Cass., sez. IV, ord. 17 ottobre 2019 (u.p. 10 ottobre 2019), n. 42731, Pres. Ciampi, est. Menichetti, ric. Dabo
1. Con l’ordinanza in esame, la quarta sezione della Suprema Corte ha rimesso alle Sezioni Unite una questione relativa all’applicabilità dell’attenuante comune di cui all’art. 62, n. 4, c.p. – nella parte in cui prevede una riduzione di pena per i delitti determinati da motivo di lucro, quando l’agente abbia di mira o abbia comunque conseguito un lucro di speciale tenuità – alle fattispecie di cui all’art. 73, d.P.R. n. 309/1990 (T.U. stupefacenti), ed in particolare all’ipotesi di cui al comma 5 della norma citata, che prevede la fattispecie di reato di traffico di sostanze stupefacenti di lieve entità.
2. Questo il fatto alla base della decisione, per come descritto dall’ordinanza: l’imputato è accusato di aver ceduto una dose di 2,2 g di hashish, dietro il pagamento di un corrispettivo di dieci euro. Il fatto è qualificato, dal giudice di merito, come un’ipotesi riconducibile all’art. 73, comma 5, T.U. stupefacenti, e l’imputato impugna la decisione contestando la mancata applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p.
Per comprendere i termini della questione è necessario esporre brevemente la disciplina di riferimento. Come già accennato, l’imputato è stato condannato in appello per il reato di cui all’art. 73, comma 5, T.U. stupefacenti: tale norma sanziona, con una pena sensibilmente più bassa rispetto alle ipotesi-base di cui ai commi precedenti, la produzione ed il traffico di stupefacenti quando tali condotte “per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze [siano] di lieve entità”; come è noto, la norma non differenzia tra droghe c.d. pesanti e droghe c.d. leggere[1].
L’attenuante di cui l’imputato invoca l’applicazione, invece, è una circostanza comune prevista dall’art. 62, n. 4, c.p., che, a seguito della modifica operata con l. n. 19 del 1990 non è più riservata ai soli delitti contro il patrimonio, ma è divenuta applicabile a tutti i delitti “determinati da motivi di lucro”; tale norma consente la riduzione della pena fino ad un terzo quando ricorrano due requisiti: da un lato, l’autore del reato deve aver agito per conseguire o deve aver comunque conseguito “un lucro di speciale tenuità”; dall’altro, è necessario che “anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità”. Si tratta di due elementi che debbono ricorrere congiuntamente perché l’attenuante possa trovare applicazione.
4. Sull’applicabilità di tale attenuante ai reati in materia di stupefacenti, ed in particolare all’ipotesi di cui all’art. 73, c. 5, la quarta sezione rileva un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, in quanto sul tema possono essere individuati due filoni di sentenze.
Secondo un primo orientamento, infatti, non si porrebbero problemi a configurare un’ipotesi di spaccio “lieve” ulteriormente attenuato dalla “speciale tenuità” del lucro avuto di mira o conseguito dall’autore dell’illecito[2]. A sostegno di tale conclusione, le sentenze richiamate dall’ordinanza in esame individuano una serie di argomenti: innanzitutto, si evidenzia come la fattispecie dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p., presenti un elemento specializzante rispetto all’ipotesi di fatto lieve ex art. 73, c. 5, in quanto tale ultima norma non richiede espressamente il perseguimento o il conseguimento di un lucro di speciale tenuità; pertanto, non si porrebbe un problema di doppia valutazione del medesimo elemento di fatto tanto ai fini della qualificazione ex art. 73, c. 5 T.U. stupefacenti quanto per l’applicazione dell’attenuante in questione.
Detto in altre parole: secondo le sentenze che accolgono tale orientamento giurisprudenziale, è ben possibile che vi sia un’ipotesi di spaccio “lieve”, ma in cui il lucro perseguito o conseguito non sia “di speciale tenuità”, per cui laddove ricorra tale elemento devono trovare applicazione congiuntamente le due norme in esame.
