Trib. Firenze, Sez. III, ord. 24.9.2024, Pres. Belsito, Est. Innocenti
1. Con ordinanza del 24 settembre 2024, che può leggersi in allegato, il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 1, lett. b) della l. n. 114/2024 (c.d. legge Nordio), nella parte in cui abroga l’art. 323 c.p., cioè la norma che per ben novantaquattro anni – tanti ne ha il codice Rocco – ha configurato come delitto l’abuso d’ufficio. Il Tribunale di Firenze, in particolare, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione per violazione degli artt. 11, 117, co. 1 e 97 Cost.
Il dubbio che viene sottoposto all’esame della Consulta, a fronte della scelta legislativa di abolire il reato d’abuso d’ufficio, è duplice: da un lato, riguarda il mancato rispetto dei vincoli derivanti dal diritto internazionale e, in particolare, dalla Convenzione ONU contro la corruzione del 2003 (Convenzione di Merida); dall’altro lato, chiama in causa i gravi vuoti di tutela del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione in un ordinamento nel quale da alcune settimane ormai abusare del potere pubblico a danno del cittadino o a vantaggio proprio o altrui non solo non è più reato, ma nemmeno è stato “compensato” – con le parole del Tribunale di Firenze – dall’introduzione di illeciti amministrativi (come nel disegno di legge dell’On. Costa, poi superato da quello approvato) o di altri presìdi per la prevenzione del malaffare e di possibili conflitti di interesse.
A dimostrazione di una (prevedibile, ma inascoltata anche nelle audizioni parlamentari) eterogenesi dei fini, in un Paese in cui da tempo suona come un refrain la pretesa irresponsabilità dei magistrati, affermata proprio da non pochi tra i fautori dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, la questione viene sollevata (da magistrati, ca va sans dire) in un procedimento in cui l’abrogazione dell’abuso d’ufficio impedisce di applicare l’art. 323 c.p. proprio nei confronti di un imputato magistrato, accusato, in concorso con carabinieri ufficiali di p.g., di avere adottato un decreto di sequestro preventivo di quote sociali al di fuori dei presupposti di legge per danneggiare alcuni imprenditori favorendone altri. Nulla, ma proprio nulla, a che vedere con la ‘paura della firma’ di sindaci e amministratori pubblici, evocata come uno spettro per abolire l’abuso d’ufficio.
L’ordinanza di Firenze è la prima, in ordine di tempo, a sollevare questioni di legittimità costituzionale relative all’abrogazione dell’art. 323 c.p. Analoghe questioni sono state prospettate in altri procedimenti penali, come in quello pendente a Reggio Emilia e relativo alla nota vicenda di Bibbiano. A Firenze la questione è stata sollecitata dalla difesa della parte civile; a Reggio Emilia dalla Procura, con una memoria pubblicata nei giorni scorsi sulla nostra Rivista.
2. L’ordinanza allegata – alla cui lettura rinviamo i lettori - sviluppa, in modo argomentato, alcune considerazioni che si rinvengono anche nella citata memoria della Procura di Reggio Emilia. Rinviamo i lettori alla lettura dell’ordinanza, per quanto riguarda il vulnus all’art. 97 Cost. Ci soffermiamo qui sullo snodo centrale che – come abbiamo osservato in un nostro contributo pubblicato su questa Rivista ed emerge anche dall’argomentazione del provvedimento annotato – è rappresentato dalla questione relativa alla possibile violazione degli artt. 11 e 117, co. 1 Cost.: al metro della giurisprudenza costituzionale, solo l’esistenza di un obbligo internazionale di incriminazione dell’abuso d’ufficio potrebbe consentire di superare il vaglio della ammissibilità e di legittimare una eccezione al divieto per la Corte costituzionale di sindacare le norme penali con effetti in malam partem, riportando in vita una norma incriminatrice abrogata (perché di questo si tratterebbe). Sempre che, osserva il Tribunale di Firenze (pag. 9), la Consulta non ritenga di enucleare una nuova ulteriore eccezione a quel divieto in caso di violazione di parametri costituzionali, come l’art. 97 Cost., che comportino come nel caso di specie “un effetto grave e sistemico”.
Ebbene, un obbligo espresso di incriminazione non è previsto nella Convenzione di Merida, che nell’art. 19 vincola il legislatore a considerare di adottare una disciplina che incrimini l’abuso d’ufficio (“shall consider adopting”) e non ad adottare tout court una simile disciplina (“shall adopt”). Senonché, secondo l’ordinanza fiorentina (pag. 11), per gli Stati aderenti alla convenzione che, al momento della ratifica, incriminavano l’abuso d’ufficio, la Convenzione fonderebbe un vincolo a mantenere in vita il reato: “un obbligo internazionale di stand-still, cioè l’obbligo internazionale di mantenere le cose come sono”. L’ordinanza prospetta un dubbio che anche a noi era parso meritevole, quanto meno, di una riflessione (e rende tutt’altro che peregrino sottoporre la questione alla Corte, a fronte della enormità della scelta politica di non punire, in uno Stato liberale, chi abusa del potere pubblico, finanche per danneggiare un cittadino): se esista o meno un vincolo convenzionale che impedisca al nostro Paese di fare un passo indietro, abolendo l’abuso d’ufficio che (questo è il punto) era previsto come reato al momento della ratifica della Convenzione di Merida. Così scrivevamo nel nostro contributo (sia consentita l’autocitazione): “ci si può forse chiedere se la sopravvenuta abrogazione dell’abuso d’ufficio, reato preesistente alla Convenzione di Merida che attuava l’art. 19, integri una violazione del diritto internazionale (e, quindi, dell’art. 117, co. 1 Cost.); se, cioè, esista un vincolo convenzionale che impedisca al nostro Paese di fare un passo indietro. La questione meriterebbe di essere approfondita, per quanto la strada sembri senz’altro in salita”. La domanda che l’ordinanza di Firenze sviluppa e pone è esattamente questa.
Il tema posto alla Consulta è allora non solo di diritto costituzionale, ma di diritto internazionale: se nell’ipotesi in cui un ordinamento preveda già, al momento dell’assunzione di un obbligo internazionale, una norma interna conforme a quella internazionale, gravi sullo Stato contraente un obbligo di non abrogare quella norma (cfr. pag. 13 dell’ordinanza). Il Tribunale di Firenze solleva la questione perché ritiene si possa dare risposta affermativa anche sulla base dell’art. 7, co. 4 della Convenzione di Merida, che vincola gli Stati contraenti a “mantenere” i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse.
La parola passa ora alla Corte costituzionale e, prima ancora, ai giudici che dovranno esprimersi su analoghe eccezioni di incostituzionalità e alla dottrina, compresa quella internazionalistica, che potrà contribuire allo studio dell’interessante questione di diritto.