di criminalità comune e organizzata.

Inevitabilmente, con questo cambiamento radicale hanno dovuto fare i conti anche gli operatori del diritto: se, infatti, ancora nei primi anni Duemila il settore delle misure di prevenzione appariva come una mera “costola” del diritto amministrativo di polizia e, dunque, appannaggio di pochi esperti, in seguito al riordino della materia – avvenuto ad opera del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, il c.d. «Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione» – il diritto preventivo ha conosciuto una notevole espansione normativa e, soprattutto, applicativa, con la conseguenza che avvocati, magistrati, studiosi hanno dovuto cominciare a prendere maggiore confidenza con questa materia complessa e per certi versi sfuggente[1].

In questo contesto, il lavoro monografico di Edoardo Zuffada, Homo œconomicus periculosus. Le misure di prevenzione come strumento di contrasto della criminalità economica. Uno studio della prassi milanese, edito da Giuffrè Francis Lefebvre nel 2022 nell’ambito della collana del Dipartimento di Scienze Giuridiche “Cesare Beccaria”, risulta prezioso al fine di approfondire una delle più significative tra le recenti tendenze evolutive del diritto della prevenzione, consistente, come si può intuire dal titolo dell’opera, nell’applicazione delle misure ante delictum, sia personali che patrimoniali, agli autori di reati economici.

In effetti, anche grazie alla novella del 2017 si è pervenuti – oltre che al progressivo rafforzamento delle garanzie procedimentali, alla configurazione di nuove misure di carattere patrimoniale e alla messa a punto di una più robusta tutela dei terzi in caso di applicazione della confisca di prevenzione – ad un sensibile allargamento del raggio d’azione di queste misure a fenomeni criminali in passato non investiti dal diritto della prevenzione: tra questi, spicca l’utilizzo delle misure di prevenzione, e in particolar modo delle misure di prevenzione patrimoniali, nei confronti dei c.d. “colletti bianchi”.

Tale nuovo orizzonte applicativo, concretizzatosi dapprima nella prassi e successivamente assecondato dal legislatore, se per un verso è stato riguardato come un’importante tappa nel più ampio processo di modernizzazione delle misure di prevenzione, per altro verso ha subito sollevato numerosi dubbi sul piano interpretativo e altrettante perplessità sul diverso piano dell’efficacia e della proporzionalità.

Ebbene, il saggio di Edoardo Zuffada assolve proprio al compito di attenzionare la suddetta tendenza applicativa e di analizzarla approfonditamente, evidenziandone luci e ombre.

 

2. Venendo ora alla presentazione dell’opera, il saggio si apre con un primo capitolo dedicato a un’attenta ricostruzione storica delle misure di prevenzione, con l’obiettivo di far emergere i principali snodi che, talvolta un po’ casualmente e sicuramente oltre le intenzioni del legislatore storico, hanno infine condotto alla possibilità di applicare le misure ante delictum anche agli autori di reati economici: da queste prime pagine emerge dunque in maniera molto chiara come l’applicabilità delle misure ante delitcum ai “colletti bianchi” rappresenti, per utilizzare le parole dell’Autore, una «vera e propria eterogenesi dei fini» (p. 125).

Tra questi importanti snodi, particolare rilievo viene dato, anzitutto, alla c.d. legge Reale (l. n. 152/1975) e, in particolare, al suo art. 19, il quale consentiva, attraverso un complesso gioco di rinvii tra la l. n. 1423/1956, la l. n. 575/1965 e la stessa l. n. 152/1975, l’applicazione di tutte le misure di prevenzione (comprese quelle patrimoniali, allorché furono introdotte) anche ai soggetti portatori di c.d. pericolosità generica. Come opportunamente evidenzia l’Autore, la notevole potenzialità applicativa della summenzionata disposizione, pur non essendo stata colta negli anni immediatamente successivi alla sua entrata in vigore, ha tuttavia rappresentato il principale strumento attraverso il quale si è conferita capacità elastica al diritto preventivo.

Un secondo snodo fondamentale viene poi ovviamente individuato nell’introduzione, con la legge Rognoni-La Torre del 1982, della confisca di prevenzione, la quale ha senza dubbio aperto la via alla reinterpretazione delle misure ante delictum anche in chiave patrimoniale: una vera e propria «scoperta», quella del legislatore del 1982, che ha segnato «in maniera irreversibile» la storia delle misure di prevenzione (p. 12).

