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07 Luglio 2023


Nuove precisazioni in merito al tempus commissi delicti nei reati necessariamente abituali

Cass., sez. VI, 24 gennaio 2023 (dep. 28 giugno 2023), n. 28218, Pres. Di Stefano, est. Silvestri



*Contributo pubblicato nel fascicolo n. 7-8/2023.

 

1. Con la sentenza in commento, la Corte di cassazione ha affermato l’inedito principio secondo il quale, a fronte della modifica in senso sfavorevole (art. 2 co. 4 c.p.) del trattamento sanzionatorio di un reato necessariamente abituale, il tempus commissi delicti può radicarsi nel periodo di vigenza della disciplina più severa sopravvenuta soltanto qualora il reo, dopo la modifica, realizzi nuovamente quella “serie minima” di condotte necessaria ad integrare il reato, non essendo viceversa sufficiente la commissione di una singola condotta per «trascinare con sé e verso un trattamento punitivo più severo l’intera condotta abituale compiuta in precedenza»[1].

L’orientamento inaugurato dalla sesta Sezione si pone così in contrasto con un precedente orientamento della prima Sezione, la quale aveva accolto una soluzione radicalmente opposta con riferimento al delitto di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale (art. 9 l. 27 dicembre 1956, n. 1423; ora: art. 75 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159)[2]; pur considerato da giurisprudenza costante necessariamente abituale nel caso in cui tra obblighi rientri il “divieto di associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza”[3].

 

2. In estrema sintesi, all’imputato veniva rimproverato di aver realizzato condotte abusanti ai danni della ex-moglie per un periodo di circa quattro anni, in un periodo compreso tra il maggio del 2009 e il luglio del 2013.

Le condotte rimproverate all’imputato venivano ricondotte dai giudici di prime e seconde cure nell’alveo del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.) e la pena veniva commisurata all’interno della cornice edittale vigente nel momento in cui le condotte maltrattanti avevano avuto termine (2013), più sfavorevole rispetto a quella vigente al momento di prima consumazione del delitto in parola (2009) e nel corso dei successivi tre anni (2009-2012).

Com’è noto, infatti, la pena originariamente prevista per il delitto di maltrattamenti – da uno a cinque di reclusione – era stata aumentata in occasione della ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori (l. 1° ottobre 2012, n. 172) e, pertanto, il delitto di cui all’art. 572 era da quel momento punito con la pena compresa tra due e sei anni di reclusione[4].

Ricorrendo per cassazione contro la sentenza pronunciata in grado d’appello, l’imputato lamentava, tra l’altro, l’erronea individuazione del tempus commissi delicti da parte dei giudici di merito, evidenziando come soltanto una parte della condotta sarebbe stata commessa dopo la modifica peggiorativa poc’anzi menzionata.

 

3. Nell’accogliere il ricorso, annullando con rinvio l’impugnata sentenza di secondo grado, i giudici di legittimità ricordano innanzitutto che, nei reati necessariamente abituali – come il contestato delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi (art. 572 c.p.) – il reato può dirsi perfezionato soltanto qualora venga compiuto «quell’atto che, unendosi ai precedenti, sia in grado di superare una determinata soglia di intensità di disvalore di azione e di evento, integrando quel minimum essenziale ai fini della realizzazione dell’offesa all’interesse giuridicamente protetto».

Dopo questo momento di “perfezione” o prima consumazione del reato, la condotta può ovviamente proseguire nel tempo, nei casi in cui, «nonostante si sia già realizzato il minimo rilevante livello di offesa dell'interesse tutelato, nuove azioni od omissioni vengano successivamente commesse». In queste ipotesi, com’è noto, il reato abituale prosegue e «si consuma in via definitiva in un momento successivo, quando cioè gli atti integrativi della condotta sono terminati».

La possibilità che il reato prosegua nel tempo dopo l’iniziale consumazione pone allora la questione, evidentemente comune a tutti i reati «strutturalmente caratterizzati dalla proiezione temporale della condotta, [...] della individuazione del segmento di azione rilevante ai fini della regolazione degli effetti del fenomeno successorio della legge penale».

Fatta questa premessa, la Suprema corte procede quindi a ricostruire il quadro giurisprudenziale sul punto, ricordando che, secondo l’orientamento unanime, per individuare il tempus commissi delicti nei reati abituali – e negli altri reati c.d. di durata – occorre far riferimento all’ultimo atto che compone la condotta antigiuridica; con l’evidente conseguenza per cui, se l’autore ha compiuto una porzione di condotta nella vigenza di una legge che introduce un trattamento più severo, l’intera condotta sarà regolata dalla disciplina introdotta successivamente.

