1. La vicenda sottoposta alla Corte di cassazione. – Il Pubblico Ministero, a seguito degli sviluppi di una articolata indagine in materia di frodi legate al settore delle corse ippiche, ritenendo che fossero emersi elementi tali da configurare la gravità indiziaria in ordine alla consumazione del reato di associazione per delinquere e di reati-fine, richiedeva al Giudice per le indagini preliminari l’emissione nei confronti di una pluralità di soggetti di ordinanza applicativa di misure cautelari personali e reali.
Il Giudice investito della richiesta – stanti una discreta risalenza nel tempo dei fatti-reato, la circostanza che molti degli indagati erano incensurati o comunque gravati da modesti precedenti penali, nonché l’intervenuta sospensione delle predette attività sportive a causa delle restrizioni legate alla espansione della pandemia di Covid-19 – non ravvisando la ricorrenza di ragioni di urgenza che gli avrebbero consentito di provvedere ai sensi dell’art. 291, comma 2, cod. proc. pen., si limitava a rilevare ed a dichiarare con ordinanza ex art. 22 cod. proc. pen. la propria incompetenza per territorio.
Una volta pervenuti gli atti all’Autorità Giudiziaria indicata come territorialmente competente, il pubblico ministero presso il relativo Tribunale investiva delle medesime richieste cautelari il Giudice per le indagini preliminari il quale, a sua volta, nei confronti di alcuni degli indagati per i quali non riteneva raggiunta la soglia della gravità indiziaria in ordine al reato associativo, ravvisava la ricorrenza di condizioni per dichiarare la propria incompetenza per territorio a favore dell’Autorità Giudiziaria originariamente chiamata a conoscere la vicenda.
Si veniva, in tal modo, a configurare un conflitto negativo di competenza ai sensi dell’art. 28, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. e, pertanto, il secondo Giudice ordinava ai sensi e per gli effetti del successivo art. 30 la trasmissione degli atti alla Corte di cassazione.
Il Collegio della Corte di cassazione chiamato a decidere, ritenendo sussistente un contrasto di giurisprudenza sulla procedura da osservare in caso di conflitto negativo di competenza tra giudici per le indagini preliminari, decideva di rimettere la questione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen.
Il Presidente Aggiunto della Corte, tuttavia, non ravvisando alcun contrasto di giurisprudenza in materia, disponeva ai sensi dell’art. 172, disp. att. cod. proc. pen. la restituzione degli atti al Collegio remittente.
Ad oggi il ricorso non risulta essere ancora stato deciso.
2. La problematica giuridica legata al modus procedendi e la base normativa di riferimento. – L’interessante questione di diritto processuale che si pone nel caso in esame è quella di verificare se la Corte di cassazione debba procedere secondo le modalità ordinarie indicate dall’art. 32 cod. proc. pen. ovvero se possa adottare modalità procedurali parzialmente differenti.
Il dubbio nasce dalla contrapposizione tra due esigenze: da un lato quella di rispettare le modalità procedurali indicate dal codice e, dall’altro, quella di salvaguardare i profili più propriamente “cautelari” legati ad una anticipata discovery del contenuto dell’incartamento procedimentale con concreto pericolo di vanificazione dei provvedimenti eventualmente adottandi.
La base normativa dalla quale prendere le mosse è l’art. 32 del codice di rito che, al comma primo, testualmente dispone che “i conflitti sono decisi dalla Corte di cassazione con sentenza in camera di consiglio secondo le forme previste dall’art. 127”.
È appena il caso di notare come nell’intero capo V, del titolo I, del libro I del codice di procedura penale si fa richiamo generico ai “giudici”[1] e che l’unica disposizione che sembrerebbe riferirsi specificamente ai giudici per le indagini preliminari è quella contenuta nel comma terzo dell’art. 28 che prevede che nel corso delle indagini preliminari non può essere proposto conflitto “positivo” fondato su ragioni di competenza per territorio determinata dalla connessione.
Nessun specifico riferimento è, quindi, contenuto nel codice di rito con riguardo ai conflitti “negativi” di competenza tra i giudici per le indagini preliminari.
Quanto, poi, alle modalità procedurali in senso stretto, come sopra ricordato, l’art. 32 richiama espressamente “le forme previste dall’art. 127”.