Infine, un terzo snodo cruciale viene individuato nelle modifiche apportate alla disciplina delle misure di prevenzione dai c.d. pacchetti sicurezza del 2008 e del 2009, attraverso i quali, da un lato, viene sancita la disgiunzione della prevenzione patrimoniale dalla prevenzione personale e, dall’altro lato, viene consentita l’applicazione della confisca di prevenzione anche a prescindere dall’attualità della pericolosità sociale del proposto: anche questa riforma, secondo l’Autore, «lascia intendere come il sistema di prevenzione abbia ricalibrato il suo spettro d’azione sui patrimoni illeciti, e come la ricchezza ingiustificata sia diventata essa stessa sintomo di pericolosità» (p. 14).

Come correttamente evidenzia l’Autore, le riforme appena ricordate, combinate con i contorni vaghi e indefiniti delle fattispecie di pericolosità generica, hanno creato le condizioni ideali per la sperimentazione delle misure di prevenzione nei confronti di autori di reati economici. Sperimentazione che ha riscosso così tanto successo e approvazione in sede applicativa da spingere il legislatore a convalidare tale prassi anche sul piano legislativo, definendo una nuova fattispecie di pericolosità qualificata avente ad oggetto alcuni gravi reati contro la p.a. commessi in forma associata (art. 4, lett. i-bis, cod. antimafia).

 

3. Il secondo capitolo è, quindi, dedicato allo studio critico della giurisprudenza relativa alla tendenza applicativa appena sopra descritta.

In particolare, dopo aver ricordato le prime pronunce della Corte di cassazione, che hanno confermato l’astratta applicabilità del sistema di prevenzione anche ai “colletti bianchi”, l’Autore dedica un’ampia parte del volume all’analisi dei decreti emessi dal Tribunale di Milano, nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2015 e il 31 dicembre 2021, nell’ambito di procedimenti di prevenzione avviati nei confronti di soggetti coinvolti nella commissione di reati economici. Lo studio concerne, in particolare, settanta decreti, selezionati dall’Autore a seguito dello spoglio di tutti i provvedimenti emessi dal giudice della prevenzione milanese nel periodo considerato.

Trattasi di uno studio completo e rigoroso che, oltre a fornire numerosi e interessanti dati qualitativi e quantitativi, consente di ricostruire in maniera esauriente lo stato della giurisprudenza milanese con riferimento a questo specifico orizzonte applicativo.

Due, soprattutto, sono i meriti di tale ricerca empirica.

Il primo merito è quello di dare al lettore, soprattutto grazie alla selezione e alla riproposizione dei passaggi più significativi di tutti e settanta i decreti presi in esame, un’idea più chiara di chi sono i soggetti destinatari delle misure di prevenzione in campo economico. In altri termini, la ricerca restituisce importanti indicazioni su quelli che la giurisprudenza (quella milanese, quantomeno) ritiene essere i “pericolosi-tipo” in ambito economico.

Il secondo merito è quello di ricavare e offrire al lettore utili dati statistici in merito alla posizione processuale dei destinatari delle misure di prevenzione, alle fattispecie di pericolosità maggiormente richiamate e alla tipologia di misure applicate. Interessante è, ad esempio, leggere che la stragrande maggioranza dei “colletti bianchi” attinti da una misura di prevenzione ha già subìto uno o più processi, o addirittura una o più condanne: il che significa che molto spesso le misure di prevenzione operano, almeno con riferimento al settore di criminalità preso in esame dal saggio, non già ante, bensì post delictum.