Un ulteriore argomento portato a sostegno della tesi favorevole all’applicabilità del 62, n. 4, c.p. si fonda sulla natura comune di tale circostanza attenuante, ed in particolare sul fatto che, specialmente a seguito della riforma del 1990, tale norma sembra destinata a trovare applicazione rispetto ad un numero non determinabile di fattispecie delittuose, stante il rilievo attribuito ai motivi che hanno spinto il soggetto ad agire. In particolare, il fatto che il legislatore abbia esteso l’applicabilità dell’attenuante de qua al di là dell’ambito dei reati “che comunque offendono il patrimonio” senza determinare limitazioni di sorta rispetto ai beni giuridici tutelati dalle norme incriminatrici rispetto a cui essa può trovare applicazione dovrebbe portare l’interprete a valutare volta a volta, in concreto, se ricorrano le condizioni richieste dalla stessa per la sua applicazione. In particolare, non si potrebbe escludere la “speciale tenuità” dell’offesa solo in ragione del bene giuridico che la norma incriminatrice mira a tutelare.
5. Un secondo orientamento, invece, sostiene la non applicabilità dell’attenuante del lucro di speciale tenuità alle fattispecie in materia di stupefacenti, ed in particolare all’ipotesi di cui all’art. 73, c. 5, T.U. stupefacenti[3]. Tale orientamento si fonda, in buona sostanza, su argomentazioni uguali e contrarie rispetto a quelle valorizzate dalle sentenze cui si è fatto prima riferimento: innanzitutto, secondo le pronunce che aderiscono a questo secondo filone interpretativo, la ridotta rilevanza economica della condotta – che è l’elemento costitutivo dell’attenuante di cui al 62, n. 4, c.p. – rappresenta uno dei parametri su cui valutare la lievità della condotta ai fini della qualificazione del fatto all’interno della fattispecie di cui al 73, c. 5, T.U. stupefacenti. Pertanto, si può dire che la speciale tenuità del profitto rappresenta un elemento costitutivo del reato, e non può venire in rilievo come circostanza attenuante, in base al disposto di apertura dell’art. 62 c.p.
In secondo luogo, l’orientamento contrario all’applicabilità dell’attenuante in esame allo spaccio “di lieve entità” si fonda sull’assunto per cui, nei reati in materia di sostanze stupefacenti, non si potrebbe mai avere un “evento dannoso o pericoloso […] di speciale tenuità”, in quanto le condotte punite dal d.P.R. 309/1990 sarebbero lesive della salute pubblica. In una recentissima pronuncia, la Cassazione afferma che è necessario “far riferimento anche al valore complessivo del pregiudizio arrecato” e non limitarsi a considerare l’aspetto economico in senso stretto della vicenda[4].
6. Sussistendo tale contrasto, la quarta sezione sottopone alle Sezioni Unite un quesito così formulato: “Se la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità di cui all'art. 62 n. 4 c.p. sia applicabile al reato di cessione di sostanze stupefacenti in presenza di un evento dannoso o pericoloso connotato da un ridotto grado di offensività o disvalore sociale, e se sia compatibile con l'autonoma fattispecie del fatto di lieve entità, prevista dall'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90".
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7. Senza addentrarci in un approfondito esame della questione di diritto proposta all’attenzione delle Sezioni Unite, non praticabile nell’economia di questa nota, proviamo qui a proporre solo qualche brevissimo spunto di riflessione, ipotizzando anche una possibile soluzione della questione sottoposta alle Sezioni Unite. In particolare, a parere di chi scrive, il quesito posto alle Sezioni Unite dovrebbe essere scisso nelle sue due componenti.
Innanzitutto, infatti, occorre soffermarsi sull’applicabilità, in generale, dell’attenuante in esame ai reati in materia di stupefacenti; in un secondo momento, poi, e solo qualora sia risolta positivamente tale prima questione, sarà possibile esaminare la compatibilità strutturale tra l’attenuante e l’ipotesi di traffico di stupefacenti “di lieve entità” ex art. 73, c. 5.
Con riferimento alla prima questione, occorre partire dal dato letterale dell’art. 62, n. 4, in base al quale il legislatore non sembra aver posto limitazioni di sorta all’ambito applicativo della norma in esame: laddove ne ricorrano i presupposti sopra enunciati, infatti, la norma dovrebbe applicarsi ad ogni fatto delittuoso che, in concreto, sia stato determinato da motivi di lucro[5]. L’ambito applicativo della fattispecie, dunque, viene a delinearsi in concreto alla luce del requisito per cui l’evento dannoso o pericoloso deve essere di speciale tenuità: come messo in luce da attenta dottrina, si tratta di un requisito che, proprio per il fatto di essere ancorato al concreto atteggiarsi dell’offesa cagionata dal reato, presta il fianco ad applicazioni ambigue[6].