Quest’ultima norma, di carattere generale, disciplina il procedimento in camera di consiglio prevedendo un serie di adempimenti tra i quali la comunicazione (o la notificazione) dell’avviso contenente la data dell’udienza “alle parti, alle altre persone interessate e ai difensori”.
L’omissione di detto avviso è prevista a pena di nullità[2].
Naturalmente, in vista dell’udienza, gli atti trasmessi alla Corte di cassazione dai giudici in conflitto, le osservazioni e le memorie tempestivamente presentate in cancelleria, possono essere oggetto di esame e di estrazione di copia da parte dei soggetti processuali interessati.
Ci si domanda, allora, se in un caso come quello in esame sia opportuno rispettare pedissequamente le modalità procedurali sopra descritte ovvero se sia possibile adottare da parte della Corte di cassazione una procedura senza formalità, quindi senza far precedere al momento decisorio l’avviso alle parti private ed ai loro difensori, ciò al fine di evitare una anticipata discovery degli atti e, in particolare, della stessa richiesta di applicazione di misure cautelari, così da non vanificare gli esiti dell’eventuale esecuzione della stessa e, più, in generale degli eventuali ulteriori sviluppi delle indagini preliminari.
3. La giurisprudenza richiamata negli atti della Corte di cassazione a favore della tesi secondo la quale sarebbe applicabile una “procedura senza formalità”. – La Suprema Corte[3], con una propria decisione rimasta al momento isolata, ha espressamente affermato che, in un caso come quello in esame, il richiamo effettuato dall’art. 32 alle forme previste dall’art. 127 cod. proc. pen. comporterebbe la necessità di dare avviso della celebrazione della camera di consiglio al solo Procuratore generale e non anche alle altre persone interessate ed ai loro difensori, così salvaguardando le esigenze poste a base della richiesta di applicazione della misura cautelare.
Nella motivazione dell’ordinanza de qua la Corte ha, innanzitutto, fatto richiamo al principio secondo il quale la decisione riguardante la richiesta del pubblico ministero di applicazione di misure cautelari è doverosamente adottata dal giudice in base agli artt. 291 ss. cod. proc. pen., senza previo interpello della difesa, e senza discovery degli atti, trattandosi di tipico provvedimento “a sorpresa”, la cui concreta efficacia rischierebbe di essere vanificata dalla previsione di un immediato contraddittorio[4], per poi ulteriormente precisare che la medesima esigenza di assicurare la fruttuosità della misura eventualmente adottata, che dall'anticipazione del contraddittorio potrebbe essere compromessa, sussiste, in tutta evidenza, anche con riferimento al giudizio regolatorio della competenza, inscenato dinanzi alla Corte ad incidente cautelare pendente, giudizio che si configura, nella stessa fase, come sub-procedimento di natura incidentale nell'ambito del procedimento cautelare che ancora attende definizione.
Secondo la Suprema Corte, dunque, ragioni sistematiche precluderebbero l'applicazione dello schema processuale ordinario in tema di risoluzione dei conflitti di competenza che include la celebrazione dell'udienza camerale e la possibilità per l'indagato, e per il suo difensore, di prendervi parte.
A conforto di tale tesi si aggiungerebbe l’ulteriore osservazione, contenuta in varie pronunce della Corte[5], secondo la quale l'indagato non subirebbe alcun pregiudizio dalla mancata partecipazione all'incidente regolatorio, poiché il pieno contraddittorio sulla competenza potrà essergli assicurato nel prosieguo della fase delle indagini mediante la proposizione dell'istanza di riesame avverso l'eventuale provvedimento applicativo, ovvero nel giudizio a cognizione piena che ne dovesse seguire, trattandosi di una valutazione effettuata dalla Corte di legittimità rebus sic stantibus sulla base della prospettazione del pubblico ministero inquirente.
Nell’ordinanza di rimessione della decisione alle Sezioni Unite il Collegio rimettente ha, infine, fatto richiamo anche alla disposizione codicistica di cui all’art. 724 riguardante il procedimento di esecuzione delle rogatorie provenienti dall’estero, norma che, al comma sesto, prevede che in caso di contrasto gli atti sono trasmessi alla Corte di cassazione che decide secondo le forme previste dagli articoli 32, comma 1, e 127 “in quanto compatibili”, per poi ulteriormente precisare che l’avviso di cui all’art. 127, comma 1, è comunicato soltanto al Procuratore generale presso la Corte di cassazione.
4. I dubbi sulla correttezza dell’orientamento sopra richiamato. – È legittimo porsi dei dubbi in ordine alla correttezza della tesi sopra prospettata.