Infine, merita di essere evidenziata l’attenzione, dedicata dall’Autore, anche due decreti applicativi della misura dell’amministrazione giudiziaria rispetto a casi di c.d. caporalato grigio. Questi due provvedimenti, infatti, sono di particolare interesse in quanto, oltre a riguardare imprese molto note nel settore della logistica e del food delivery, attingono realtà aziendali che non risultano in alcun modo infiltrate dalla criminalità organizzata. Ancora una volta, come giustamente sottolinea l’Autore, ci si trova di fronte a un approccio applicativo molto innovativo, del quale il Tribunale di Milano si è fatto in un certo senso promotore, tanto è vero che negli anni immediatamente successivi a quelli attenzionati dall’Autore si è avuta una vera e propria “esplosione” applicativa delle misure di prevenzione patrimoniali, alternative al sequestro e alla confisca, dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34 (profondamente modificato dalla riforma del 2017) e del controllo giudiziario di cui all’art. 34-bis (introdotto ex novo dalla riforma del 2017), anche rispetto ad enti che agevolano la commissione di reati economici in assenza di condizionamenti mafiosi. O meglio, come la prassi milanese indagata dall’Autore aveva preconizzato, è solo l’amministrazione giudiziaria che può essere applicata agli enti anche a prescindere da influenze e condizionamenti mafiosi. Mentre, infatti, la misura del controllo giudiziario può essere disposta soltanto se le circostanze del caso concreto lascino «desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose» idonee a condizionare l’attività dell’impresa, la diversa e più grave misura dell’amministrazione giudiziaria può essere applicata – oltre che nei casi, di gran lunga più frequenti in quanto rispondenti alla ratio originaria dell’istituto, in cui l’ente sia sottoposto al condizionamento mafioso o comunque agevoli un soggetto sottoposto a misura di prevenzione o a processo penale per il reato di cui all’art. 416-bis c.p. – anche nei casi in cui l’ente agevoli:

- una persona destinataria di una misura di prevenzione personale o patrimoniale sulla base di presupposti diversi dall’appartenenza o dal fiancheggiamento alla mafia;

- una persona sottoposta a procedimento penale per uno dei reati di cui all’art. 4 lett. b) e i-bis) cod. antimafia;

- una persona sottoposta a procedimento per i reati di cui agli artt. 603-bis, 629, 644, 648-bis e 648-ter c.p.

È evidente che anche tali fattispecie delittuose possono senz’altro considerarsi dei reati-spia della presenza mafiosa all’interno del tessuto economico legale, ed è verosimilmente in quest’ottica che il legislatore li ha richiamati in maniera esplicita, sganciandoli dal riscontro di un’infiltrazione mafiosa: in tal modo si è data la possibilità ai giudici di intervenire anche in quelle realtà aziendali nelle quali, pur non essendo ancora evidente l’influenza mafiosa, vi sono comunque elementi per ritenere che, proprio in ragione della propensione a commettere una certa tipologia di reati da parte dell’impresa, vi sia una maggiore permeabilità al condizionamento mafioso.

Tuttavia, l’ampia formulazione impiegata dal legislatore ha lasciato aperta la possibilità al giudice di disporre l’amministrazione giudiziaria nei confronti di imprese che, pur agevolando la commissione di uno dei reati appena sopra richiamati, siano del tutto estranee al giogo mafioso: ed è proprio questo specifico orizzonte applicativo, ancora una volta delineatosi un po’ casualmente e certamente non perseguito intenzionalmente dal legislatore, che risulta “anticipato” dai due provvedimenti del Tribunale di Milano analizzati dall’Autore[2].

 

4. Il terzo e ultimo capitolo è dedicato ad alcune riflessioni sulla tendenza applicativa presa in esame nel saggio. In particolare, l’attenzione dell’Autore si concentra, da un lato, sull’effettiva idoneità e proporzionalità della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, della confisca e dell’amministrazione giudiziaria rispetto alla finalità di prevenzione e contenimento della criminalità economica e, dall’altro lato, sui rischi di interferenza tra le anzidette misure di prevenzione e altri strumenti penali in senso stretto.

Ebbene, secondo l’Autore, l’unica misura di prevenzione che non desta particolari problemi né sul piano dell’idoneità/proporzionalità né sul piano della compatibilità con altri istituti penalistici è la confisca di prevenzione, la quale, per un verso, risulta un «efficace e, nel suo complesso, proporzionato strumento di contrasto della criminalità economica» e, per altro verso, presenta limitati rischi di interferenza con le confische penali; rischi circoscrivibili, in sostanza, alla problematica convivenza con la confisca in casi particolari di cui all’art. 240-bis c.p. (p. 131).

Al contrario, un giudizio assai negativo viene riservato alla sorveglianza speciale, la quale non risulta per nulla calibrata, nei suoi contenuti, alla tipologia di criminalità dei “colletti bianchi”. Inoltre, il carattere marcatamente afflittivo di questa misura finisce per renderla, rispetto ai soggetti in questione, una vera e propria sanzione complementare o surrogatoria rispetto alla pena.