Una tale impostazione, si osserva poi, è stata confermata in una serie di obiter dicta anche dalla recente sentenza delle Sezioni unite chiamata a risolvere la diversa questione dell’individuazione del tempo del commesso reato in casi in cui l’evento si verifica anche a molti anni di distanza dal suo antecedente causale (cd. reato a distanza). In estrema sintesi, infatti, secondo l’autorevole consesso, «il protrarsi della condotta sotto la vigenza della nuova, più sfavorevole, legge penale assicura la calcolabilità delle conseguenze della condotta stessa che [...] dà corpo alla ratio garantistica del principio di irretroattività» e consente che la stessa venga punita secondo la lex posterior più severa[5].

Secondo i giudici della sentenza in commento, tuttavia, una tale impostazione non sembra potersi accettare nella sua radicalità, perché finisce per disconoscere le peculiarità che caratterizzano i reati necessariamente abituali.

La Corte di cassazione osserva infatti che, se la «individuazione del tempus commissi delicti [...] si collega strettamente con la necessità di fare riferimento alla condotta e alla funzione della pena, il principio costituzionale di irretroattività impone di scongiurare il rischio di realizzare, attraverso il fenomeno successorio, una retroattività occulta della norma sopravvenuta sfavorevole in quanto sganciata dal criterio della condotta».

Ciò significa che, per radicare il tempus commissi delicti, la condotta dell’agente dovrà pur sempre costituire un “segmento autosufficiente”; un quadro di vita che, considerato autonomamente, risulti sussumibile nella fattispecie incriminatrice di cui si discute.

Ne deriva ulteriormente che, nei reati necessariamente abituali, ove il minimo necessario per realizzare il reato non può per definizione consistere in una singola manifestazione criminosa, un’eventuale modifica in senso peggiorativo della disciplina potrà essere applicata all’intera condotta abituale soltanto se «il soggetto compia segmenti di condotta abituale autosufficienti prima e dopo la norma modificativa sfavorevole sopravvenuta».

Viceversa, qualora «sotto la vigenza della nuova legge si realizzi un segmento insignificante di “abitualità”, un singolo episodio», l’applicazione della nuova cornice sanzionatoria rappresenterebbe una violazione del principio di irretroattività. Secondo la Corte di cassazione, infatti, in questa costellazione di casi l’unica porzione di condotta criminosa che può essere considerata realmente tipica e che, dunque, può radicare il tempus commissi delicti, è quella compiuta sotto la vigenza della legge precedente più favorevole.

 

 

 

 

[1] Ove non diversamente specificato, i virgolettati costituiscono citazioni della sentenza in epigrafe.

[2] V. Corte di cassazione, sez. I, 11 maggio 2006 (dep. 14 giugno 2006), n. 20334, Caffo. L’indagato, dopo essere stato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con divieto di accompagnarsi a pregiudicati o a persone sottoposte a misura di prevenzione o di sicurezza, veniva più volte sorpreso in compagnia di altri pregiudicati, in un periodo in cui il reato di violazione degli obblighi costituiva ancora una contravvenzione. Tuttavia, il prevenuto era nuovamente colto in compagnia di un pregiudicato dopo la trasformazione della fattispecie in delitto e l’aumento della relativa pena (l. 31 luglio 2005, n. 155), e gli veniva pertanto applicata la misura cautelare degli arresti domiciliari, consentita proprio in virtù delle modifiche peggiorative dovute all’intervenuta novella. Nel rigettare il ricorso dell’indagato, che lamentava l’applicazione retroattiva della fattispecie più grave, sottolineando come un solo incontro fosse avvenuto dopo la modifica, la Corte di cassazione replicava che «il reato di cui si tratta si è consumato dopo la entrata in vigore della legge n. 155 del 2005 e deve essere quindi ritenuto un delitto, alla stregua della norma incriminatrice vigente al momento della sua consumazione, non rilevando che parte della condotta sia stata posta in essere nel vigore della legge precedente che comunque prevedeva ugualmente come reato (sia pure di minore gravità) la stessa condotta».

[3] V. in particolare Corte di cassazione, sez. I, 9 maggio 2017 (dep. 30 maggio 2017), n. 27049, Massimino. In senso conforme, tra le molte: Corte di cassazione, sez. I, 29 febbraio 2020 (dep. 8 maggio 2020), n. 14149, Vurchio; Corte di cassazione, sez. I, 10 ottobre 2017 (dep. 24 novembre 2017), n. 53403, Iurlaro.

[4] Successivamente, la pena è stata nuovamente inasprita con l. 19 luglio 2019, n. 69.

[5] Sul punto, v. Corte di cassazione, sez. un., 19 luglio 2018 (dep. 24 settembre 2018), n. 40986, Pittalà.