Ciò non toglie che sia possibile cercare anche dei limiti in astratto all’applicabilità dell’attenuante in esame: in particolare, si potrebbe cercare una chiave di lettura nell’art. 131-bis c.p., che, al secondo comma, fornisce una definizione “in negativo” di “offesa di particolare tenuità”. La norma in questione, infatti, stabilisce che l’offesa non può essere considerata di particolare tenuità “quando l'autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona”. Tale definizione è espressamente qualificata dalla norma come relativa al concetto di particolare tenuità dell’offesa “ai sensi del primo comma”, tuttavia, si potrebbe forse sostenere che una ragione sistematica impone di considerarla anche ai fini dell’attenuante in esame: posto, infatti, che gli effetti del 131-bis c.p. sono ben più favorevoli, per il reo, dell’applicazione di una semplice attenuante, parrebbe del tutto irragionevole escludere dall’ambito di applicazione di quest’ultima categorie di reati che, in astratto, potrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della prima.
Detto in altre parole: se il legislatore ha ritenuto che vi possa essere “offesa di particolare tenuità” idonea ad integrare la causa di non punibilità di cui al 131-bis c.p. anche in ipotesi in cui, ad esempio, il reato comporti la messa in pericolo o la lesione della pubblica incolumità, non pare ragionevole ritenere che tale evento possa considerarsi già in astratto di non particolare tenuità – solo in base al bene giuridico leso o minacciato – ai fini dell’attenuante di cui al 62, n. 4, c.p.[7]
Peraltro, occorre fare un’ulteriore precisazione: se è vero che il bene giuridico tutelato dall’art. 73 del T.U. stupefacenti è un bene di primaria importanza, trattandosi della salute pubblica, è altresì vero che la struttura dell’offesa lo connota come reato di pericolo presunto[8]. Pertanto, si può ben ritenere che tale offesa sia graduabile in base all’entità del pericolo per il bene giuridico tutelato, da valutarsi alla luce di tutte le circostanze del caso concreto: la cessione occasionale di una ridottissima quantità di marijuana, ad esempio, determina un pericolo per la salute pubblica di gran lunga inferiore rispetto allo spaccio sistematico di un ingente quantitativo di una qualsiasi droga “pesante”; lo stesso dicasi della differenza che intercorre tra la condotta di colui che cede al giovane o giovanissimo consumatore la sua prima dose di una droga dotata di una “capacità di uncinamento” particolarmente intensa e quella di chi procura all’eroinomane l’ennesima dose di sostanza[9].
Ci sembra, dunque, che l’argomento utilizzato per negare l’applicabilità tout court dell’attenuante del lucro di speciale tenuità a qualsiasi fattispecie di reato avente ad oggetto sostanze stupefacenti fondato sulla rilevanza del bene giuridico tutelato, che ne impedirebbe la configurazione in ogni caso come “offesa di particolare tenuità” non regga né alla luce dell’argomento sistematico di confronto con l’art. 131-bis c.p., né alla prova dei fatti. Al più, si potrebbe ritenere che il requisito della speciale tenuità dell’evento offensivo conduca a ritenere applicabile tale attenuante solo ai fatti riconducibili all’ipotesi di produzione o cessione di sostanze stupefacenti di lieve entità, di cui all’art. 73, c. 5, T.U. stupefacenti.
8. Ciò detto, dunque, è possibile soffermarsi sul secondo argomento portato contro l’applicabilità dell’attenuante del lucro di speciale tenuità alla specifica ipotesi di spaccio di lieve entità di cui all’art. 73, c. 5, T.U. stupefacenti. Con riferimento a tale fattispecie, l’orientamento che nega l’applicabilità dell’attenuante in esame fa leva principalmente su un argomento di tipo strutturale: posto che l’esiguità del profitto è uno dei parametri che rientra nel concetto di “mezzi, modalità o circostanze dell’azione”, in base a cui il giudice sarebbe chiamato a valutare se si tratta di fatto “di lieve entità” ai sensi del 73, c. 5, una considerazione di tale elemento anche ai fini dell’attenuante in parola rappresenterebbe una duplicazione del beneficio in relazione al medesimo elemento di fatto.