Una valutazione parimenti critica viene riservata anche all’applicazione, in materia di criminalità economica, dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34 cod. antimafia. Con tale misura, secondo l’Autore, la prevenzione finirebbe ancora una volta per operare come “concorrente sleale” di presidi sanzionatori dotati di un più alto standard garantistico, quali, nel caso di specie, la responsabilità da reato dell’ente e, in particolare, il commissariamento giudiziale di cui all’art. 15 d.lgs. n. 231/2001. In questo senso l’Autore scorge il rischio di un vero e proprio law shopping da parte del giudice, con grave pregiudizio per la tenuta sistematica della disciplina della responsabilità da reato degli enti.

A dire il vero, tuttavia, come la più recente prassi, sopravvenuta in un periodo successivo a quello attenzionato dall’Autore, ha dimostrato, non pare opportuno confinare l’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34 cod. antimafia al solo contrasto della criminalità mafiosa, posto che tale strumento si è rivelato estremamente efficace per riportare alla legalità grandi società, anche multinazionali, coinvolte in reati lucrogenetici. In diversi casi, infatti, l’amministrazione giudiziaria è intervenuta in interi settori di mercato caratterizzati da una opacità diffusa, da situazioni di grande sfruttamento e fragilità soggettiva, riuscendo a tracciare una strada virtuosa dove l’orizzonte prevalente degli organi di gestione aziendale non è più occupato solo dagli obiettivi immediati di business, ma anche dagli obiettivi di compliance; un percorso virtuoso dove il necessario profitto d’impresa, da un lato, e l’integrità, l’etica e il rispetto dei diritti fondamentali, dall’altro, trovano una sintesi necessaria nel legame di legalità che caratterizza il normale vivere sociale. In questi casi, il nuovo assetto organizzativo e i criteri di legalità implementati nel corso della misura, con riferimento agli ambiti attenzionati dalla misura e, più in generale, alla politica d’impresa, sono confluiti in un nuovo modello organizzativo e in specifiche procedure di controllo, delineando un business model più sostenibile e rispondente alle condizioni offerte dall’ordinamento.

In questo senso, è evidente la familiarità dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34 cod. antimafia con la normativa in tema di responsabilità da reato dell’ente di cui al d. lgs. 231/2001 che accanto alla commissione del delitto, tra gli altri presupposti prevede, sotto il profilo soggettivo, la cd. “colpa in organizzazione”, intesa quale deficit organizzativo rispetto ad un modello di diligenza esigibile dalla persona giuridica nel suo complesso. Allo stesso modo il tribunale, con il decreto che dispone la misura dell’amministrazione giudiziaria, rimprovera all’ente di non aver predisposto quegli accorgimenti preventivi necessari e idonei ad incidere sul rischio che la propria attività economica possa agevolare soggetti nei confronti dei quali sia stata proposta o applicata una misura di prevenzione personale o patrimoniale oppure nei cui confronti penda un procedimento penale per un delitto appartenente ad un catalogo individuato ope legis. La società risponde perché il deficit organizzativo ha consentito, o meglio, agevolato, l’adozione delle condotte vietate da parte di un soggetto diverso[3].

Rimane, quindi, ancora tutto da indagare il profilo dei rapporti tra amministrazione giudiziaria e responsabilità da reato degli enti, che potrebbe sicuramente costituire oggetto di un nuovo lavoro monografico, da condurre con lo stesso rigore metodologico e la stessa attenzione, tanto alla dottrina quanto alla prassi, che emergono in questo bel libro di Edoardo Zuffada, il quale ci consente sicuramente di comprendere un po’ più a fondo i modi di funzionamento del complesso sistema ante delictum.

 

 

 

[1] Sui fattori che hanno reso particolarmente ostica la disciplina delle misure di prevenzione ante delictum, cfr. F. Basile, Manuale delle misure di prevenzione, Giappichelli, 2021, p. 3: «Le ragioni che rendono ‘ostica’ la materia delle misure di prevenzione possono essere tra l’altro rinvenute: - nell’estrema disorganicità degli interventi legislativi, spesso fondati sull’emergenza e su esigenze politico-criminali contingenti (…); - nel profluvio di pronunce della Corte costituzionale, che, inseguendo una sofferta compatibilità delle misure di prevenzione con taluni principi fondamentali, hanno inciso su questo o su quell’aspetto della loro disciplina, rendendo ancor più difficile la ricostruzione del sistema complessivo; - nei ripetuti interventi (delle Sezioni Unite) della Corte di cassazione, i cui orientamenti hanno faticosamente tentato di dare razionalità ad un complesso di norme spesso tra loro mal coordinate e comunque lacunoso; - nelle numerose sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo le quali, in taluni casi, hanno inciso profondamente sull’assetto della legislazione italiana: si pensi, ad esempio, per il passato, alla sentenza Guzzardi c. Italia del 1980 6 e, in tempi più recenti, alla ormai celeberrima sentenza De Tommaso c. Italia 7; - infine, nella stessa incerta natura delle misure di prevenzione, a lungo sospese a metà tra diritto penale e diritto amministrativo».