Volendo, infatti, aderire alla ricostruzione giurisprudenziale e normativa come sopra esposta, si finirebbe per arrivare ad affermare che la procedura partecipata di cui all’art. 127 cod. proc. pen., nel richiamo effettuato dall’art. 32, subirebbe un adattamento in funzione della tutela delle ragioni di riservatezza investigativa e che, quindi, la stessa disposizione di legge debba essere interpretata come se contenesse la clausola di salvaguardia “in quanto compatibili”, il che consentirebbe l’adeguamento dello schema normativo alle peculiarità della singola vicenda.
Tuttavia, vari sono gli argomenti che si possono contrapporre all’orientamento sopra descritto.
Innanzitutto, vi è la chiara base normativa che non sembra suscettibile di interpretazioni o di letture alternative.
È appena il caso di ricordare che il codice di rito del 1930 prevedeva per la risoluzione dei conflitti la procedura in camera di consiglio, imponendo alla Corte di decidere sulla sola base delle requisitoria del Procuratore generale ma senza l’intervento dei difensori[6].
Tuttavia, è agevolmente ricavabile dalla Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del vigente codice di rito, che la scelta dell’attuale disciplina è stata frutto della maturata consapevolezza della carenza del codice precedente in punto di garanzia del contraddittorio, con la conseguenza che l’attuale testo dell’art. 127 si è correttamente conformato all’art. 2, comma 1, n. 15, della l. 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale) che, con riguardo alla disciplina dei conflitti di giurisdizione e di competenza, ha espressamente previsto sia l’“obbligo di comunicare a tutte le parti la denuncia del conflitto”, sia la “garanzia del contraddittorio nel relativo procedimento”.
A ciò si aggiunge che il rispetto della sopra citata previsione del comma primo dell’art. 127 cod. proc. pen., relativa alla necessità di comunicare o notificare l’avviso contenente la data dell’udienza “alle parti, alle altre persone interessate e ai difensori”, è rafforzato dal disposto del comma quinto dello stesso articolo 127 che espressamente ricollega la sanzione di nullità al mancato rispetto del disposto del precedente comma primo.
Ora, seppure caratterizzato da ragionamenti dotati di una indiscutibile intrinsecità logica, l’orientamento giurisprudenziale sopra riportato, nel momento in cui tenta di accreditare la possibilità di una deroga al disposto del comma primo dell’art. 127 così, di fatto, giungendo ad escludere anche una sanzione di nullità espressamente prevista dal legislatore, appare difficilmente condivisibile, aprendo addirittura alla possibilità di ricadute “a cascata” della sanzione di nullità ad atti successivi alla individuazione della competenza decisa dalla Cassazione con sentenza nulla.
Né appare risolutivo, o comunque rafforzativo dell’orientamento favorevole alla decidibilità del conflitto di competenza de quo senza l’instaurazione di un contraddittorio “pieno” con tutte le parti interessate, il sopra citato riferimento al contenuto dell’art. 724 cod. proc. pen. nella parte in cui richiama l’applicazione delle disposizioni degli artt. 32, comma 1, e 127 “in quanto compatibili”, non solo perché riguarda una fattispecie del tutto diversa, ma anche perché appare semmai più ragionevole una lettura secondo la quale se il legislatore avesse voluto prevedere anche nel caso di conflitti di competenza l’applicazione delle forme dell’art. 127 “in quanto compatibili” avrebbe inserito tale inciso nell’art. 32: ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit!
Del resto, le stesse Sezioni Unite della Corte di cassazione[7], seppure occupandosi di un caso diverso ma, comunque, in una sentenza volta anche a ricostruire l’iter procedimentale ed applicativo dell’art. 127 cod. proc. pen. hanno avuto modo di chiarire che “il nuovo codice di rito ha predisposto un modello generale del procedimento in camera di consiglio con un'apposita norma, quella dell'art. 127, la cui disciplina di base, diretta ad esaltare i profili di garanzia del contraddittorio orale mediante la - eventuale - partecipazione delle parti, sembra, in linea di principio, applicabile in ogni ipotesi di specie ove non sia diversamente previsto”, aggiungendo, poi, in un passaggio immediatamente successivo, che in quelle norme del codice (tra cui è ricompreso anche l’art. 32, comma 1) nelle quali il riferimento al procedimento "in camera di consiglio" è rafforzato dall'espresso richiamo alle "forme dell'art. 127" non vi sarebbe nulla che autorizzi il giudice a deliberare senza l'osservanza di alcuna formalità.