Anche tale obiezione non sembra, tuttavia, insuperabile. È vero, infatti, che l’esiguità del lucro è certamente un elemento che il giudice può valutare ai fini dell’applicazione della fattispecie di spaccio di lieve entità; tuttavia, è bene soffermarsi brevemente sulla lettera delle due disposizioni, per comprendere se realmente facciano riferimento al medesimo concetto: in particolare, occorre considerare le locuzioni “lieve entità”, con cui l’art. 73, c. 5, T.U. stupefacenti qualifica il fatto di reato e “speciale tenuità”, che l’art. 62, n. 4, c.p. utilizza per definire il lucro avuto di mira o effettivamente conseguito dall’autore del reato. Ci sembra che i due concetti non siano del tutto sovrapponibili: la “speciale tenuità”, infatti, sembra essere un concetto più restrittivo, più intenso, di quello di “lieve entità”, e dunque un elemento specializzante per specificazione rispetto alla fattispecie base, idoneo a giustificare l’attenuazione di pena che deriva dall’applicazione del 62, n. 4, c.p.
Un’ulteriore riflessione per avvalorare quanto detto: la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ritengono che la causa di non punibilità di speciale tenuità ex art. 131-bis c.p. sia applicabile anche alla fattispecie di cui all’art. 73, c. 5, T.U. stupefacenti, in applicazione analogica della clausola di cui all’ultimo comma dell’art. 131-bis del codice[10]. Se, dunque, “lieve entità” e “particolare tenuità” fossero concetti perfettamente sovrapponibili, l’art. 73, c. 5, T.U. stupefacenti e l'art. 131-bis c.p. finirebbero per avere il medesimo ambito applicativo, almeno dal punto di vista oggettivo: la fattispecie di spaccio lieve rimarrebbe dunque applicabile solo ove non ricorressero gli altri elementi richiesti dall’art. 131-bis c.p., ed in particolare laddove la condotta dell’agente fosse abituale. Tale soluzione non pare però coerente con la ratio dell’art. 131-bis c.p., che è quella di espungere dal sistema penale quei fatti il cui grado di offensività si collochi in limine al livello inferiore di ogni singola fattispecie delittuosa cui la norma risulta applicabile, nell’ottica della depenalizzazione in concreto[11]. Pertanto, a noi pare che la nozione di “particolare tenuità” faccia riferimento ad un concetto diverso e più restrittivo di quello di “lieve entità”; e se ciò vale per l’art. 131-bis c.p., non si vede perché non debba valere anche per l’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p.
Infine, diverso ci sembra anche l’oggetto cui si riferiscono “lieve entità” ex art. 73, c. 5 e “speciale tenuità” ai sensi dell’art. 62, n. 4: l’art. 73, c. 5, infatti, richiede che la lievità connoti il fatto di reato in senso complessivo, ed indica a tal fine una serie di parametri non necessariamente cumulativi tra loro, come si evince dall’uso delle congiunzioni disgiuntive[12]. Al contrario, l’art. 62, n. 4, c.p. riferisce la speciale tenuità al solo lucro, avuto di mira o effettivamente conseguito. Pertanto, è possibile che vi sia un fatto lieve nel suo complesso in cui il lucro non sia di speciale tenuità; ciò giustifica, nel caso in cui tale elemento ricorra, l’applicazione dell’attenuante, senza che ciò comporti una duplice valutazione del medesimo fatto.
9. Sia consentita, infine, un’ultima considerazione relativa al caso di specie oggetto dell’ordinanza: come già detto, il fatto oggetto di imputazione consiste nella cessione di 2,2 g di hashish a fronte del corrispettivo di dieci euro. Dall’ordinanza non è dato capire se l’imputato abbia a suo carico precedenti penali specifici o se risultino elementi da cui desumere l’abitualità della condotta di traffico di stupefacenti: in assenza di tali elementi, però, non pare peregrino chiedersi per quale ragione non abbia trovato applicazione nel caso di specie la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.
È evidente come la condotta si caratterizzi per un ridottissimo grado di offensività, sia in ragione della modesta quantità di stupefacente ceduto, sia per il fatto che l’autore del fatto non risulta essere stato in possesso di ulteriori quantitativi di stupefacente da cedere in futuro, né degli strumenti per confezionare le singole dosi. La vicenda richiama immediatamente alla mente altri casi in cui per fatti connotati da una scarsissima offensività si sono susseguiti svariati gradi di giudizio, e fa sorgere ancora una volta il quesito circa l’opportunità di svolgere tre gradi di giudizio per un fatto che potrebbe essere qualificato come poco più che bagatellare[13].