[2] Come la prassi degli ultimissimi anni ha dimostrato – prassi che, per ragioni cronologiche, l’Autore non ha potuto prendere in considerazione – non v’è dubbio che una misura patrimoniale con finalità recuperatoria costituisca uno strumento di sicura efficacia nel contrasto della criminalità lucrogenetica. Numerose società sono state colpite da queste misure soprattutto per non aver svolto una attività di vigilanza e controllo sulle terze parti e per aver violato le normali regole di prudenza e buona amministrazione imprenditoriale che costituiscono norme di comportamento esigibili sul piano della legalità da un soggetto che opera ad un livello medio-alto, ad esempio, nel settore degli appalti di opere o servizi. Sotto tale profilo la strategia sottesa a tali misure ha come obiettivo quello di incentivare comportamenti di riorganizzazione dell’impresa, indirizzandola verso un nuovo modello di gestione e organizzativo univocamente orientato a favorire situazioni di trasparenza e ad impedire future disfunzioni di illegalità come quelle che avevano condotto all’applicazione della misura. Da qui il lavoro di rilegalizzazione e riqualificazione organizzativa attuato, sotto la guida e la supervisione dell’amministratore giudiziario nominato dal Tribunale, dalle società destinatarie di tali provvedimenti, che è stato per lo più premiato dall’Autorità Giudiziaria, spesso anche con la revoca anticipata della misura rispetto alla durata inizialmente fissata dal decreto.  

[3] Cfr. C. Santoriello, Responsabilità da reato degli enti: problemi e prassi, 2023, Giuffrè, p. 4; sia consentito rinviare a M. Vulcano, La nuova frontiera della compliance 231: da strumento preventivo della responsabilità da reato a strumento correttivo nelle misure di prevenzione antimafia, in Rivista 231, n. 3/2023. La compliance 231, in chiave preventiva, rappresenta uno strumento prezioso attraverso il quale l’amministrazione giudiziaria e gli organi gestori possono ridisegnare tutti gli strumenti di governance, risolvere le criticità di organizzazione e assorbire le lacune di controllo. Realizzare, cioè, in tempi rapidi, le prescrizioni formulate dall’amministratore giudiziario e adottare un nuovo modello di gestione e organizzativo, in accentuata discontinuità rispetto al precedente, che sia univocamente orientato a favorire situazioni di trasparenza e ad impedire future disfunzioni di illegalità come quelle che avevano condotto all’applicazione della misura. All’amministratore giudiziario, che dovrà instaurare con la società e con i suoi consulenti un fitto dialogo, attraverso un continuo confronto, è affidato il delicato compito di “spiegare” la misura agli organi gestori della società e impostare un rapporto di collaborazione diretto a stimolare l’impresa ad adottare in via autonoma le misure di risanamento, laddove possibile, in armonia con le finalità della misura di prevenzione e con le coordinate tracciate dal Tribunale che l’ha disposta. Una impostazione che risponde anche ad un più moderno modello di cultura d'impresa che, superando l’apparente antinomia tra legalità e competitività, considera i modelli organizzativi 231/2001, i vari livelli di controllo interno, gli adeguati assetti organizzativi e una salda governance dell’impresa, strumenti di efficientamento dell’attività e non costi inutili. Stimolare l’impresa a dotarsi di adatti presidi interni di controllo idonei a prevenire la consumazione di condotte simili a quelle per le quali è stata disposta la misura giurisdizionale, equivale, a parere di chi scrive, a valorizzare i costi della legalità all’interno di un progetto imprenditoriale autoctono e non eteroimposto, in grado di generare anticorpi duraturi all’interno del soggetto economico attinto dalla misura.