Non sembra, altresì, idonea a superare i dubbi sopra esposti la già citata argomentazione secondo la quale l'indagato non subirebbe alcun pregiudizio dalla mancata partecipazione all'incidente regolatorio, poiché il pieno contraddittorio sulla competenza potrà essere assicurato nel prosieguo della fase delle indagini mediante la proposizione dell'istanza di riesame avverso l'eventuale provvedimento applicativo, ovvero nel giudizio a cognizione piena che ne dovesse seguire, trattandosi, al momento, di una valutazione effettuata dalla Corte di legittimità rebus sic stantibus sulla base della prospettazione del pubblico ministero.
Se, infatti, è effettivamente possibile che la compressione del diritto di partecipazione della parte privata al contraddittorio innanzi alla Corte di cassazione, per quanto appena detto, si potrebbe risolvere in una limitazione temporanea e non irreversibile, essendo la valutazioni operate dalla Corte di cassazione in sede di risoluzione del conflitto legate alla prospettazione del pubblico ministero ed alla conformazione dell’addebito cautelare che potrebbero mutare nel prosieguo delle indagini o nel successivo giudizio, così come è vero che l’art. 25 del codice di rito stabilisce che la decisione della Corte di cassazione sulla competenza “è vincolante nel corso del processo, salvo che risultino nuovi fatti che comportino una diversa definizione giuridica da cui derivi la modificazione della giurisdizione o la competenza di un giudice superiore”, è però altrettanto vero che la decisione assunta dalla Corte Suprema non è per l’indagato del tutto indifferente – sia ab origine che nel prosieguo dell’attività procedimentale – alla luce del principio generale secondo il quale “in materia di competenza per territorio, la decisione della Corte di cassazione, seppure adottata nella fase delle indagini preliminari, ha efficacia vincolante per tutte le fasi del giudizio, salvo il caso di sopravvenienza di fatti nuovi che ne impongano un riesame”[8].
In estrema sintesi è ictu oculi evidente che non è del tutto irrilevante per l’indagato l’individuazione del giudice che sarà ab origine chiamato ad esaminare la sua posizione, con la conseguenza che, qualora detta individuazione sia frutto di una decisione (seppure non irrevocabile) assunta al di fuori di un regolare contraddittorio, la stessa inevitabilmente finirà per incidere su di una molteplicità di aspetti sia procedimentali che sostanziali sui quali l’indagato stesso è stato privato della possibilità di interloquire innanzi alla Corte di cassazione.
Non è, poi, neppure del tutto convincente la tesi secondo la quale proprio la struttura del sub-procedimento cautelare, nel quale finisce per confluire anche la fase della risoluzione del conflitto di competenza innanzi alla Corte di cassazione, consentirebbe una deroga al rispetto del contraddittorio regolato dall’art. 127 cod. proc. pen.
Se, infatti, è ben vero che, come chiarito anche dalla Corte di cassazione[9], il codice di rito non prevede per la presentazione di richiesta di applicazione di misura cautelare l’instaurazione di un previo contraddittorio tra accusa e difesa[10] al punto che, se anche il contraddittorio per altre ragioni è già stato instaurato ed addirittura ci si trova già nella fase di pubblica udienza, è stata ritenuta comunque legittima una richiesta presentata al giudice non nell’udienza stessa ma con autonoma missiva, ciò non toglie che, qualora il sub-procedimento cautelare evolva in una fase successiva a quella della richiesta del pubblico ministero cui segua l’emissione di una decisione da parte del giudice, il contraddittorio debba comunque essere instaurato.
Si pensi, a mero titolo di esempio, al caso in cui alla richiesta di applicazione di misura cautelare avanzata dal pubblico ministero segua un mero provvedimento di rigetto da parte del giudice. Orbene, in una simile situazione, nessuna discovery processuale sarebbe ancora avvenuta, ma qualora il pubblico ministero decidesse di non acquietarsi su tale decisione e di proporre l’appello “de libertate” ex art. 310 cod. proc. pen., la discovery anticipata rispetto alla (eventuale) successiva emissione del provvedimento di applicazione della misura cautelare avverrebbe comunque, essendo necessaria l’instaurazione innanzi al Tribunale del riesame di un pieno contraddittorio tra le parti visto, anche in questo caso, l’espresso richiamo fatto dal secondo comma dell’art. 310 cod. proc. pen. ad un procedimento in camera di consiglio “nelle forme previste dall’art. 127” (dicitura identica a quella di cui all’art. 32, comma 1, cod. proc. pen.).