[1] La formulazione attuale della norma, ed in generale la disciplina dell’intero art. 73, T.U. stupefacenti, è frutto di una lunga evoluzione, passata attraverso numerose riforme e più volte oggetto di attenzione da parte della Corte costituzionale (da ultimo, si veda C. Cost. sent. 23 gennaio 2019, dep. 8 marzo 2019, n. 40, con commento di C. Bray, Stupefacenti: la Corte costituzionale dichiara sproporzionata la pena minima di otto anni di reclusione per i fatti di non lieve entità aventi a oggetto le droghe pesanti, in Dir. pen. cont., 18 marzo 2019).
[2] Per i riferimenti giurisprudenziali, si veda il par. 2 dell’ordinanza in esame.
[3] Di nuovo, per l’individuazione degli estremi delle sentenze in questione si rinvia al par. 3 dell’ordinanza di rimessione.
[4] Si veda C. Cass., sez. III, sent. 2 maggio 2019 (u.p. 5 febbraio), n. 18013, in cui la Corte nega l’applicabilità dell’attenuante del 62, n. 4, ad un caso pur qualificato come “di lieve entità” avente ad oggetto la cessione di una sola dose di eroina cui si accompagnava la detenzione di 20 g della medesima sostanza.
[5] In tal senso, nella manualistica, si vedano G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale – Parte generale, VIII ed., Milano, 2019, p. 627, con riferimento all’aggravante “speculare” di cui all’art. 61, n. 7, c.p., ma valido, per espressa indicazione degli autori, anche per l’attenuante in oggetto (p. 640). In senso simile, G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, VII ed., Bologna, 2014, pp. 453 e 461.
[6] Il riferimento è, nuovamente, a G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., p. 463.
[7] Si pensi, per fare un esempio ulteriore rispetto al caso degli stupefacenti, al reato di cui all’art. 441 c.p., che rientra nell’ambito applicativo del 131-bis e che non risulta escluso dalla clausola di cui al secondo comma: si tratta di un reato la cui fattispecie richiede il pericolo concreto per la salute pubblica. Sarebbe assurdo ritenere non punibile tale condotta quando “di particolare tenuità” e non applicabile, invece, l’attenuante in esame.
[8] In tal senso, G. Piffer, Sub art. 73 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in E Dolcini – G. L. Gatta, Codice penale commentato, fondato da E. Dolcini e G. Marinucci, IV ed., Milano, 2015, pp. 2234-2235.
[9] Si pensi, per citare episodi realmente accaduti, alla differenza tra il fatto oggetto di giudizio – cessione di 2,2 g di hashish – e quello oggetto della già citata sent. n. 18013 del 2019, riguardante la cessione di una dose di eroina, contestuale al possesso di 20 g della medesima sostanza. Pur essendo vero che in entrambi i casi il lucro è stato particolarmente tenue – rispettivamente, dieci e venti euro – si può ritenere che solo nel primo caso l’evento pericoloso sia “di particolare tenuità”.
[10] Si veda, in particolare, G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, cit., p. 462.
[11] Si veda, al riguardo, A. Gullo, Sub art. 131-bis, in E Dolcini – G. L. Gatta, Codice penale commentato, fondato da E. Dolcini e G. Marinucci, IV ed., Milano, 2015, pp. 1947-1948
[12] L’esigenza di una valutazione complessiva del fatto, ai fini della sua sussunzione all’interno della cornice dell’art. 73, c. 5, è ben evidenziata da Cass., Sez. Un., sent. 9 novembre 2018 (u.p. 29 settembre), n. 51063, Murolo, in Dir. pen. cont., 21 novembre 2018.
[13] Su questo tema, si vedano G.L. Gatta, La Cassazione e il furto (tentato) di una melanzana: tra tenuità del fatto e patologie della giustizia penale, in Dir. pen. cont., 3 aprile 2018 e Id., Il ripetuto abbaiare di un cane vale un mese di arresto e tre gradi di giudizio penale? Considerazioni a margine di una annunciata riforma del sistema penale: perché non depenalizzare ancora?, in Dir. pen. cont., 11 febbraio 2019.