Senza contare, poi, che detto pieno contraddittorio, sempre in pendenza di una richiesta di applicazione di misura cautelare che non ha (ancora) trovato accoglimento potrebbe anche proseguire innanzi alla Corte di cassazione qualora il pubblico ministero decidesse di impugnare anche l’ulteriore decisione di rigetto di avviamento del trattamento cautelare emessa dal Tribunale del riesame. Anche in quest’ultimo caso appare quasi superfluo ricordare che, ai sensi del comma 5 dell’art. 311 cod. proc. pen., la Corte di cassazione dovrà procedere “osservando le forme previste dall’art. 127”.
Ma, se nessuno sembra dubitare che i procedimenti di cui agli artt. 310 e 311 cod. proc. pen. attivati dal pubblico ministero in una situazione di originario rigetto della richiesta di applicazione di misura cautelare si debbano svolgere nel rispetto di un contraddittorio pieno e previa discovery delle emergenze investigative e ciò in una situazione nella quale è ancora pendente la richiesta cautelare, non si vede allora la ragione per la quale ricondurre a modalità diverse la procedura di cui al combinato disposto degli artt. 32 e 127 cod. proc. pen.
5. Considerazioni conclusive. – È indubbio che il tentativo compiuto da una parte della giurisprudenza di prevedere innanzi alla Corte di cassazione lo svolgimento di un procedimento ex art. 32 cod. proc. pen. senza instaurazione di un contraddittorio con tutte le parti interessate e, in particolare, dell’indagato, sia commendevole e finalizzato a salvaguardare l’esito delle indagini ed a garantire un pieno risultato delle misure cautelari di cui è stata richiesta l’applicazione. Tuttavia, appare altrettanto indubbio che giudici non possono sostituirsi al legislatore liberamente interpretando ed applicando norme processuali dal contenuto assolutamente chiaro.
È pacifico che esiste un vulnus normativo in materia, ma solo il legislatore potrebbe colmarlo prevedendo una procedura diversificata in situazioni come quella qui esaminata.
Per il resto il tutto è nelle mani del pubblico ministero che non solo è chiamato ad effettuare una preliminare ed attenta valutazione delle questioni relative alla competenza territoriale, che è libero di decidere se e quando inoltrare al giudice richieste di applicazione di misure cautelari (ovvero di reiterarle in caso di declaratoria di incompetenza di un primo giudice e/o di insistere impugnando decisioni di rigetto) ma che deve anche agire nella piena consapevolezza che dalle proprie scelte di strategia procedimentale potrebbe anche derivare una prematura discovery degli esiti delle indagini con tutte le ulteriori conseguenze.
[1] Ordinari o speciali.
[2] Art. 127, comma 5, cod. proc. pen.
[3] Sez. 1, Ord. n. 19308 del 09/06/2020, Rv. 279191.
[4] v. anche Sez. 1, Sent. n. 5271 del 25/09/1997, Rv. 208796.
[5] Sez. 1, Sent n. 39605 del 14/06/2018, Rv. 273867; Sez. 3, Sent. n. 16478 del 16/12/2016, dep. 2017, Rv. 269692; Sez. 2, Sent. n. 35630 del 14/06/2017, Rv. 270861).
[6] v. artt. 54 e 531, commi secondo e terzo, R.D. 19 ottobre 1930, n. 1399.
[7] Sez. U, Sent. n. 26156 del 28/05/2003, Rv. 224612.
[8] Sez. 1, Sent. n. 9413 del 14/02/2013, Rv. 255065.
[9] Sez. 1, Sent. n. 4360 del 25/06/1996, Rv. 205500
[10] L’unico caso che deroga a tale regola prevedendo la previa instaurazione del contraddittorio e che è disciplinato dal codice è quello della procedura di convalida di arresto o di fermo con contestuale richiesta di avviamento del trattamento cautelare (v. anche Sez. U, Sent. n. 33 del 22/11/2000, Rv. 217244) al quale si aggiunge l’ipotesi relativa all’applicazione di misure interdittive così come disciplinata dal comma 2 dell’art. 289 cod. proc. pen.